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martedì 7 novembre 2017

Augusto La Torre

“Il Camorfista”


da kriminale a Criminologo


Prefazione di Libero  Mancuso

Augusto La Torre il giorno della sua seconda laurea



“IL camorfismo è un disturbo comportamentale
e come tale può essere curato”.
Augusto La Torre







PREFAZIONE


     Sono invitato a partecipare alla seduta di laurea del detenuto Augusto La Torre, una volta capo di una omonima banda camorrista che distribuiva morte e dolore nell’agro casertano. La seduta si tiene in un’accogliente saletta dentro un carcere, quello di Scandicci. Si chiama Sollicciano e per accedervi è necessario superare barriere e controlli. Penso ad una seduta pro forma, nella quale viene premiato lo sforzo di apprendimento piuttosto che la conoscenza approfondita della materia che, oramai è noto, è la criminologia.
     Sono seduto accanto al direttore, al cappellano del carcere, alla ex-moglie del detenuto. E ad altri familiari. Inizia la prova: fioccano domande difficili, la Commissione intende accertare che quella voluminosa tesi di laurea faccia davvero parte del bagaglio di conoscenze acquisite dal detenuto, vuole stabilire se davvero si sia impadronito della materia. La senta non come altro da sé ma come acquisizione di una particolare, terribile, scienza umana. Se abbia smesso di considerarla niente più che un espediente, cui ha già fatto ricorso nella vita passata e di cui potrebbe servirsi oggi per acquisire ingiustamente dei meriti. E se sarà in grado di spiegarla, o persino insegnarla, a ipotetici suoi studenti o futuri pazienti.
     Il candidato si destreggia citando con disinvoltura autori stranieri, non solo europei. Si sofferma su ogni quesito che gli viene posto, si capisce che, in carcere da oltre 25 anni, ha affrontato la materia con impegno e con risultati che sorprendono la stessa commissione. Che alla fine gli assegna il massimo dei voti. Il candidato mostra, oltre ad una comprensibile emozione, una palese soddisfazione per il livello di istruzione raggiunto e che è in grado dì esprimere ad una commissione d’esame proveniente da una delle più illustri e antiche università europee. Al termine della prova, riceve congratulazioni dalla Commissione, abbraccia i presenti, increduli nell’ascoltare le sue risposte. partecipa ad un rinfresco.
     E’ chiaro, ci ha voluti tutti lì per poter dimostrare a se stesso ed ai presenti che si è al cospetto di un altro uomo che, uscito da una personalità sanguinaria, ha abiurato i riferimenti negativi che ispiravano la sua condotta di vita, e oggi crede nello studio, nell’istruzione, in un futuro civile. Un altro uomo, con un differente sistema di valori. Contrapposti a quelli che avevano ispirato le sue gravissime malefatte. Vuole dimostrare, a chi ha creduto in questa metamorfosi, che il carcere. il più duro, il più doloroso, persino il
regime inumano del 41 bis, subito per circa 13 anni quando sicuramente meritava un regime differenziato, ma di certo ingiustamente quando ha dovuto trascorrere ulteriori due anni, dal 2009 al 2011, quando era collaboratore di giustizia dal 2003 e paradossalmente per vicende, come si accerterà, a lui del tutto estranee, possono cambiare l’individuo se solo gli si riconosca fiducia, possibilità e diritto di studiare, di gestire un computer, di consultare una biblioteca, di entrare in contatto con un’Università degli studi. Ed avere il conforto di un valoroso Cappellano e la fiducia e il supporto di volontari di grandissima umanità. L’istruzione è obbligatoria, recita l’art. 34 della Carta fondamentale dei diritti nella sezione dedicata a rapporti etico-sociali, vuole che sia reso effettivo il diritto allo studio e, all’art. 27, prevede che il carcere non sia luogo dove avvengano comportamenti contrari al senso dì umanità e che debba tendere alla rieducazione del condannato.
     Augusto La Torre rappresenta la prova dell’importanza del connubio carcere-istruzione per riacquistare senso di umanità e voglia di far parte di un contesto civile. Di acquisire speranze in un futuro di affetti, impegno, lavoro. E’ alla sua seconda laurea e, subito dopo averla conseguita, lo abbracciamo tutti, consapevoli di avere assistito ad una prova unica, straordinaria, alla riconciliazione di un uomo con il tessuto civile, con le regole di una democrazia, con l’etica del rispetto della vita umana. E’ per questo che ad alcuni di noi sembra che qualche minuto dopo si uscirà tutti insieme, compreso il candidato. Quel carcere sembra ormai un’inutile sofferenza. Ha già prodotto i risultati cui la detenzione deve tendere.
      Per Augusto La Torre questo scritto rappresenta la definitiva liberazione da un passato cupo, intriso di sangue, violenza, sopraffazione. Che voleva rappresentare, per poterlo considerare rimosso. So che oggi La Torre ha fornito un importante percorso di riscatto civile ed umano e che rappresenta la prova che da crimine è possibile uscire acquistando dignità e consapevolezza civile, in precedenza smarriti.

Libero Mancuso


  

  






“IL CAMORFISTA”
è il libro di Augusto La Torre
(in allestimento)

Ecco, per gentile concessione dell’editore,  uno stralcio della introduzione


     La mia vita potrà essere interamente compresa solo da chi è nato e cresciuto nella mentalità camorfistica. Non intendo giustificare il mio trascorso criminale, sono consapevole di aver fatto del male, ma voglio dimostrare che tutti gli uomini e tutte le donne possono cambiare, e anche un criminale può redimersi.

     Nel mio libro le persone e i luoghi sono stati chiamati con il loro vero nome, e indicati con le sole iniziali, ove ho ritenuto giusto rispettarne la riservatezza. Se qualcuno non è stato menzionato, è perché la mia memoria non ne ha conservato traccia o perché non gradivo entrasse nel mio libro. Se invece ho preferito usare soltanto alias e non il vero cognome è perché a distanza di tanti anni non lo ricordo più.

     Ho confessato oltre quaranta omicidi, quasi tutti materialmente commessi in concorso con i miei ex amici del Clan La Torre e del Clan Esposito di Sessa Aurunca, altri ordinati. Ho voluto evitare di assumermi la responsabilità morale di moltissimi altri omicidi e stragi commessi dal 1981 al 1990, dal clan Bardellino prima e dai Casalesi dopo, e dei quali ero a conoscenza per aver partecipato alle riunioni nelle quali erano decisi, poiché il mio consenso o la mia presenza, come quella di altri capi zona, in quelle riunioni erano del tutto superflue. Si trattava di nemici operanti nei territori sotto il diretto dominio dei Casalesi e quindi, come io e altri capi zona decidevamo di eliminare i nostri comuni nemici nelle nostre zone, così facevano i Casalesi.


     Non ho voluto e non voglio fare come alcuni megalomani, che si sono accusati di cinquecento omicidi definendosi capi e vantando quanto commesso, quando in realtà non sono mai stati capi e non hanno mai sparato a un solo uomo. Racconterò i fatti e i crimini direttamente riconducibili al mio ex clan, senza aggiungere e senza togliere nulla, come risulta anche dalle sentenze definitive, ma correggendo gli errori di bugiardi e megalomani che, pur di attribuirsi ruoli che non rivestivano, hanno voluto parlare di reati che non hanno commesso e che non conoscevano. Il mio intento è inviare un messaggio forte ai giovani, così che possano capire che quello che offre la camorra è solo morte, sofferenza e carcere, null’altro. Dove per morte è intesa anche la propria, giacché dal camorfismo si esce solo morti o dopo 30 anni di carcere, se si è fortunati.

     Sento gli oltre 25 anni passati in carcere non come una vergogna, né come un sogno maledetto. A volte ho quasi amato queste celle, queste tombe di morti viventi, solo grazie allo studio e alla pratica dello Yoga ho potuto incontrare me stesso, come direbbe Karl Gustav Jung: “Ho potuto conoscere la mia Ombra, e fare in modo che questa non avesse più la meglio sul mio sé, e sondare quel luogo misterioso dove nessuno può accompagnarci: l’anima”. Così, il 4 febbraio 2003, ho deciso di chiudere per sempre con il crimine e l’ho fatto per davvero!


     Incontrare la propria Ombra non è semplice né piacevole, tutt’altro. Chi ha studiato e amato il pensiero e gli studi di Jung sa a cosa mi riferisco, lo stesso Jung ha descritto la sua Nekia in maniera affascinante. Anch’io, amandone moltissimo il pensiero, ho cercato di seguire un’autoanalisi, una mia personalissima Nekia. Ricordo perfettamente l’incontro-scontro con la mia Ombra. Confesso che è davvero difficile, forse impossibile per me riuscire a descrivere il fenomeno che ho vissuto, ma voglio provarci perché mi piacerebbe che il lettore si sforzasse di capire parte del mio vissuto interiore. Per la prima volta nella mia vita è stato come se la mia persona si sdoppiasse, non nel senso di una scissione dell’Io, ma come se Augusto fosse un individuo estraneo e incontrasse l’Augusto reale. E’ come se una persona normale e estranea m’incontrasse e mi vedesse  per quello che ero e sono.

     È stato un incontro dolorosissimo per me, ho provato vergogna e paura per quello che ero e per quello che ho commesso in passato. È stato come se avessi incontrato un “mostro” e scoperto che quel “mostro” ero proprio io, solo che invece di guardarmi con i miei occhi e valutarmi usando i miei schemi mentali consolidati negli anni come avevo sempre fatto, giustificando i miei crimini mediante meccanismi di difesa e appoggiandomi a pseudo-valori tipici di chi ha ucciso, ho avuto la possibilità di valutarmi e giudicare come fanno le persone che vivono seguendo norme e valori condivisi dalla loro maggioranza, e che non hanno mai commesso reati né omicidi.

    
     È stata l’esperienza più brutta e sconvolgente della mia vita. Ho avuto un rigetto, così intenso, di me stesso, che ho tentato di sopprimermi. Ho infilato la testa in un sacchetto di platica e ho aperto il gas del fornellino, e mi ha salvato un agente. Mi sono ripreso in infermeria dopo alcuni massaggi cardiaci. L’incontro con me stesso è stato molto doloroso e sconvolgente. Dopo tale episodio, ho avuto un’ispirazione poetica dovuta in parte al mio attuale innamoramento, e al periodo molto particolare, infatti, ho scritto alcune poesie, ho cominciato a dipingere, cosa che mi affascina moltissimo e mi fa davvero “evadere” dalla mia cella.

     Sono detenuto quasi ininterrottamente dal 10 gennaio 1991. Dalla mia cella d’isolamento ho visto la diretta TV di Emilio Fede che annunciava la Guerra del Golfo. Dal 9 settembre ‘95 al 6 giugno ‘96 sono stato libero, scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ma avendo scontato altre due detenzioni di dieci mesi ciascuna nel 1984 nel carcere di Latina e nel 1985 nel carcere di S. Maria C.V., e i tre anni di liberazione anticipata già ottenuta per il mio buon comportamento intramurario, raggiungo ventinove anni di carcerazione scontata. Ma non è finita.

     Quel giorno fui catturato con altri miei ex amici in via S. Lucia a Mondragone, in casa di Gemma Marotta, madre di Michele Siciliano e suocera di un mio ex affiliato, Mario Sperlongano, alias o’nasone  e Tavernello. Eravamo in guerra con i Casalesi, il Clan, c’erano stati già alcuni morti in entrambi gli schieramenti, quindi eravamo sempre armati fino ai denti e sempre pronti per uscire a uccidere i nostri nemici, oltre a dedicare intere giornate a dare la caccia a qualche Casalese o loro alleato che vivevano nei paesini confinanti con Mondragone. 

     Perché, su sollecitazione del mio caro amico e legale di fiducia, Avv. Filippo Barbagiovanni Gasparo, ho accettato di scrivere un libro sulla mia vita? Sono stati molti gli scrittori e i giornalisti, Saviano, Cantone, De Rosa, Barbagallo, Di Fiore, ecc., che negli ultimi anni hanno raccontato parte della mia vita privata e criminale, senza avermi mai incontrato o conosciuto di persona, tranne il dottor Cantone. Hanno scritto fatti riferiti da altri e inerenti ai miei reati, così vorrei provare a mettere un po’ d’ordine, raccontando la verità storica e processuale da protagonista di quelle vicende, che conosco, sicuramente, meglio di tutti.

     Voglio però precisare che quando utilizzerò termini quali boss, capi zona, capi clan ecc…, anche con riferimento a me, lo farò senza alcuna deferenza o auto o etero compiacimento, perché ormai fanno parte del linguaggio popolare e giornalistico. Non mi sono mai sentito un boss né definito tale e non penso che i molti mafiosi, camorristi, ‘ndranghetisti, d’ora in poi camorfisti, definiti tali dai media, boss lo siano mai stati e lo siano ancora.

     Camorfisti e camorfismo sono neologismi di mia creazione, il primo racchiude mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti, il secondo la mentalità mafiosa, camorristica e ‘ndranghetistica anche se, ovviamente, vi sono differenze tra le tre mafie, ma sostanzialmente la mentalità camorfistica è quella che si discosta dalla mentalità della legalità.   

     Ritengo che i veri boss siano uomini potenti che riescono a rimanere nell’ombra senza mai comparire, oppure quelli che pur sfiorati da numerose indagini della magistratura restano immuni, anche quando sono accusati da decine di pentiti, intercettati durante conversazioni più che compromettenti ma che qualcuno sbianca, ripresi in filmati a pranzo o in riunioni con criminali liberi e latitanti, ma non finiscono mai in carcere e sono così potenti da poter decidere financo le sorti dei Governi o far emanare leggi ad hoc.

     Chi mi ha conosciuto bene sa che non ho mai trattato i miei ex-amici di clan come dei soldati o come degli affiliati, ma sempre e soltanto come amici veri. Anche se, tardivamente, ho compreso che in certi contesti parlare di amicizia o voler bene a qualcuno non è possibile. Dove c’è il denaro, il potere e vige l’ipocrisia, e tutti aspirano a diventare capi, è più facile parlare di tradimento e di opportunismo che di amicizia.
     
     Nietzsche scrisse: “Infedeltà condizione per essere maestri. Non serve a nulla: ogni maestro ha un solo discepolo – e questo gli sarà infedele – perché anch’egli è destinato a essere maestro”.

     Se si ripercorresse l’intera storia del crimine italiano e internazionale, si costaterebbe che i capi sono stati quasi tutti uccisi, traditi e/o venduti allo Stato, dai loro uomini più fidati. Nella mia Provincia è accaduto ad Antonio Bardellino, ucciso da quello che era ritenuto il fratello, Mario Jovine, non senza la complicità di altri uomini che si spacciavano per estimatori e suoi fedelissimi, Enzo De Falco, Sandokan. Si può divenire traditori in tanti modi, non soltanto diventando collaboratori di giustizia.  

     Ritengo che la lotta ai vertici delle mafie, il cosiddetto quarto livello, sia ferma, quasi paralizzata, e nonostante gli enormi sforzi quotidiani dei Magistrati e delle Forze dell’ordine, di una modesta parte dei politici onesti, e soprattutto la partecipazione attiva dei moltissimi giovani che hanno aderito alle varie associazioni nate all’indomani delle stragi, in primis “Libera” di don Ciotti, esistono ancora delle lobby molto potenti, che rendono vano ogni tentativo di arrivare ai veri capi criminali e non solo a decapitare la piovra, ma anche a scoprire i mandanti occulti delle stragi degli anni ’90.

     Se qualcuno non accenderà la luce per far chiarezza sui poteri occulti che affliggono il nostro Paese, il buio ci renderà tutti ciechi, più di quanto, purtroppo, già ci ha resi ma, sia chiaro, io stesso, purtroppo, non conosco l’interruttore per disvelare una volta per tutte questo intreccio inestricabile. 

    Non amo pensare al futuro, preferisco vivere giorno dopo giorno, forse perché pratico Yoga da anni e ho imparato a vivere così. Non mi sono nemmeno posto il problema di come mi ricorderanno i miei compaesani anche perché, dopo oltre 25 anni di carcere e di completa mancanza di rapporti con loro, mi sento uno straniero in patria, e comunque, ognuno potrà ricordarmi come desidera farlo.

     Certo il mio ricordo non potrà mai essere univoco per tutti, anche perché ci sono persone che mi hanno conosciuto da ragazzino o da studente e per loro rimarrà sempre, spero, quel ricordo che niente potrà scalfire nella loro mente.  Altri mi ricorderanno come un criminale avendomi conosciuto sotto queste spoglie e altri come uno dei tanti camorristi vissuti nei Mazzoni.
 
     Oggi però non sono più né lo studente, né il criminale né il camorrista, ma un uomo di circa 53 anni con 25 anni di carcere alle spalle e tanta voglia di vita. Quanto al futuro, spero con tutto il cuore di poter essere un buon padre per i miei due amatissimi figli e soprattutto un ottimo nonno per la mia adorata nipotina, Sara. Vorrei vivere come una qualsiasi persona normale. Casa, lavoro, famiglia e vacanze, sperando di potermelo permettere.




Sono entrato in carcere come un a-nimale e grazie alla sofferenza, alla solitudine, allo studio, allo yoga e soprattutto all’incontro con persone colte e umane ne uscirò come un animale sociale”
(Augusto La Torre)






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