Il
delitto avvenne a San Cipriano d’Aversa verso le core 11,30
del
16 aprile del 1956, in una zona campestre di via Serao,
RAFFAELE
BUONANNO UCCISE
GIOVANNI
BENITO DI GIROLAMO PER UN DIVERBIO SUL GIOCO DEL BIGLIARDO e anche perché
amoreggiava con la sorella Maria
Nel tentativo di simulare una legittima difesa l’assassino
si impossessò della pistola della vittima. Un tempo nella zona era come il Far
West: tutti armati… abusivamente.
Impossibilitato
a reagire subito per l’intervento di terzi, avesse pensato di vendicarsi dell’offesa ricevuta
secondo la triste consuetudine della zona – con la uccisione dell’amico – che
aveva attirato nella località del delitto.
San
Cipriano d’Aversa – Verso le core 11,30 del 16 aprile del 1956,
in una zona campestre del paese, a circa cinquanta metri dall’ultima casa di
via Serao, il 17enne Giovanni Benito Di
Girolamo veniva fatto segno dal giovane Raffaele Buonanno a più colpi di arma da fuoco che lo rendevano
immediatamente cadavere. I carabinieri di Casal di Principe informati del
delitto accedevano nella località e rinvenivano tale Cipriano Capoluongo – zio dell’ucciso – mentre tentava di
trascinare il corpo del nipote nella sua abitazione. Sul posto del delitto
veniva notato dai carabinieri un pezzo di pane, del peso di circa 80 grammi,
condito con olio e in parte morsicato, nonché due bossoli di pistola automatica
cal. 7,65. Nicola Sarracino, Tommaso Mangiacapra, Annunziata Coppola e Giuseppina Oronos i quali si
trovavano, chi nella propria abitazione,
e chi intendo al lavoro nei campi, dichiaravano di aver udito l’esplosione di tre colpi di pistola e di essere accorsi,
attratti dagli spari sul luogo del delitto rinvenendovi il corpo del ragazzo
giacente per terra già inanimato. Il Mangiacapra specificava di aver notato,
prima degli spari, due giovani parlare fra di loro, uno dei quali era stato da lui visto subito
dopo gli spari fuggire verso l’abitato di San Cipriano. Tale Gilda Capasso asseriva di essere
passata per quella località verso le ore 11,30 e di aver scorto due giovani –
fermi in mezzo alla strada – che discutevano amichevolmente con il sorriso
sulle labbra senza però udire che cosa dicessero. Dalle pronte indagini
esperite dai carabinieri risultava altresì che verso le ore 13 del giorno precedente nel
“Bar 900” di San Cipriano, Raffaele Buonanno e Giovanni Di Girolamo erano venuti
a diverbio e che durante tale lite il Buonanno aveva tentato di colpire l’altro
prima con la stecca del bigliardo e quindi con le mani venendo impedito
dall’intervento di un fratello dell’esercente tale Vittorio Del Villano il quale li aveva separati. A tarda sera del
18 aprile il Buonanno si costituiva ai
carabinieri e, consegnando una pistola a rotazione – carica di sette cartucce
–assumeva che la stessa era di pertinenza dell’ucciso e dichiarava che il
mattino del 16 era uscito di casa per acquistare del materiale elettrico, onde
completare un impianto in casa di tale Maria
Zippo, e si era imbattuto in strada con una sorella dell’ucciso, a nome Maria la quale gli aveva chiesto se la
sera precedente si fosse divertito ad una festa in casa di un suo parente, ove
si era recata anch’ella insieme con il fratello Giovanni; che dopo aver parlato
per circa 10 minuti con la ragazza aveva proseguito per la sua strada ma nei
pressi del “Bar 900” aveva incontrato il Di Girolamo, che, smontato da una
bicicletta, lo aveva con insistenza invitato a seguirlo perché doveva parlargli
facendogli presente che si trattava di una sorpresa; per i suoi rapporti di
amicizia col Di Girolamo si era prestato
di buon grado a seguirlo in via Serao, senonché, giunti nella località
campestre, quegli gli aveva chiesto se amoreggiasse con la sorella Maria ed
alla sua risposta negativa aveva pronunciato parole offensive contro la sorella
dicendo ancora che era giunto l’ultimo giorno della vita del Buonanno. Il Di Girolamo aveva poi
estratto una pistola dalla cinta dei pantaloni – ma egli aveva afferrato il
braccio armato, portandolo in aria ed ingaggiando – in tale posizione – una
colluttazione durante la quale aveva
cercato di disarmare il Di Girolamo, che, invece, tentava di svincolarsi; ad un
certo momento la pistola dell’aggressore lo aveva urtato alla fronte
producendogli una piccola lesione ed allora temendo il peggio egli aveva
estratto a sua volta una pistola automatica marca Beretta, cal. 7,65 di sua proprietà,
mai denunciata, e con la stessa da brevissima distanza aveva esploso alcuni
colpi contro il Di Girolamo dandosi poscia alla fuga previo impossessamento
dell’arma della vittima. Il Buonanno ammetteva altresì di essere venuto a
diverbio con il Di Girolamo nel “Bar 900”, il giorno prima e di aver fatto il
gesto di colpire senza riuscirci. Invitati
dai carabinieri a consegnare l’arma
adoperata per il delitto i familiari del Buonanno recapitavano in caserma, la sera del 19 aprile, una pistola Titanic cal. 7,65 automatica
ancora carica di quattro cartucce. La giovane
Maria Di Girolamo ammetteva di avere scambiato poche parole col Buonanno
stando sulla soglia della propria abitazione e di aver spiegato allo stesso che
la sera precedente era andata via prima che si chiudesse la festa perché il
padre era infermo. Precisava che, dopo pochi attimi dopo la fine di tale
colloquio, il fratello Giovanni (il quale, nel frattempo, doveva essersi
trattenuto in un terraneo sito
all’angolo della via e adibito a riparazione di biciclette) aveva fatto rientro
in casa uscendone, però, di nuovo dopo aver preso del pane condito con olio.
Negava che il fratello possedesse una pistola, di essere fidanzata con il
Buonanno e di aver saputo della lite insorta fra i due il giorno precedente.
Asseriva che la notizia dell’omicidio le era giunta appena una decina di minuti
dopo la sortita del Giovanni.
In esito alle indagini
espletate – con rapporto del 20 aprile
1956 – i carabinieri denunziavano il Raffaele Buonanno per omicidio premeditato
ritenendo che il predetto, offesosi da un’osservazione fattagli dal Di Girolamo
durante il giuoco a bigliardo – impossibilitato a reagire subito per
l’intervento di terzi, avesse pensato di
vendicarsi dell’offesa ricevuta secondo la triste consuetudine della zona – con
la uccisione dell’amico – che aveva attirato nella località del delitto. A
seguito di tale denunzia si procedeva col rito formale e con mandato di cattura
per il delitto di omicidio. Dall’autopsia effettuata sulla vittima emergevano
le seguenti lesioni: vasta zona ecchimotica sullo zigomo sinistro; contusioni
escoriate alla punta del naso e sul labbro superiore (regione del filtro); una
dei denti incisi superiori scheggiato; altre abrasioni alla regione mentoniera,
alla regione deltoidea destra, alla rotula sinistra, forame a margini netti,
infroflessi ed anneriti, al braccio sinistro (altezza del terzo medio) sulla
faccia interna altro piccolo forame – non penetrante – nelle masse muscolari,
ed altre ferite anche al cuore. I periti settori giudicavano, pertanto, che la
morte del Di Girolamo fosse stata causata da una cospicua ed infrenabile emorragia
interna ed esterna per ferita cardiaca in conseguenza di colpi esplosi da breve
distanza – con direzione dall’altro verso il basso e dalle regioni anteriori a
quelle posteriori (ad eccezione del colpo al braccio sinistro presumibilmente
curvato dalla vittima in movimento distintivo di difesa). Un perizia balistica
effettuata sui bossoli repertati e sull’arma Titanic - che il Buonanno sosteneva di aver usato per
il crimine – accertava che i due bossoli provenienti da cartucce per pistola
automatica 7,65 non risultavano sparati dalla pistola Titanic, sibbene da altra
arma automatica avente uguali caratteristiche di classe. In effetti i familiari
dell’assassino avevano consegnato una pistola diversa da quella del delitto. In
un successivo interrogatorio il Buonanno ribadiva la versione già sostenuta
innanzi ai carabinieri e Giuseppina
Laudante, madre dell’ucciso, assumeva che fin dalle ore 12 del 15 aprile
l’imputato era andato con insistenza alla ricerca della vittima. Esauriti gli
accertamenti istruttori – su conforme richiesta del pubblico ministero – veniva
ordinata con sentenza istruttoria del 26 marzo del 1957 il rinvio del Raffele
Buonanno al giudizio della Corte di Assise per rispondere – in stato di
custodia preventiva – del delitto di omicidio premeditato aggravato.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere (Presidente, Eduardo Cilenti;
giudice a latere, Sergio Lanni;
pubblico ministero, Gennaro Calabrese)
condannò Raffaele Buonanno ad anni 24 di reclusione. Il fatto realizza –
scrissero i giudici di primo grado nella
loro motivazione – in tutti i suoi elementi costitutivi l’ipotesi delittuosa
dell’omicidio volontario. Manifesto per la sua immediatezza è il rapporto di
causalità fra l’azione dell’imputato e la morte della vittima. Per quanto concerne
il dolo, la volontà omicida del Buonanno è univocamente provata dalla
reiterazione dei colpi, dalle regioni vulnerabilissime cui essi furono diretti
(due proiettili perforarono cuore e polmone)
dal suo stesso comportamento successivo al crimine. Non solo, dunque,
l’imputato agì fuori di qualunque esigenza difensiva (reale o supposta), ma
egli ebbe la precisa intensione di uccidere, e non già soltanto di minacciare o
di ferire, nel qual ultimo caso si sarebbe limitato ad esplodere un solo colpo
in una regione non vitale. Non
ricorre, però, l’aggravante della premeditazione. Questa postula – com’è noto
due elementi costitutivi: l’elemento cronologico rappresentato da un
apprezzabile intervallo di tempo fra l’insorgenza e l’attuazione del proposito
criminoso, e quello ideologico, che richiede il perdurare delle risoluzione
criminosa, ferma ed irrevocabile, nell’animo dell’agente accompagnata dalla premeditazione.
Entrambi gli elementi difettano nel caso di specie giacchè il Buonanno non
preordinò il delitto ma agì di impulso
onde l’omicidio seguì quasi contestualmente
alla insorgenza del proposito criminoso determinatosi nell’animo suo come
un’improvvisa e drammatica conflagrazione. Rettamente, invece, appare
contestata al Buonanno l’aggravante del motivo futile, stante l’enorme
sproporzione ravvisabile in ogni caso fra il movente e l’azione delittuosa.
Anche se il Di Girolamo – nel fare divieto al Buonanno di amoreggiare con la
sorella – ovvero nel manifestare comunque il proprio risentimento per la
tentata aggressione nel “Bar 900” usò al
suo indirizzo un linguaggio addirittura aspro o addirittura vituperoso,
rispetto all’entità del reato commesso dal Buonanno il movente di agire, cui
obbedì quest’ultimo, resta banale inconsistente e indegno di essere apprezzato
sul piano giuridico e sociale. Esso non avrebbe costituito una spinta
sufficiente all’azione omicida per qualsiasi altro soggetto – immune dalle
esagerate ed antisociale suscettibilità del Buonanno, e meno di lui predisposto
al delitto. L’imputato avrebbe dovuto considerare che legittimo era il risentimento
– scrissero ancora i giudici nella motivazione della loro condanna - del Di Girolamo, per il contegno aggressivo ed
oltraggioso che il Buonanno aveva osservato nei suoi riguardi durante la
partita al biliardo mortificandolo al cospetto di tutti gli altri avventori. Né
l’imputato poteva pretendere che dopo l’inqualificabile episodio il Di Girolamo
– al quale egli non aveva neppure chiesto scuse – si fosse regolato in maniera
così remissiva e compiacente da fare perfino buon viso alla di lui relazione
amoroso con la sorella. L’imputato agì, dunq ue,
per spirito di sopraffazione e di prepotenza, che giustifica la contestazione
della contestata aggravante. Attesa, tuttavia, la sua incensuratezza e la
giovanissima età del Buonanno – che all’epoca dei fatti aveva compiuto da pochi
mesi i 18 anni - il medesimo appare
meritevole della concessione delle attenuanti generiche per tutti i reati
attribuitigli sulla cui perpetrazione non dovette essere priva di influssi l’impulsività propria dei giovani”.
In appello, però, le cose cambiarono e con la esclusione dell’aggravante del
motivo futile e con la concessione delle attenuanti generiche condannò il
giovane a 18 anni di reclusione. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Mario Zarrelli, Giuseppe Garofalo, Enrico
Altavilla, Alfonso Raffone e Pietro Salerno.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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