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martedì 25 aprile 2017



Il delitto avvenne a San Cipriano d’Aversa verso le core 11,30


del 16 aprile del 1956, in una zona campestre di via Serao,


RAFFAELE BUONANNO UCCISE
GIOVANNI BENITO DI GIROLAMO PER UN DIVERBIO SUL GIOCO DEL BIGLIARDO e anche perché amoreggiava con la sorella Maria


Nel  tentativo di simulare una legittima difesa l’assassino si impossessò della pistola della vittima. Un tempo nella zona era come il Far West: tutti armati… abusivamente.

 

Impossibilitato a reagire subito per l’intervento di terzi, avesse  pensato di vendicarsi dell’offesa ricevuta secondo la triste consuetudine della zona – con la uccisione dell’amico – che aveva attirato nella località del delitto.

 

San Cipriano d’Aversa – Verso le core 11,30 del 16 aprile del 1956, in una zona campestre del paese, a circa cinquanta metri dall’ultima casa di via Serao, il 17enne Giovanni Benito Di Girolamo veniva fatto segno dal giovane Raffaele Buonanno a più colpi di arma da fuoco che lo rendevano immediatamente cadavere. I carabinieri di Casal di Principe informati del delitto accedevano nella località e rinvenivano tale Cipriano Capoluongo – zio dell’ucciso – mentre tentava di trascinare il corpo del nipote nella sua abitazione. Sul posto del delitto veniva notato dai carabinieri un pezzo di pane, del peso di circa 80 grammi, condito con olio e in parte morsicato, nonché due bossoli di pistola automatica cal. 7,65. Nicola Sarracino, Tommaso Mangiacapra, Annunziata Coppola e Giuseppina Oronos i quali si trovavano,  chi nella propria abitazione, e chi intendo al lavoro nei campi, dichiaravano di aver udito l’esplosione  di tre colpi di pistola e di essere accorsi, attratti dagli spari sul luogo del delitto rinvenendovi il corpo del ragazzo giacente per terra già inanimato. Il Mangiacapra specificava di aver notato, prima degli spari, due giovani parlare fra di loro,  uno dei quali era stato da lui visto subito dopo gli spari fuggire verso l’abitato di San Cipriano. Tale Gilda Capasso asseriva di essere passata per quella località verso le ore 11,30 e di aver scorto due giovani – fermi in mezzo alla strada – che discutevano amichevolmente con il sorriso sulle labbra senza però udire che cosa dicessero. Dalle pronte indagini esperite dai carabinieri risultava altresì  che verso le ore 13 del giorno precedente nel “Bar 900” di San Cipriano,  Raffaele  Buonanno e Giovanni Di Girolamo erano venuti a diverbio e che durante tale lite il Buonanno aveva tentato di colpire l’altro prima con la stecca del bigliardo e quindi con le mani venendo impedito dall’intervento di un fratello dell’esercente tale Vittorio Del Villano il quale li aveva separati. A tarda sera del 18 aprile il Buonanno si costituiva  ai carabinieri e, consegnando una pistola a rotazione – carica di sette cartucce –assumeva che la stessa era di pertinenza dell’ucciso e dichiarava che il mattino del 16 era uscito di casa per acquistare del materiale elettrico, onde completare un impianto in casa di tale Maria Zippo, e si era imbattuto in strada con una sorella dell’ucciso, a nome Maria la quale gli aveva chiesto se la sera precedente si fosse divertito ad una festa in casa di un suo parente, ove si era recata anch’ella insieme con il fratello Giovanni; che dopo aver parlato per circa 10 minuti con la ragazza aveva proseguito per la sua strada ma nei pressi del “Bar 900” aveva incontrato il Di Girolamo, che, smontato da una bicicletta, lo aveva con insistenza invitato a seguirlo perché doveva parlargli facendogli presente che si trattava di una sorpresa; per i suoi rapporti di amicizia  col Di Girolamo si era prestato di buon grado a seguirlo in via Serao, senonché, giunti nella località campestre, quegli gli aveva chiesto se amoreggiasse con la sorella Maria ed alla sua risposta negativa aveva pronunciato parole offensive contro la sorella dicendo ancora che era giunto l’ultimo giorno della  vita del Buonanno. Il Di Girolamo aveva poi estratto una pistola dalla cinta dei pantaloni – ma egli aveva afferrato il braccio armato, portandolo in aria ed ingaggiando – in tale posizione – una colluttazione durante la  quale aveva cercato di disarmare il Di Girolamo, che, invece, tentava di svincolarsi; ad un certo momento la pistola dell’aggressore lo aveva urtato alla fronte producendogli una piccola lesione ed allora temendo il peggio egli aveva estratto a sua volta una pistola automatica marca Beretta, cal. 7,65 di sua proprietà, mai denunciata, e con la stessa da brevissima distanza aveva esploso alcuni colpi contro il Di Girolamo dandosi poscia alla fuga previo impossessamento dell’arma della vittima. Il Buonanno ammetteva altresì di essere venuto a diverbio con il Di Girolamo nel “Bar 900”, il giorno prima e di aver fatto il gesto di colpire senza riuscirci.   Invitati dai carabinieri   a consegnare l’arma adoperata per il delitto i familiari del Buonanno recapitavano in caserma,  la sera del 19 aprile,  una pistola Titanic cal. 7,65 automatica ancora carica di quattro cartucce. La giovane Maria Di Girolamo ammetteva di avere scambiato poche parole col Buonanno stando sulla soglia della propria abitazione e di aver spiegato allo stesso che la sera precedente era andata via prima che si chiudesse la festa perché il padre era infermo. Precisava che, dopo pochi attimi dopo la fine di tale colloquio, il fratello Giovanni (il quale, nel frattempo, doveva essersi trattenuto  in un terraneo sito all’angolo della via e adibito a riparazione di biciclette) aveva fatto rientro in casa uscendone, però, di nuovo dopo aver preso del pane condito con olio. Negava che il fratello possedesse una pistola, di essere fidanzata con il Buonanno e di aver saputo della lite insorta fra i due il giorno precedente. Asseriva che la notizia dell’omicidio le era giunta appena una decina di minuti dopo la sortita del Giovanni.


In esito alle indagini espletate – con rapporto del  20 aprile 1956 – i carabinieri denunziavano il Raffaele Buonanno per omicidio premeditato ritenendo che il predetto, offesosi da un’osservazione fattagli dal Di Girolamo durante il giuoco a bigliardo – impossibilitato a reagire subito per l’intervento di terzi, avesse  pensato di vendicarsi dell’offesa ricevuta secondo la triste consuetudine della zona – con la uccisione dell’amico – che aveva attirato nella località del delitto. A seguito di tale denunzia si procedeva col rito formale e con mandato di cattura per il delitto di omicidio. Dall’autopsia effettuata sulla vittima emergevano le seguenti lesioni: vasta zona ecchimotica sullo zigomo sinistro; contusioni escoriate alla punta del naso e sul labbro superiore (regione del filtro); una dei denti incisi superiori scheggiato; altre abrasioni alla regione mentoniera, alla regione deltoidea destra, alla rotula sinistra, forame a margini netti, infroflessi ed anneriti, al braccio sinistro (altezza del terzo medio) sulla faccia interna altro piccolo forame – non penetrante – nelle masse muscolari, ed altre ferite anche al cuore. I periti settori giudicavano, pertanto, che la morte del Di Girolamo fosse stata causata   da una cospicua ed infrenabile emorragia interna ed esterna per ferita cardiaca in conseguenza di colpi esplosi da breve distanza – con direzione dall’altro verso il basso e dalle regioni anteriori a quelle posteriori (ad eccezione del colpo al braccio sinistro presumibilmente curvato dalla vittima in movimento distintivo di difesa). Un perizia balistica effettuata sui bossoli repertati e sull’arma Titanic  - che il Buonanno sosteneva di aver usato per il crimine – accertava che i due bossoli provenienti da cartucce per pistola automatica 7,65 non risultavano sparati dalla pistola Titanic, sibbene da altra arma automatica avente uguali caratteristiche di classe. In effetti i familiari dell’assassino avevano consegnato una pistola diversa da quella del delitto. In un successivo interrogatorio il Buonanno ribadiva la versione già sostenuta innanzi ai carabinieri e Giuseppina Laudante, madre dell’ucciso, assumeva che fin dalle ore 12 del 15 aprile l’imputato era andato con insistenza alla ricerca della vittima. Esauriti gli accertamenti istruttori – su conforme richiesta del pubblico ministero – veniva ordinata con sentenza istruttoria del 26 marzo del 1957 il rinvio del Raffele Buonanno al giudizio della Corte di Assise per rispondere – in stato di custodia preventiva – del delitto di omicidio premeditato aggravato.


    LA CONDANNA FU A 24 ANNI RIDOTTI A 18 IN APPELLO


La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilenti; giudice a latere, Sergio Lanni; pubblico ministero, Gennaro Calabrese) condannò Raffaele Buonanno ad anni 24 di reclusione. Il fatto realizza – scrissero i giudici  di primo grado nella loro motivazione – in tutti i suoi elementi costitutivi l’ipotesi delittuosa dell’omicidio volontario. Manifesto per la sua immediatezza è il rapporto di causalità fra l’azione dell’imputato e la morte della vittima. Per quanto concerne il dolo, la volontà omicida del Buonanno è univocamente provata dalla reiterazione dei colpi, dalle regioni vulnerabilissime cui essi furono diretti (due proiettili perforarono  cuore e polmone) dal suo stesso comportamento successivo al crimine. Non solo, dunque, l’imputato agì fuori di qualunque esigenza difensiva (reale o supposta), ma egli ebbe la precisa intensione di uccidere, e non già soltanto di minacciare o di ferire, nel qual ultimo caso si sarebbe limitato ad esplodere un  solo colpo  in una regione non vitale.  Non ricorre, però, l’aggravante della premeditazione. Questa postula – com’è noto due elementi costitutivi: l’elemento cronologico rappresentato da un apprezzabile intervallo di tempo fra l’insorgenza e l’attuazione del proposito criminoso, e quello ideologico, che richiede il perdurare delle risoluzione criminosa, ferma ed irrevocabile, nell’animo dell’agente accompagnata dalla premeditazione. Entrambi gli elementi difettano nel caso di specie giacchè il Buonanno non preordinò il delitto  ma agì di impulso onde l’omicidio seguì quasi  contestualmente alla insorgenza del proposito criminoso determinatosi nell’animo suo come un’improvvisa e drammatica conflagrazione. Rettamente, invece, appare contestata al Buonanno l’aggravante del motivo futile, stante l’enorme sproporzione ravvisabile in ogni caso fra il movente e l’azione delittuosa. Anche se il Di Girolamo – nel fare divieto al Buonanno di amoreggiare con la sorella – ovvero nel manifestare comunque il proprio risentimento per la tentata aggressione nel “Bar 900” usò al  suo indirizzo un linguaggio addirittura aspro o addirittura vituperoso, rispetto all’entità del reato commesso dal Buonanno il movente di agire, cui obbedì quest’ultimo, resta banale inconsistente e indegno di essere apprezzato sul piano giuridico e sociale. Esso non avrebbe costituito una spinta sufficiente all’azione omicida per qualsiasi altro soggetto – immune dalle esagerate ed antisociale suscettibilità del Buonanno, e meno di lui predisposto al delitto. L’imputato avrebbe dovuto considerare che legittimo era il risentimento – scrissero ancora i giudici nella motivazione della loro condanna -  del Di Girolamo, per il contegno aggressivo ed oltraggioso che il Buonanno aveva osservato nei suoi riguardi durante la partita al biliardo mortificandolo al cospetto di tutti gli altri avventori. Né l’imputato poteva pretendere che dopo l’inqualificabile episodio il Di Girolamo – al quale egli non aveva neppure chiesto scuse – si fosse regolato in maniera così remissiva e compiacente da fare perfino buon viso alla di lui relazione amoroso con la sorella. L’imputato agì, dunq    ue, per spirito di sopraffazione e di prepotenza, che giustifica la contestazione della contestata aggravante. Attesa, tuttavia, la sua incensuratezza e la giovanissima età del Buonanno – che all’epoca dei fatti aveva compiuto da pochi mesi i 18 anni -  il medesimo appare meritevole della concessione delle attenuanti generiche per tutti i reati attribuitigli sulla cui perpetrazione non dovette essere priva  di influssi l’impulsività propria dei giovani”. In appello, però, le cose cambiarono e con la esclusione dell’aggravante del motivo futile e con la concessione delle attenuanti generiche condannò il giovane a 18 anni di reclusione. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Mario Zarrelli, Giuseppe Garofalo, Enrico Altavilla, Alfonso Raffone e Pietro Salerno.


Fonte: Archivio di Stato di Caserta
  

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