PRIMA IL RATTO DI UNA RAGAZZINA A FINE DI MATRIMONIO POI
L’ASSASSINIO DEL SUOCERO
Due anni prima aveva rapito la figlia della vittima minore di età che poi aveva sposato. Il giorno del delitto la giovane moglie abbandonando il figlioletto di pochi mesi presso i familiari del marito si era rifugiata presso la nonna materna. Il marito ingiunse alla sorella di portare il bambino ai suoceri questi si rifiutarono di riceverlo… Tre colpi in faccia al suocero ( che aveva lo aveva da sempre aiutato) poi la fuga…
LA VITTIMA |
Il delitto accadde ad Arienzo il 20 giugno del 1954
Arienzo
- Un
capraio violento, il 25enne Stefano
Sabatasso, resosi responsabile di
ratto di minore a scopo di matrimonio;
abbandono del tetto coniugale con violenze, contrasti sul figlio nato dalla
relazione, ed il culmine con l’omicidio del suocero. Il 20 giugno del 1954 i carabinieri
segnalavano che alle ore 15 di quel giorno il capraio Stefano Sabatasso aveva
esploso tre colpi di pistola contro il proprio suocero Umberto Petrone, di anni 44, il quale raggiunto da due proiettili
(al braccio destro e al secondo spazio intercostale destro) era deceduto per
emorragia interna mentre l’autore dell’omicidio erasi dato alla latitanza. Il
Pretore recatosi nel cimitero di San
Felice a Cancello – con l’assistenza di un perito – constatava la presenza di
due ferite d’arma da fuoco secondo la descrizione dei carabinieri. Disposta
l’autopsia venivano accertate le ferite e le cause della morte. Dopo 5 giorni
dal delitto l’assassino si consegnava ai carabinieri. Questi ultimi accertavano
che il Sabatasso, due anni prima, aveva rapito la figlia minore della sua
vittima Vincenza Petrone (che poi aveva sposato e dalla quale aveva
avuto un bambino); che l’unione non era stata felice per il carattere violento
e rissoso del giovane capraio, poco inclino al lavoro e poco amante della
famiglia anzi dedito al gioco e alla frequentazione di prostitute di campagna. Tra
l’altro il giovane pretendeva di vivere alle spalle del suocero, onesto
lavoratore ma con scarse risorse economiche e con tre figli a carico. Il 17
giugno, (tre giorni prima del delitto), Vincenza Petrone, stanca del
comportamento del violento marito aveva improvvisamente abbandonata la sua casa
affidando il figlioletto di pochi mesi
ai familiari del Sabatasso.
Questi, a sua volta – il giorno del delitto – aveva
dato incarico alla sorella Antonietta
Petrone di portare il bambino dai
suoceri affinché fosse consegnato alla moglie che era andata a vivere presso la
nonna materna in via Cave. Ma i coniugi
Petrone (secondo le dichiarazioni della moglie della vittima e della Antonietta
Sabatasso, sorella dell’imputato) non avevano voluto ricevere il nipotino
esprimendo la volontà che il figlio fosse consegnato alla madre direttamente
dal Sabatasso. Quest’ultimo, appresa la risposta dei suoceri si era diretto nella loro abitazione
sorprendendo il suocero seduto su una scalinata del cortile insieme alla moglie
Marta Ferrara, al figlio Mattia di 13 anni e alla giovane Olimpia Piscitelli che si trovava per
caso assieme ai Petrone. Secondo le
versioni dei tre testimoni il Sabatasso si era nel cortile accompagnato dalla sorella che
recava in braccio il pargoletto. Il giovane – con fare arrogante – si era
rivolto ai suoceri e aveva esclamato: “ Prendete
mio figlio e portatelo a Via Cave a mia moglie!”… A tale frase il suocero
aveva risposto: “E… se non glielo
porto?”… A questo punto il giovane avrebbe estratto una pistola e con essa
aveva fatto fuoco contro il Petrone. Questi – secondo la deposizione della
moglie Marta Ferrara – aveva cercato di
ripararsi verso un gabinetto sito a fianco della scalinata ma era caduto a
terra colpito a morte mentre il genero -
dopo avere tentato di puntare l’arma contro la suocera – che gli si era
avventata contro con una sedia – aveva sparato ancora un terzo colpo verso il
marito. La giovane testimone Olimpia Piscitelli, affermava di aver sentito solo
il primo colpo – non avendo notato per lo spavento – se erano seguiti altri
spari ma confermava che il Petrone era caduto nei pressi del gabinetto ove era
stato poi soccorso dai suoi familiari. Un altro teste, Carmine
Lettieri - che abitava nello stesso
cortile del Petrone – dichiarava di aver udito nell’occasione due colpi di arma
da fuoco e di essere subito accorso in aiuto del Petrone da lui rinvenuto,
nella località indicata dagli altri, fra gli spasimi della morte. Quanto al
Sabatasso il medesimo ammetteva di avere esploso nelle circostanze già indicate
due colpi di pistola contro il suocero. Egli affermava tuttavia che, dopo che
la sorella lo aveva messo al corrente del rifiuto dei suoceri di ricevere il
bambino, egli si era recato personalmente per convincere il Petrone a
consegnare il figlioletto alla moglie. Ma
costui aveva risposto che non voleva saperne nulla e quindi, afferrato un
“ronciglio” aveva fatto il gesto di aggredirlo onde egli – per difesa personale
– aveva fatto fuoco contro di lui per due volte dandosi quindi alla fuga. Confermava
tale sua deposizione sia al Pretore che al Giudice Istruttore ma contestava il
fatto di aver fatto mancare al figlio e alla moglie i mezzi di sussistenza e
chiariva di essersi recato dal suocero perché il figlio – a causa
dell’allontanamento dalla casa della madre – si trovava da tre giorni senza
latte. Ma il suocero gli aveva risposto in tono arrogante e quindi aveva fatto
il gesto di aggredirlo. Precisa inoltre di non aver avuto l’intenzione di uccidere
il suocero e che volendo esplodere un solo colpo per intimidire il Petrone,
dall’arma era partito inavvertitamente anche il secondo colpo. Chiusa la fase
istruttoria, con sentenza del 31 agosto del 1955, il Sabatasso veniva rinviato
al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere sotto la pesante
accusa di omicidio volontario aggravato, di minaccia aggravata con arma e
illegale possesso della stessa.
Al fascicolo per il delitto
del suocero era stato anche allegato l’incartamento relativo al sequestro della
ragazza per il quale il Sabatasso era stato accusato di ratto di minore, poi, con sentenza del 26 settembre del 1952
(circa due anni prima del delitto) avendo il giovane contratto regolare
matrimonio, peraltro celebratosi all’interno del carcere mandamentale di
Arienzo ove era detenuto – a seguito di
querela sporta dalla madre della giovane Marta
Ferrara – durante l’assenza del marito per aver rapito la ragazza il 2
settembre precedente – era stato prosciolto dall’accusa di ratto. Nell’approfondimento
di questo “sequestro di minore” gli inquirenti – in seguito a dettagliato
rapporto dei carabinieri – lessero la germinazione del conseguente delitto. I
due giovani tempo prima erano stati
fidanzati, col pieno consenso dei loro genitori, ma che in seguito essi avevano
troncato la relazione. E’ significativo a questo proposito che il Sabatasso –
all’atto del suo arresto per il rapimento – asserì ai carabinieri che il
fidanzamento si era rotto per aver egli avanzato delle pretese circa la dote della
ragazza, che il Petrone non aveva voluto accettare. Il Sabatasso in seguito
precisò, però, che si trattò, invece, di uno dei soliti banali litigi che
sogliono verificarsi tra innamorati. Diverse invece le dichiarazioni rese dalla
Vincenza Petrone – in quella
circostanza – che sembrano avvalorare tale assunto per la precisazione fatta
dalla giovane che essa aveva abbandonato il fidanzato giacchè questi aveva
criticato le sue condizioni “fisiche” – non appare difficile desumere – che il
realtà il Sabatasso si determinò a tale riprovevole comportamento proprio per
piegare la volontà del Petrone alle sue richieste che avevano indotto l’altro a
negare il suo consenso alle nozze. La Vincenza Petrone in seguito ebbe a
chiarire che queste erano le precise intenzioni del marito ed è abbastanza
intuitivo rendersi contro della contrastante affermazione fatta dalla giovane
all’epoca del suo rapimento in vista del prossimo matrimonio “riparatore” con
il Sabatasso. Comunque a nessuno sfugge la eccessiva fragilità delle
dichiarazioni del Sabatasso che di certo non avrebbe avuto bisogno di ricorrere
ad un “ratto” per pacificarsi con la sua fidanzata per la banalità stessa della
pretesa ragione di dissidi; mentre, al contrario è fin troppo logica la seconda
supposizione che, ammessa dal medesimo Sabatasso; come si è detto, all’epoca
dei fatti non può formare oggetti di dubbio in considerazione anche del
successivo comportamento dello stesso. L’arresto
di quest’ultimo – scrissero i giudici nella sentenza di rinvio a giudizio – per
la tempestiva querela proposta dalla madre della giovane, doveva
necessariamente far naufragare la sua poca onesta speranza di imporre i termini
dell’accordo matrimoniale.
Egli si trovò infatti nella condizione di dover
sposare la Petrone per eludere le conseguenze penali; non certo lievi, del suo
comportamento; tant’è che sposò la ragazza in carcere ma senza rinunziare alle
sue antiche pretese economiche che il futuro suocero non aveva ritenuto di
poter accettare. Benvero il Petrone con apprezzabili comprensione per le
esigenze della nuova famiglia e compatibilmente con le sue modestissime
condizioni di manovale, non si era mostrato
verso il genero, gretto ed indifferente. Deve essere al riguardo tenuto
presente – precisarono ancora i magistrati inquirenti – a parte quanto
dichiarato dalla vedova e dagli altri familiari dell’ucciso, che l’imputato ha
ammesso durante i suoi interrogatori che il suocero, dopo il matrimonio, lo
aveva aiutato in vario modo dandogli venti
o trentamila lire e che pagava per lui, quando egli non aveva denaro, il fitto
di casa. In chiusura il Sabatasso venne
rinviato al giudizio della cort3e di Assise di Santa Maria Capua Vetere per
rispondere di omicidio volontario aggravato.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
AVV. GIUSEPPE MARROCCO |
LA CONDANNA FU A 22 ANNI DI RECLUSIONE. VERDETTO CONFERMATO
IN APPELLO E CASSAZIONE. CONTRO DI LUI COSTITUITE PARTE CIVILI LA MOGLIE, LA
SUOCERA E LA MAMMA DELLA VITTIMA
Stefano
Sabatasso venne rinviato al giudizio della Corte di Assise del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, per rispondere omicidio volontario
aggravato nei confronti di Umberto
Petrone suo suocero e di manaccia aggravata contro la suocera Marta Ferrara. Contro di lui si
costituirono parte civili la moglie, la suocera e la mamma della vittima. In
ordine alla qualificazione giuridica dell’episodio – scrissero i giudici della
Corte nella loro sentenza di condanna – non è possibile certo dubitare della
volontà omicida dell’imputato tenuto presente che, come risulta dalla perizia,
egli attinse la vittima, da breve distanza, in pieno petto con un mezzo
tipicamente omicidiario quale la pistola, reiterando i colpi. Egli va
condannato pertanto per il delitto di omicidio volontario aggravato in rapporto
alla affinità della vittima. Dubbia appare, invece, la sua responsabilità per
il delitto di minaccia grave in persona della suocera Marta Ferrara, giacché
apparendo evidente dalle dichiarazioni di costui che egli fu animato dalla precisa
intenzione di uccidere il suocero, ben potrebbe spiegarsi il rapido puntamento
della pistola contro di lei dovuto esclusivamente al perseguimento della
vittima che in realtà aveva cercato di sottrarsi alla furia aggressiva del
Sabatasso. Considerando le modalità dell’avvenimento e l’assoluta immoralità
del delitto in rapporto alla qualità della vittima si stima fissare la pena per
il delitto di omicidio in anni 26 di reclusione.
AVV. ALFONSO MARTUCCI |
Ma la Corte, composta dal
presidente Giovanni Morfino; con
giudice a latere, Renato Mastrocinque
e pubblico ministero, Nicola Damiani
fu clemente. E sentenziò: “Tenuto
presente tuttavia la giovane età del colpevole – di appena 25 anni all’epoca
del fatto – si ritiene concedergli le attenuanti generiche diminuendosi pertanto
la suddetta pena a quella di anni 22 di reclusione. La condanna fu confermato sia in sede di
appello (sentenza della corte di Appello di Napoli del 18 aprile del 1958) che in Corte di Cassazione con sentenza del
20 gennaio del 1960. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Alfonso Raffone, Alfonso Martucci, Lorenzo
Ferillo, Vittorio Botti, Giuseppe Marrocco e Alfredo De Marsico.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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