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sabato 9 dicembre 2017

In allestimento 
CASERTA CRIMINALE 




 CASERTA
CRIMINALE
Fatti, misfatti, delitti & processi in Terra di Lavoro
1920-1960
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I delitti dell’Italia  raccontati dalla “Settimana Incom”
     
Una maga con “strumenti primordiali” – un martello, una scure: con l’accenno a fatti di stregoneria il cinegiornale della Repubblica, la Settimana Incom, apre, nell’Italia contadina assediata dalle macerie, una nuova stagione per l’informazione filmata: quella della cronaca nera italiana, assente nei giornali fascisti. Si celebrava nel ’46 il processo a “La saponificatrice” di Correggio, Leonarda Cianciulli,  una piccola commerciante di vestiti usati ossessionata dal malocchio che, tra il ’39 e il ’40, uccise e fece a pezzi tre donne riducendole in saponette. La storia sarà poi rievocata da Mauro Bolognini nel film Gran Bollito.
     Omicidi senza armi in questi primi anni, affidati spesso, bestialmente, ad asce o spranghe. Ancora pochi mesi e una commessa milanese di origini friulane, Rina Fort, soprannominata “la belva di via S. Gregorio”, sterminava la moglie e i tre figli del suo amante: il cinegiornale indugiava nei particolari, drammatizzava il racconto  – una sorta di “docufiction” realizzata con la voce. Dino Buzzati, che abitava a cento metri dal luogo della strage seguirà come cronista giudiziario il caso dalle pagine del “Corriere della Sera”.  Caterina Fort, Leonarda Cianciulli, Pia Bellentani – un’altra donna, questa volta del bel mondo, che, armata di pistola, uccise nel 1948 il suo ricco amante – saranno tutte rinchiuse nel manicomio criminale di Aversa tra schizofreniche assassine e “capraie infanticide”. “Come ha potuto farlo? Aveva tutto ciò che una donna può desiderare, un marito, le figlie e la ricchezza” commentò con stupore l’infermiera  quando seppe dell’arrivo della Bellentani.
     Ma è anche l’anno del serial killer Ernesto Picchioni: la Settimana Incom apre con il ‘mostro di Nerola’,  il “terrore e morte al km 47 della Salaria” . Qui, nella campagna romana, un “mostro” uccideva le sue vittime per impadronirsi delle loro biciclette.  E De Sica non aveva ancora presentato in sala “Ladri di biciclette”.
     “Di sicuro c’è solo che è morto”: con questo titolo il giornalista Tommaso Besozzi contestò dalle pagine de l’Europeo la versione ufficiale dei carabinieri  – riportata fedelmente in un lungo servizio della Incom  – sulla morte di Salvatore Giuliano, “Turiddu”, il bandito siciliano responsabile della strage di Portella della Ginestra morto la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950.  Al termine di un conflitto a fuoco, diranno gli uomini del Comando forze repressione banditismo; ucciso nel sonno dal cugino Gaspare Pisciotta resta l’ipotesi più probabile. 
     Ancora storie dal profondo Sud – la provincia di Catanzaro –  nel caso del “mostro di Presinaci”, dove un contadino di 34 anni, affiliato alla ndrangheta, Serafino Castagna, uccide 5 persone, tra cui il padre. Il 3 marzo 1950: la cronaca nera travolge e scuote una borgata romana. In fondo ad un pozzo, a Primavalle, viene ritrovato il corpo di una tredicenne, “Annarella” Bracci, scomparsa dal 18 febbraio. Lionello Egidi, il “biondino di Primavalle” dopo l’arresto confesserà il delitto ma successivamente ritratterà e sarà assolto. La Incom racconta nel 1952  con toni innocentisti il suo rientro a casa; nel 1961 tornano i sospetti sul “biondino”.
     Confusione e sbandamento originati dalla guerra caratterizzarono le esistenze disordinate e violente dei giovani della banda Casaroli autori di numerose rapine di Bologna nel 1950; ad essi  Florestano Vancini dedicò un film, nel 1962.
     L’11 aprile 1953 il corpo di una ventenne, Wilma Montesi, è ritrovato sulla spiaggia di Torvajanica, senza scarpe, calze, gonna e reggicalze. Il fatto di cronaca farà esplodere il primo scandalo politico della Repubblica per il coinvolgimento, risultato poi totalmente infondato, di Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, nell’inchiesta sulla morte della ragazza che si concluderà nel 1957 a Venezia. Un recente saggio, “Dolce vita, sesso, politica nell’Italia del caso Montesi”, ha ridimensionato il ruolo svolto nel caso Montesi di Amintore Fanfani, cui era stata attribuita dagli storici la responsabilità di una campagna stampa contro lo Stato maggiore degasperiano (da Attilio Piccioni a Mario Scelba).
     L’Italia intanto sta cambiando: ai delitti maturati in ambienti poveri, guidati da un furore selvaggio e istintivo, che ritroviamo anche nella canzone popolare italiana,  si sostituiscono omicidi calcolati, affidati a sicari. Per impadronirsi della polizza della moglie Maria Martirano, Giovanni Fenaroli, geometra indebitato e rampante, assolda un killer. È l’Italia che vuole arricchirsi, è l’Italia moderna che costruisce alibi e strategie su automobili veloci, orari di aerei e di treni.

Mezzo secolo di delitti mediatici. Tutti colpevoli?

     “Dovessimo stare ai cosiddetti grandi delitti mediatici potremmo anche dirci certi che i pubblici ministeri non sbagliano mai” -  ha scritto Edoardo Montolli in “Giustiziopoli”. Ed ha portato ad esempio l’ultimo grande caso, chiuso anche in appello con una condanna, è quello che ha visto alla sbarra il muratore di Mapello Massimo Bossetti per il delitto della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa dalla palestra di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere in un campo di Chignolo d’isola esattamente tre mesi più tardi.
     “Ma è solo l’ultimo. Perché, sui delitti mediatici, emerge una singolare statistica; negli ultimi quarantasei anni si sono conclusi tutti con la condanna definitiva degli imputati. E tutti loro, anche a distanza di decenni, si proclamano innocenti”.
“Il primo è il caso del “biondino della Spider rossa”, Lorenzo Bozano, accusato di aver ucciso la tredicenne Milena Sutter, scomparsa all’uscita di scuola il 6 maggio 1971 e riemersa dalle acque di Priaruggia, Quarto dei Mille, una manciata di giorni più tardi. Un processo tutto indiziario su cui molto impressiona la spregiudicata personalità dell’imputato, disoccupato, pregiudicato per truffa e soprattutto per atti di libidine violenta nei confronti di una quattordicenne. Assolto per insufficienza di prove in primo grado, lo condannano all’ergastolo in appello e Cassazione. Per anni ha annunciato invano nuove verità”.
     “Passano cinque anni – continua ancora Montolli -  e a Padova scoppia il caso Massimo Carlotto. E il 20 gennaio 1976: una giovane studentessa universitaria, Margherita Magello, viene trovata immersa nel sangue, mezza nuda, nello sgabuzzino di casa. Qualcuno l’ha colpita decine di volte. Qualcuno giunto mentre la ragazza, appena uscita dalla doccia e con ancora l’asciugamano intorno al corpo, era al telefono con un’amica. Il giorno stesso un militante di Lotta Continua, Massimo Carlotto, 19 anni, si presenta in caserma. Dice che più o meno all’ora del delitto, mentre conduceva un’indagine sullo spaccio di droga nel quartiere, è passato vicino casa di Margherita. Ha sentito gridare. E siccome la conosceva, dato che al piano di sopra abita sua sorella, si è fermato. E entrato nel palazzo. Ha varcato la porta trovata aperta. E ha visto Margherita agonizzante. Si è chinato su di lei, che gli ha sussurrato: “Cosa mi fai...ti ho dato tutto”. Poi è morta. Impaurito, è scappato. E ora è lì, a raccontare tutto ai carabinieri. Certo, come versione è strana. Però è anche strano che se quello è l’assassino e non un testimone, sia tanto ingenuo da pensare di cavarsela così, andando dai carabinieri a dire che la vittima gli è morta tra le braccia. La duplice chiave di lettura finirà al vaglio di dieci processi, un ricorso alla Corte Costituzionale e 50 perizie. Carlotto viene arrestato immediatamente, e passerà 2 anni e 4 mesi in carcere in attesa di giudizio. Latitante, toma in Italia nel 1985, tre anni dopo che la Cassazione ha confermato la sua condanna, senza sapere che nessuno lo sta cercando. Ottiene la revisione, ma va male. E, dopo un vaglio totale di 86 giudici, la sentenza conferma la condanna. Viene graziato da Scalfaro”.
     “Si passa a Bologna: nel 1983 47 fendenti uccidono Francesca Alinovi, 35 anni, insegnante al Dams. Quando la trovano in casa, è morta ormai da tre giorni. Nessun segno di effrazione. Sulla finestra del bagno una scritta fatta con la matita da sopracciglia, in inglese sgrammaticato e in stampatello: Your not alone, anyway (Comunque non sei sola). Le indagini puntano su Francesco Ciancabilla, 23 anni, pittore di spicco del movimento lanciato proprio dalla vittima, gli “enfatìst1”, suo allievo prediletto nonché amante. Anche se, verrà fuori, lui si rifiutava di avere rapporti sessuali con lei. Un movente vero però non c’è. Si sa che il ragazzo è rimasto con lei fino alle 19,30 di domenica. Lui dice che hanno sniffato coca, poi se n’è andato alla stazione e lei era viva. A che ora è morta Francesca? Assolto in primo grado, la soluzione, come in un film, arriva dal Rolex con carica a polso della vittima, che si ferma dopo 35 ore dalla cessazione del battito: o è morta alle 18,12 di domenica o alle 6,12 di lunedì. E lunedì è troppo tardi, secondo il referto autoptico. Quindi deve essere stata uccisa quando Ciancabilla era ancora lì. Condannato a 15 anni, verrà arrestato nel 1997 a Madrid. Nel 2006 esce di prigione”.
     “Ma l’Italia, intanto, si è divisa ancora: stavolta sul delitto di Cristina Capoccitti, 7 anni, detta Biancaneve, a Balsorano, il 23 agosto 1990. Del delitto si autoaccusa prima il cugino tredicenne Mauro Perruzza, ma giura che è stato un incidente: stava inseguendola, Cristina è caduta, ha picchiato la testa su una pietra. Lui si è spaventato e l’ha strangolata. Lo portano alla Procura dei minori. E, a notte fonda, cambia versione: “Volevo possederla”. La notizia va ai giornali così, con la sua confessione. Solo che, alla chiusura del verbale, Mauro ritratta tutto: “E stato mio papà Michele”. Prima dice di averlo visto rientrare a casa piangendo. Poi, di averlo notato nel boschetto mentre tentava di violentare e quindi soffocare la cugina. Cosa sia accaduto esattamente quella notte non si sa, perché l’audio dell’interrogatorio sparisce. Michele finisce in manette. Sequestrano dalla lavatrice una camicia, pantaloni e un fazzoletto sporchi di sangue. Mauro diventa l’eroe che voleva proteggere il padre. E Michele il mostro di Balsorano. In primo grado Michele prende lo stesso avvocato che aveva seguito il figlio, che non può dunque accusare. Gli danno l’ergastolo. E a questo punto che il suo destino s’incrocia con quello del giornalista Gennaro De Stefano, che, con una personale controinchiesta smonta ogni accusa. In appello Mauro cambia ancora versione: in totale ne darà l7. Ma viene considerato attendibile: l’ergastolo a Michele è confermato il 29 gennaio 1992. Subito dopo, De Stefano pubblica una sconvolgente lettera inviata da Mauro al padre il 12 aprile 1991, che recita: “Lo so che sei lì dentro per colpa mia”. Che cosa significa? Il cronista accelera: un mese prima della sentenza di Cassazione pubblica su un settimanale il memoriale di Michele. Tre giorni dopo un poliziotto gli infila della coca in auto. E lo arrestano. Da lì al 28 settembre non ci sono così altre sorprese: la Cassazione rende definitiva la condanna il 28 settembre 1992. Quando la trappola contro il giornalista viene scoperta e il poliziotto finisce dentro (e condannato fino in Cassazione), De Stefano, dopo due mesi di carcere ingiusto, riprende l’inchiesta, trovando le prove che portano i giudici, in un processo satellite a Sulmona, a smentire le accuse che inchiodano Michele. Soprattutto salta fuori, in questo processo, che sulle mutande sporche del sangue di Cristina ritrovate sul tetto c’è sì un dna dei Perruzza, ma compatibile con quello di Mauro e non con quello di Michele. Ma neppure il dna, quel che a volte è considerato una prova regina, servirà a scagionarlo. Scriverà infatti De Stefano che i “macigni difensivi presentati alla Corte d’Appello di Campobasso, vennero cancellati così: “Non hanno il crisma della prova e quand’anche l’avessero non scalfiscono gli elementi a carico di Michele Perruzza”. Caso chiuso. Perruzza muore d’infarto nel gennaio 2003. Al soccorritore dell’ambulanza affida le sue ultime parole: “Per favore, dite a tutti che non l’ho uccisa io”. De Stefano, cronista scomodo, muore cinque anni più tardi di un cancro nato quando era finito ingiustamente dietro le sbarre”.
      (*) “Muore invece da innocente Pietro Pacciani, protagonista del più inquietante dei gialli italiani, quello del mostro di Firenze e della Beretta calibro 22 Long Rifle, che usa proiettili marca Winchester serie H, lettera incisa sul fondello del bossolo: l’arma ha ucciso in otto duplici delitti, dal 1968 al 1985. L’arma. Ma per il primo, in cui sono morti Barbara Locci e il suo amante Antonio Lo Bianco, un condannato c’è già: Stefano Mele, marito di Barbara. Nessuno saprà mai come l’arma sia passata di mano al killer che riprende a colpire nel 1974 e poi dal 1981. Finiscono però dentro in quattro: un sardo, due parenti di Mele, un guardone. Ma uno a uno il mostro li scagiona uccidendo. E poi, mutila le vittime, sfida gli inquirenti e invia un lembo di seno al magistrato Silvia Della Monica”.
     “L’Fbi traccia un profilo: il mostro è solitario e soffre di impotenza. Poi, nel 1991, fermano Pacciani, contadino di Mercatale, detto il Vampa per la facilità con cui s’infuria. Ma non è impotente. E in galera per abusi sessuali sulle figlie. Nel 1951 scovò la fidanzata con un seno scoperto abbracciata ad un amante, Severino Bonini. Uccise lui e violentò lei davanti al cadavere. Gli perquisiscono casa e in un paletto di cemento rotto in cui Pacciani tiene i filari dell’orto trovano un proiettile Winchester serie H. Cosa ci faccia lì è un mistero. Trovano anche un block notes Skizzen come quello che avevano i turisti tedeschi. E uno straccio compatibile con la stoffa che avvolse l’arma. “Li avrò presi in discarica” dice lui. Al processo sfilano i testi che delineano un quadro da romanzo sudamericano: orge, maghi, prostitute. E un ex postino alto e magro, uno che si disse girava con un vibratore in tasca e che in gioventù aveva scaraventato la moglie incinta dalle scale, Mario Vanni, detto il Torsolo: “Con Pacciani ho fatto solo delle merende”.
     “Il pm Paolo Canessa dice: “L’assassino è uno solo”. E ottiene l’ergastolo del contadino, tranne per il primo delitto, quello del ’68. Ma non è che ci credano in molti. Nemmeno il pg Piero Tony, che infatti in appello chiede l’assoluzione. Succede però un fatto curioso: il giorno prima della sentenza gli inquirenti arrestano Vanni e chiedono di acquisire gli atti al processo: dopo anni, il mostro è diventato all’improvviso un gruppo. Il presidente della Corte Francesco Ferri non ci sta. Assolve Pacciani e lascia la magistratura per scrivere un libro dal titolo emblematico: “Il caso Pacciani, storia di una colonna infame”. La Cassazione annulla, Pacciani muore. Ma il nuovo teorema tiene: Vanni viene condannato grazie al pentito del gruppo, Giancarlo Lotti, detto Katanga per le scarse qualità intellettive. Il resto è un’appendice: a Perugia viene ipotizzata addirittura l’esistenza di una setta, mandanti esterni che avrebbero ordinato i feticci dei duplici delitti”.
     “Ma dopo arresti e rumore, finisce archiviata. A Firenze va peggio al farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, a processo per cinque dei duplici delitti, ma lo assolvono. Ora l’inchiesta sul mostro è stata riaperta. Dove porterà è presto per dirlo. Sono stati gli improbabili “compagni di merende” a prendersi gioco degli inquirenti per diciassette anni, seminando il terrore? Chi non ci ha mai creduto è stato Mario Spezi, cronista oggi scomparso: arrestato dalla Procura di Perugia e accusato sostanzialmente di depistaggio passò 23 giorni in galera da innocente: il suo libro, scritto con Douglas Preston sulla vera (presunta) storia del mostro di Firenze, è diventato un bestseller in America”.

(*) All’epoca  del processo a Piero Pacciani  ero cronista giudiziario del “Corriere del Mezzogiorno” – l’inserto quotidiano del “Corriere della Sera” – ero direttore responsabile della rivista a tiratura nazionale, edita dal criminologo romano Carmelo Lavorino, “Detective&Crime”, dell’Agenzia “Mediapress”, (che forniva i servizi girati a “TCN”, “Tele Capri Notizie” e al Gruppo di “Mediaset”), della tv “New Antenna Sud”, e responsabile delle relazioni esterne di un importante Gruppo agro-alimentare. Avevo maturato, insomma, esperienze validissime nella cronaca e nell’informazione. Avevo fondato e diretto testate giornalistiche: giornali, riviste, radio e tv libere. Ero un cronista inserito a livello nazionale. Tanto è vero che a febbraio del 1996, il giornale da me diretto, “Detective&Crime”, era balzato agli onori della cronaca nazionale per il caso Pacciani. Così commentò l’avvenimento l’Ansa: “Soddisfazione per il verdetto del “processo Pacciani” emesso lo scorso 13 febbraio dalla Corte di Assise d’Appello del tribunale di Firenze, è stata espressa dal giornalista casertano Ferdinando Terlizzi, da circa tre anni direttore responsabile della rivista a tiratura nazionale “Detective&Crime”, che ha messo a disposizione un pool investigativo coordinato dal noto criminologo Carmelo Lavorino, investigatore ed editore del “magazine”, unico in Italia per il suo genere. Terlizzi, originario di Santa Maria Capua Vetere, da oltre 30 anni nel campo giornalistico, ex cronista giudiziario de “Il Roma”; già direttore di numerose testate di Terra di Lavoro, tra cui la prima emittente locale del capoluogo della provincia di Caserta, ha affermato che “la sentenza di primo grado ribaltata dall’ appello, deve far riflettere sul conflitto tra i due verdetti e sul ruolo che in questi anni hanno avuto la maggior parte dei mass-media accanitisi sulla colpevolezza del contadino di Mercatale”. La strategia difensiva per il giudizio di appello fu presentata dallo stesso Terlizzi, e da Lavorino nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la Sala Stampa Estera a Roma il 5 ottobre scorso. In quella occasione, alla presenza degli avvocati Bevacqua e Fioravanti, del criminologo Prof. Francesco Bruno - consulente della rivista, del presidente della Commissione Cultura della Camera, on. Vittorio Sgarbi, del deputato Alessandro Meluzzi, dell’avvocato Nino Marazzita e dell’ avvocato Raniero Valle, fu anche annunciata la costituzione del comitato per una “Giustizia Normale”, il cui programma prevedeva, al primo punto, che fosse stata resa giustizia a Pietro Pacciani in carcere da più di tre anni perché accusato di essere il “Mostro di Firenze”. In questi ultimi mesi, la rivista “Detective & Crime”, (con redazione Campana presso l’Agenzia Giornalistica “Mediapress”, di Santa Maria Capua Vetere, struttura coordinata dal giornalista Biagio Salvati) è stata menzionata più volte su numerosi quotidiani a diffusione nazionale (ma anche esteri) tra cui Il Mattino, Il Corriere della Sera, Il Tempo, Il Giorno, Il Giornale, La Repubblica, La Stampa, Il Giornale d’Italia, Il Messaggero, e su periodici come L’Italia Settimanale, Panorama, L’Espresso, Focus, e delle reti televisive della Rai, Fininvest e Telemontecarlo. Il direttore responsabile di “Detective & Crime”, Ferdinando Terlizzi, ha preannunciato un nuovo caso giudiziario di rilevanza nazionale del quale si interesserà tra breve la rivista e che riguarderà un episodio accaduto in Campania”.  Si trattava dell’omicidio di due bambine, violentate e bruciate in una discarica di immondizia a Ponticelli (Napoli), i cui presunti assassini - tre giovani del luogo - furono condannati all’ergastolo. “Carmelo Lavorino e io,  - ha concluso Terlizzi - decidemmo di dare una mano ai ragazzi, per accreditare la tesi delle loro innocenza. Poi non se ne fece niente, per il semplice fatto che gli imputati si accontentarono di ottenere benefici fuori dal carcere, dopo aver scontato vari anni di reclusione”.  
    
“Un altro caso controverso si verifica a Roma il 9  maggio 1997, quando in un cortile dell’Università La Sapienza, un proiettile vagante uccide Marta Russo, studentessa di 22 anni. Gli inquirenti ritengono che il colpo sia partito dall’aula 6 dell’istituto di Filosofia del diritto, perché sulla finestra vengono trovate tracce di ferro, bario e antimonio. E si pensa siano tracce di polvere da sparo”.
     “Chi c’era nell’aula? Lo chiedono a lungo alla dottoranda Maria Chiara Lipari, che aveva fatto da lì una telefonata al padre, l’ex senatore Dc Nicolò Lipari. Il giorno successivo, al telefono con l’amico Jacopo, la ragazza parla dell’interrogatorio: “Tutto il pomeriggio sono stati a dirmi: lei è in una posizione delicata... lei sa, mors tua vita mea...; cioè... per cui loro mi dicevano sì, però allora ti incolpiamo a te, per cui dilli...”. Alla fine però ha ricordato, con sforzo “doloroso” e “genuino” - sottolineeranno i giudici - due volti che vide quando entrò nell’aula: la segretaria Gabriella Alletto e l’usciere Francesco Liparota”.
    “Tocca a loro. La Alletto viene sentita per quindici giorni. L’11 giugno non ce la fa più e ai magistrati dice: “Io non ci sono entrata là dentro. Ma come ve lo devo di’, come ve lo devo di’? Va a fini’ che m’ammazzo per questa storia, io non campo più”. Gli inquirenti le fanno presente che “lei è messa male, peggio di chi ha sparato”. Il tutto è ripreso in un video, che verrà fuori molto tempo dopo. Di fatto passano tre giorni. E Gabriella Alletto sostiene di ricordare i volti di due ricercatori, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: Scattone avrebbe esploso il colpo”.
     “I periti della Corte d’Assise Carlo Torre e Paolo Romanini escludono però che quella sulla finestra fosse polvere da sparo e sostengono che fosse un’altra l’aula più compatibile con la traiettoria del colpo. Ma Scattone e Ferraro vengono condannati il primo giugno ’99. Il processo arriva due volte in Cassazione che annulla una prima volta e poi conferma parzialmente la terza condanna del 30 novembre 2002, diminuendo le pene a Giovanni Scattone, per omicidio colposo, e Salvatore Ferraro per favoreggiamento (il primo a 5 anni e quattro mesi, il secondo a 4 anni e due mesi) e annullando definitivamente l’accusa di favoreggiamento per Liparota”.
     “Si ripete spesso in questi casi che la scienza è ciò che conta, e conta più dei ricordi delle persone. Dipende dai casi: non valeva per scagionare Perruzza, non vale per scagionare Ferraro e Scattone. Nel 2007 il perito balistico Paolo Romanini che con Carlo Torre aveva escluso la finestra dell’aula 6 mi disse: “Essenzialmente la condanna fu dovuta alle testimonianze. Quelle tracce sul davanzale erano residui di impianti frenanti delle auto, all’epoca ad esempio, le lasciavano i ferrodi usati dalle Volkswagen. Ma sono tracce che lasciano perfino le saldatrici. Queste furono le conclusioni di Torre che curò la parte analitica. E vero poi che nella borsa di Ferraro fu realmente trovata una traccia di polvere da sparo. Tuttavia, fosse stata inserita lì dentro, la presenza di particelle di sparo sarebbe stata notevolmente superiore”.
     “Ma la tecnologia torna utilissima, almeno nei primi due gradi di giudizio, quando esplode il più seguito caso di nera degli ultimi decenni. Alle 8,27 del 30 gennaio 2002, squilla il telefono della dottoressa Ada Satragni, medico a Cogne. E la richiesta di soccorso da una villetta di Montroz: a lanciarla una donna il cui figlio più piccolo vomita sangue. Il bimbo ha tre anni e due mesi, si chiama Samuele Lorenzi ed è sul letto in una pozza di sangue. L’arrivo dell’elisoccorso sarà inutile. Qualcuno gli ha fracassato la testa. Ma chi? Nel mirino delle indagini finisce presto la madre, Annamaria Franzoni, di cui vengono sezionate risposte, tono della voce e perfino gli sguardi”.
     “La mattina del delitto ripercorsa minuto per minuto: alle 5,40 Annamaria si sentiva poco bene e ha fatto chiamare la guardia medica, la dottoressa Stefania Neri. L’esito: “Nulla di particolare”. La donna racconta poi di aver portato Samuele nel suo letto prima di uscire alle 8,16 per accompagnare il figlio più grande, Davide, allo scuolabus. E rientrata verso le 8,24. E ha scoperto Samuele con la testa rotta. La domanda si fa più insidiosa: chi può essere entrato in casa, aver ucciso ed essere sparito in meno di otto minuti? Arrivano i Ris di Parma del colonnello Luciano Garofano. Applicano una tecnica piuttosto nuova in Italia, la Bpa (Blood pattern analysis), ossia l’analisi matematica della direzione degli schizzi di sangue. Manca però un dettaglio per nulla trascurabile: l’arma del delitto”.
     “Per fare la Bpa, bisognerà ipotizzarne una, “sperimentando”. Il Ris conclude: l’assassino era in pigiama. La notte tra il 13 e il 14 marzo 2002 Annamaria Franzoni viene arrestata. L’avvocato della Franzoni, Carlo Federico Grosso, già vicepresidente del Csm, presenta immediata istanza di scarcerazione. E il giudice del Riesame, Giorgio Balestretti, in 68 pagine fa a pezzi le tesi dell’accusa: scrive che l’assassino non indossava il pigiama e che è plausibile che una donna cui hanno massacrato un figlio non ricordi con precisione quei momenti. E ancora: è “arduo ipotizzare” che possa aver compiuto un massacro simile in cinque minuti. Fa di più: ipotizza che l’assassino sia un estraneo e fa presente che due persone non hanno alibi. Annamaria, in rotta con Cogne, torna al paese nativo, Monteacuto Vallese”.
     “A giugno cambia legale, dando incarico a Carlo Taormina. E annuncia al Maurizio Costanzo Show. “Aspetto un bimbo”. A sei mesi dal massacro, sull’opinione pubblica, questo fatto, insieme alla scelta di ricorrere al rito abbreviato, ha un effetto boomerang. Il processo “indiziario” diventa così una guerra di perizie. Gli psichiatri la ritengono capace di intendere e di volere. Il gup Eugenio Gramola la condanna a 30 anni. Caposaldo della sentenza, ancora una volta, il pigiama: per il giudice lo indossava. In appello a Torino si torna sullo stesso tema: il perito tedesco della Corte Hermann Schmitter, stavolta conclude che l’assassino, inginocchiato sul letto “alquanto a sinistra della vittima” indossava sicuramente i pantaloni. Per il Ris indossava casacca e pantaloni, inginocchiato di fronte al bimbo. Per i consulenti della difesa, non lo indossava e stava in piedi. Alla fine la condanna è confermata, ma la pena ridotta. Resta un dubbio: che attendibilità ha un sistema matematico che arriva a tre conclusioni diverse? La Cassazione risolve il giallo usando la “prova logica”, secondo cui nessun altro poteva entrare, uccidere e uscire dalla scena del crimine in così poco tempo: lo ha fatto una mamma sana di mente, senza movente, assassina per “esclusione”.
     “E ciò che dunque per il Riesame era addirittura “arduo ipotizzare” diventa la “prova logica” di una condanna. Eppure la cronaca insegna il contrario: colpire in un attimo e sparire era ad esempio il sistema utilizzato dal serial killer tunisino che uccideva in Puglia, Ben Ezzedine Sebai. Prendeva il pullman, ammazzava una persona a caso, e poi tornava a casa. Nessun movente, nessun collegamento, niente di niente. Non avesse confessato lui, una decina di omicidi italiani sarebbero ancora irrisolti”.
     “Quattro anni più tardi la scienza esce ancora di scena. Siamo nella corte di via Diaz, Erba, poco dopo le 20, 11 dicembre 2006. Alcune persone vedono del fumo uscire dall’appartamento di Azouz Marzouk e della moglie Raffaella Castagna e accorrono pensando ad un incendio. Saliti al primo piano trovano invece sul pianerottolo Mario Frigerio, che abita nella mansarda, a terra, ferito alla gola. Da sopra arrivano le urla di aiuto della moglie Valeria Cherubini: ma le fiamme sono troppo alte per salire ancora e soccorrerla. Mentre in casa Marzouk trovano una scena orribile: tre cadaveri. Raffaella Castagna, la madre Paola Galli e il bimbo di Raffaella e Azouz, Youssef, di nemmeno tre anni. Sono stati uccisi. Ma da chi? All’esterno un dirimpettaio vede armeggiare alcuni extracomunitari, la stessa scena che nota Ben Brahaim Chemcoum, tunisino senza fissa dimora, che andrà due volte dai carabinieri a raccontare la sua versione dei fatti senza che sia preso in considerazione”.
     “Il procuratore di Como Lodolini, la stessa notte, dice ai cronisti che è Azouz il principale sospetto: solo che Azouz si trova in quel momento in Tunisia. Gli inquirenti cercano di risolvere rapidamente il caso e, in fondo, c’è Frigerio, salvatosi, che può testimoniare sull’accaduto. Il 15 dicembre l’uomo spiega al pm Simone Pizzotti che ad aggredirlo è stato un uomo dalla pelle olivastra, esperto di arti marziali, mai visto prima. Anche lui invita gli inquirenti a cercare l’assassino tra gli extracomunitari che frequentavano casa Castagna. Il giorno dopo fa inviare un fax dal suo avvocato agli investigatori nel quale spiega che l’aggressore era decisamente più alto di lui. I carabinieri di Erba hanno però tutt’altra idea, fin dalla sera della strage: sospettano di Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa che litigavano spesso con Raffaella. Il 20 dicembre il comandante della stazione locale dell’Arma, Luciano Gallorini, va in ospedale da Frigerio e gli chiede se l’uomo olivastro, sconosciuto e più alto di lui che lo ha assalito non possa essere invece il noto vicino di casa, bianco e più basso: Olindo Romano. Frigerio scoppia a piangere”.
     “Sei giorni più tardi il testimone dice ai magistrati che vanno a interrogarlo in ospedale che sì, è stato proprio Olindo ad aggredirlo. L’8 gennaio scattano le manette: arrestano Olindo, ma anche Rosa. Invano i due sostengono che all’ora della strage erano in un McDonald’s a Como, esibendo lo scontrino. Intercettati in carcere due giorni più tardi, Olindo dice a Rosa che vuole confessare. E la moglie pare stupita: “Ma cosa c’è da confessare? Non siamo stati noi”. Alla fine è proprio lei ad ammettere i delitti. Seguita da Olindo. Nel farlo, vengono mostrate a entrambi le foto della strage e a lei vengono ripetute tutte le dichiarazioni fatte dal marito. Dopo lunghissime ore, le versioni risulteranno combaciare. I successivi avvocati della coppia conteranno 243 errori nella confessione di lui e così tanti nella versione di Rosa da aver perso il conto. Ma il caso è dato per chiuso. Passano diversi mesi. Poi Olindo e Rosa ritrattano. Nessuno ci crede. Il primo colpo di scena arriva però dalla relazione del Ris, che non trova alcuna traccia dei due nel palazzo della strage e nessuna traccia delle vittime in casa loro”.
     “C’è un altro dettaglio che non torna: quando i soccorritori sono entrati nel palazzo hanno sentito Valeria Cherubini che gridava aiuto. Ma se Olindo e Rosa l’hanno uccisa subito dopo, non potevano essere scesi da lì per andare in casa loro a cambiarsi degli abiti, proprio perché in quel momento lì c’erano i soccorritori. Possibile che gli assassini siano altri e siano usciti da un’altra parte? Per la sentenza che li condanna all’ergastolo no: secondo i giudici Valeria Cherubini, attinta da 43 colpi al corpo 8 dei quali le avevano fracassato il cranio, con la gola squarciata e la lingua tagliata, ha avuto la forza di salire per una rampa di scale e di gridare “aiuto” prima di perdere, solo allora, tutto il sangue sotto una finestra, dove era stata ritrovata con le mani “come a protezione del capo”. Com’è possibile?”   
     “Non è chiaro e non lo sarà in seguito, tanto che i giudici della Cassazione che confermeranno l’ergastolo scriveranno che sul caso vi erano “non poche divergenze o aporie” ossia problemi che non hanno soluzioni. Il fatto è che nel 2006 l’Italia ha introdotto nell’ordinamento un principio anglosassone, quello cioè in cui si deve essere colpevoli “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ma i giudici si rifanno così alla sentenza che ha condannato Annamaria Franzoni secondo cui “per passare dal fatto noto a quello ignoto va fatto uso di “regole ponte”, che consentono di mettere in relazione i due fatti e di risalire da quello noto a quello ignoto, attraverso la mediazione o di regole di esperienza legittimate dal patrimonio conoscitivo e dalla ripetitività dei fenomeni, o di leggi scientifiche di valenza universale, o semplicemente statistica, ovvero ancora di leggi appartenenti alla logica”.
     “Anche Alberto Stasi è colpevole. Per il delitto della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto nella villetta della ragazza il 13 agosto 2007, che al 118 e ai carabinieri Alberto dice di aver trovato morta sulle scale che portano in cantina. La domanda di tutti i processi sarà sempre la stessa, dando origine a maxiperizie: come ha fatto il giovane a non sporcarsi le scarpe di sangue quando è entrato e ha trovato il corpo? Lo fermano, ma, tra tutti i sembra e i pare, il gip non trova niente di rilevante per convalidare l’arresto. E lo rimette fuori. Si va a processo con rito abbreviato. E il gup Stefano Vitelli nota un dettaglio: è vero che sotto le scarpe di Stasi non c’erano tracce ematiche. Ma non ce n’erano nemmeno sotto quelle dei primi due carabinieri che entrarono in casa (e che fecero analizzare le scarpe dopo un po’ di tempo). Né ce n’erano di evidenti a occhio nudo sotto i calzari del personale del 118 (tranne una persona) intervenuto nella villa. Significa che all’ora in cui dice di essere entrato il sangue si era evidentemente seccato. Assolto in primo grado, assolto in appello, la Cassazione però annulla. E si arriva ad una condanna a 16 anni che diventerà definitiva, per la decisiva ripetizione dell’esperimento della camminata che documenta come (evidentemente solo lui?) non potesse non sporcarsi le scarpe”.
     “Tra i delitti mediatici c’è solo un caso in cui due imputati ne sono usciti in un’altalena giudiziaria: quello di Raffaele Sollecito e Amanda Knox, processati, condannati, assolti, condannati, di nuovo assolti per l’omicidio di Meredith Kercher. Loro sono stati riconosciuti innocenti. Ma, in fondo, il colpevole era già dentro, definitivamente: l’ivoriano Rudy Guede, l’unico dei tre di cui ci fossero tracce di dna nell’appartamento del delitto”.
     “Nell’estate 2010, quando scompare la quindicenne Sarah Scazzi, la situazione si complica. Non c’è di mezzo la tecnologia. E non si crede nemmeno troppo ai testimoni. Di fatto, non appena lo zio Michele Misseri crolla e ammette di aver ucciso in un raptus la nipote, portando gli inquirenti al pozzo in cui l’avrebbe gettata, il caso dovrebbe essere chiuso. Solo che i suoi ricordi non sono precisi. Arriva a fornire sette versioni, finché non coinvolge, nell’ultima, la moglie Cosima Serrano e figlia Sabrina, tenendo per sé la soppressione del cadavere. Gli inquirenti non gli credono più. Diventa l’uomo in balìa delle donne di casa, costretto a dormire su una sdraio e a mangiare gli avanzi. Ma come e perché Sabrina e Cosima avrebbero ucciso Sarah?”.  
     “La dinamica non è più tanto chiara, visto che cinque anni più tardi si arriverà a dodici testimoni indagati, compreso un fioraio che prima disse di aver visto Cosima trascinare Sarah su un’auto, poi sostenne di aver sognato. Il movente pare abnorme: gelosia. Dirà in tribunale Mariangela Spagnoletti, che il 26 agosto sarebbe dovuta andare al mare con Sabrina e Sarah: “A Sabrina piaceva Ivano. Me lo diceva lei che parlava sempre di Ivano, gli interessava come ragazzo, voleva avere con lui una storia. Sabrina glielo ha detto e glielo  ha fatto anche capire. Per lei era una cosa forte”. E soprattutto, che il giorno della scomparsa di Sarah: “Sabrina era già in strada. Era agitata, ha fatto una prima telefonata fuori dall’auto, la seconda in auto e poi ha detto “l’hanno presa, l’hanno presa”.
     “Zio Michele intanto torna ad autoaccusarsi, proverà ad essere più preciso nei ricordi. Ma, in un Paese dove in più casi le confessioni da sole diventano una prova regina anche quando vengono ritrattate nessuno gli dà più retta. Se la caverà con otto anni, mentre moglie e figlia prenderanno l’ergastolo. Un caso più unico che raro, dove, peraltro, risulta davvero scioccante immaginare che una mamma sia talmente solidale con la figlia da aiutarla ad ammazzare la cugina per una cotta giovanile”.
     “Infine, c’è la conferma della condanna in appello di Massimo Bossetti, per quel suo dna ritrovato sui leggins di Yara Gambirasio. Non l’unico, in verità, sui vestiti della giovane, di fatto l’unica prova trovata contro di lui. Un dna che però è anomalo, nel quale corrisponde il codice genetico nucleare, ma non quello mitocondriale. Il muratore, che non sa spiegare come quel dna sia arrivato lì, ha chiesto in due gradi di processo di poter verificare con una perizia che sia davvero suo. Per due volte gli è stata negata questa possibilità, costringendolo ad andare all’ergastolo, come dire, sulla fiducia, senza esercitare il proprio diritto di difesa”.
     “D’altra parte gli esperti in primo grado spiegarono che le possibilità che quel dna appartenesse ad un altro erano pari a una su 330 milioni di miliardi di altri pianeti popolati ciascuno da 7 miliardi di persone. Un numero davvero stupefacente. Ma non ditelo a Peter Neil Hamkin, barista di Litherand, vicino Liverpool, Inghilterra: quando nella pineta di Chioma, nel livornese, il 19 agosto 2002 fu uccisa Annalisa Vincentini, il test del dna portò a lui, con tanto di nome e cognome, e Scodand Yard lo fermò. Giurò di non essere mai stato in Italia e nonostante le perplessità degli esperti, gli inglesi si decisero a ripetere il test. Venne fuori che davvero il dna non era il suo. Tre anni più tardi trovarono una nuova corrispondenza con un detenuto in Germania di origine, pare, russa: Andrei Orni. Nel 2010 la Cassazione l’ha condannato definitivamente a 27 anni”.
     “Delitti senza cadavere. Ma condanne per omicidio, in primo grado, sono giunte recentemente anche per altri due noti casi mediatici, stavolta di scomparsa: Antonio Logli, ventanni in abbreviato in primo grado per l’omicidio e la soppressione del cadavere di Roberta Ragusa, svanita nel nulla nel gennaio 2012, la notte del naufragio della Concordia. E quella di Padre Gratien Alabi a 27 anni, per l’omicidio di Guerrina Piscaglia, casalinga 50enne, sparita il primo maggio 2014 a Ca’ Raffaello, una località dell’Appenino aretino. Il problema è che il cadavere non c’è. E i giudici hanno dovuto così sostenere ben tre “prove logiche”: la prima è che la persona scomparsa sia effettivamente morta. La seconda è che sia stata uccisa e non morta in un incidente né che si sia suicidata. La terza è che l’assassino sia effettivamente l’imputato”.
     “Eppure nella cronaca non mancano casi di persone considerate morte, assassinate, che invece erano vive, magari trattenute contro la propria volontà. Basti ricordare la vicenda di Natascha Kampusch, segregata otto anni dietro la porta blindata della casa di Wolfgang Priklopil. Sempre negli ultimi anni fecero scalpore le disavventure di Gina De Jesus, Amanda Berry e Michelle Knight, prigioniere per anni di Ariel Castro, conducente di autobus, e date per morte da tempo. Ma è stato proprio un caso di “delitto senza cadavere” a far cambiare il codice penale italiano. Perché l’episodio più inverosimile, ma dannatamente vero, di persona data per uccisa e invece viva e vegeta, lo abbiamo avuto proprio in Italia nel 1954, quando ad Avola, in Sicilia, all’improvviso svanì nel nulla Paolo Gallo. Gli inquirenti non lo trovavano da nessuna parte e accusarono il fratello Salvatore di averlo ucciso e di averne nascosto il cadavere, aiutato, in quest’ultima operazione, dal figlio Sebastiano”.
     “Ci fu chi disse di averlo visto vivo. E venne condannato per falsa testimonianza. Senonché Paolo vivo lo era davvero. Fu ritrovato sette anni dopo: disse solo che col fratello aveva litigato e che non voleva più saperne nulla. Per tirar fuori Salvatore da Porto Azzurro fu necessario introdurre in Italia la revisione processuale, che prima non esisteva. Uscito in carrozzina, nessuno lo risarcì. Passano trent’anni e lo stesso schema si ripete altrove: il pomeriggio del 26 luglio 1984 Petra Pazsitka va dal dentista. Deve tornare a casa, a Wolfsburg, per il compleanno del fratello. Invece sparisce. Non ha alcun motivo per allontanarsi: si sta per laureare e tutto procede per il meglio. E poi c’è la festa in famiglia. Gli appelli in tv non approdano a nulla. La Procura tedesca si convince dunque che sia stata uccisa. Trascorre un anno e arrestano Gunther K., 19 anni, già accusato dell’omicidio di una 14enne avvenuto in un luogo non troppo distante da dove Petra è sparita. E Gunther confessa: “Sì, l’ho ammazzata io”. Petra è dichiarata morta nel 1989. Senonché, anno 2015, a Dusseldorf, la signora Schneider denuncia un furto con scasso. Quando la polizia le chiede un documento per firmare il verbale risponde che non ce l’ha. Il motivo? Il suo vero nome è Petra Pazsitka, sparita nel nulla 31 anni prima, il cui delitto fu confessato (chissà come) dal giovane Gunther. Per 31 anni ha mantenuto il segreto senza aprire conti in banca, pagando solo in contanti, lavorando solo in nero. Dice che aveva preparato la sua fuga mesi prima, mettendo via l’equivalente di 2mila euro attuali e affittando segretamente un appartamento. Lo psicologo Gerd Zimmek spiega alla Bild che probabilmente la donna soffre di un disturbo chiamato fuga dissociativa. Sarà”.
     “Ma le variabili nei casi dei “delitti senza cadavere” sono davvero tante. Ancora in Italia non si può non pensare ad un altro clamoroso errore: stavolta le persone scomparse erano davvero morte. Ma in un incidente. E la storia dei fratellini Ciccio e Tore di Gravina, di 13 e 11 anni: svaniscono nel nulla nel giugno del 2006, li cercano ovunque e invano per venti mesi. Almeno così dicono. Sul padre dei piccoli, Filippo Pappalardi, viene costruito un castello di ombre e sospetti finché il 27 novembre 2007 viene arrestato con l’accusa di averli uccisi e di averne occultato i corpi. Nessuno crede alla sua innocenza fino a quando, il 25 febbraio 2008, un bimbo di 11 anni cade in un pozzo della cosiddetta “casa delle cento stanze”, una casa padronale abbandonata nel centro di Gravina. Quando i quattro vigili del fuoco scendono a salvarlo notano delle ossa: i resti dei due fratellini. Filippo, ancora in prigione, viene fatto uscire con tante scuse, ma non subito. All’inizio gli vengono concessi i domiciliari per il nuovo reato di abbandono di minore seguito da morte. Poi, quando l’autopsia rivela che i bimbi sono caduti accidentalmente, gli inquirenti si arrendono all’evidenza: l’uomo è innocente. Sarà risarcito con 65mila euro, un’inezia di fronte all’infamia”.
“E allora – conclude Edoardo Montolli nel suo “pamphlet”,  da dove ho “tratto” parte di questa introduzione  - non è rischioso condannare se manca la prova principale, ossia un cadavere?”.


Fatti, misfatti, delitti & processi di casa nostra

Da giudiziarista, cronista giudiziario, mi sono approcciato ai delitti fin dai primi anni della mia milizia giornalistica. Anni Sessanta. La frequenza delle Corti di Assisi, in particolare, (ma anche i miei venti anni come funzionario del Ministero della Giustizia presso la Corte di Appello di Napoli) mi ha spinto sempre di più ad interessarmi degli omicidi, con un particolare movente. Ma, nell’approfondire questi argomenti e divorare tutta la saggistica nera, ho subito constatato che la nostra provincia non era diversa, dal mondo intero e che negli archivi e nelle cancellerie vi erano delitti atroci, barbari, inusitati, raccapriccianti. Nel 1958 avvenne il delitto del medico sammaritano Aurelio Tafuri, il cui movente mi fulminò sulla via di Damasco!  Stetti per quasi 15 anni a raccogliere materiale inedito (le arringhe, le perizie, le foto, i ritagli di giornali, le testimonianze) venne fuori la mia opera prima: “Il delitto di un uomo normale”. Fu una rivalsa per riscattarmi da anni bui che avevo attraversato, con vicende drammatiche e dirompenti della mia vita. Mi ripresi. Il libro edito da Il Filo - Albatros e distribuito da Mursia Editore (pubblicato nel  2009) venne ristampato ed andò esaurito. Ma passò quasi in ombra nella provincia. Poi Alfonso Martucci, qualche giorno prima che finisse (2008) mi consegnò una velina della sua difesa per il processo Tafuri. Lui era stato compagno d’infanzia del medico assassino e lo aveva difeso in Corte di Assise con una arringa memorabile. Vi è da premettere che io sono nato a via Torre, oggi via Alberto Martucci; mia sorella Melina aveva cresimato la sorella Giuseppina, suora di clausura nelle Domenicane di Alba; frequentavo il suo studio già da giovane, lui mi voleva bene, mi dava consigli su come impostare il libro su Tafuri. Non feci in tempo ad inserirla nell’edizione in preparazione (che già conteneva le arringhe di Enrico Altavilla e Alfredo De Marsico) anche perché era scritta a macchina con molti refusi ed era lunghissima. Continuai a raccogliere materiale sulla vicenda e dopo alcuni anni venne fuori  il mio secondo libro “Il caso Tafuri”, arricchito dalla bellissima arringa dell’avvocato Martucci.  Brutto nel formato. Illeggibile e mastodontico. Ma fu stampato in quel modo perché – su consiglio di un mio amico professore universitario della Facoltà di giurisprudenza - era diretto ai giovani che si affacciavano alla professione forense. Infatti, la maggior parte delle copie, furono vendute nelle due librerie che trattano testi universitari. Boicottato da tutta la borghesia sammaritana (perché avevo esposto al pubblico ludibrio  - con una analisi approfondita - una delle famiglie più in vista della città bigotta ma anche perché avevo fatto i nomi della signore della “santamaria-bene” che frequentavano i convegni nella villa di Castelvolturno, i balletti e gli strip a base di cocaina); avversato dai parenti e affini (la cameriera della famiglia Tafuri diffidava gli edicolanti ad esporre le  copie del mio libro) e la famiglia minacciava, attraverso gli avvocati, querele e citazioni. Ignorato dagli avvocati ( il banchetto all’ingresso del tribunale delle Edizioni Giuffrè vendette due-tre copie). Se non un fallimento fu un vero e proprio disastro editoriale. Già avevo dovuto attendere la morte della mamma di Tafuri, che era una “bizzoca”, amica di mia sorella Melina, la quale mi ripeteva continuamente di non pubblicare il libro perché “troppo brutto”…!  Vi è da dire però che “Nessuno è profeta nella propria Patria”, che continuo ad avere richieste e sono costretto a ristampare continuamente il libro per lettori… non sammaritani!
Addirittura il maestro di musica Pino Carolis ha voluto scrivere una ballata per cantastorie con chitarra, in la minore… intitolata: “La storia del Tafuri”


Questa triste storia del Tafuri
Caso  di  tristezza e anche d’orrori
Quando la passione esce fuori
succedono delitti per amori

Lui che la vorrebbe come amante
In una verità che è... tanto  distante
sogna di tenerla tra le braccia
diventa  assassina la  sua faccia

Dentro un processo a ricordare
che in fondo lui non sapeva amare
Quando gli donava soldi e fiori
in cambio non voleva  i suoi  favori

E fù  per debolezza della  mente
che diventò pazzo e incosciente
fu condannato per folle  omicida
quando al fidanzato tolse la  vita

Lo invitò per mezzo di  un lavoro
Poi  lo finì con un colpo al cuore
Il giovane non fece manco un turno
e fu trovato morto nel Volturno

Voleva la sua amica  a se vicino
E diventò Il medico assassino
per  un amore  pazzo non si uccide
E dietro a  quelle sbarre Lui si vide.

Il caso di Tafuri fù archiviato
Però  tanto e ancora si è parlato
Storia d’intrighi e depravati vizzi
A scrivere Il libro c’è  il Terlizzi....




      Alla faccia di tutti i detrattori. Prosit! Poi a maggio 2017 ho pubblicato il mio terzo libro “Delitti in bianco e nero a Caserta”. Esaurito già in prima battuta e ristampato dopo appena quattro mesi.  Il segreto? Non è monotematico. Ora questo “Fatti, misfatti, delitti & processi di casa nostra”, che riporta delitti efferati cha vanno dal 1920 ai nostri giorni. Non sono stati scelti a caso. Ma per movente.
     Si parte dal  bandito geloso e innamorato  Carlo Boemio, che sottopose a grassazioni e compì vari delitti in Cancello Arnone,  che tentò anche una fuga dal carcere… dopo aver commesso una strage al torneo di Cappella Reale, per giungere al delitto della donna di Albanova,  che uccise a rivoltellate il genero di cui da molti anni era l’amante. Mentre, nel 1945, un giovane ferì lo zio che ostacolava le nozze della figlia e uccise un operaio che era in sua compagnia. Il 2 giugno del 1946, in concomitanza con le votazioni per la proclamazione della Repubblica, tre fratelli furono accusati di aver ucciso per vendetta Ersilio Riccardo e ferito per  “aberratio”  il giovane Antonio Spierto.  Dopo 4 anni Michele Iovine,  uccise per vendetta,  Francesco Castiello. Fu incriminato per omicidio colposo anche il medico Raffaele Di Bello che lo stava curando dopo  il  ferimento. Il delitto fu ordito ad  Albanova,  eseguito a Cancello Arnone  e occultato a  Castel Volturno.
     Nel marzo del 1946, un  giovane fu assassinato con un colpo alla testa e gettato in un pozzo.  Un giallo degli anni cinquanta ancora senza colpevoli. Era stato sospettato del furto di una motocicletta ad un possidente del posto. Furono accusati i componenti di una banda e  i vertici della camorra dell’epoca. Sull’omicidio vi furono versioni contrastanti dei carabinieri di S. Cipriano (a favore di un indiziato dell’omicidio) e quelli di Castelvolturno (a favore delle tesi dei familiari delle vittime). Per avere un rapporto (primo caso nella storia giudiziaria) il magistrato dovette sequestrare gli atti presso la Caserma dei carabinieri di San Cipriano. A Casagiove, invece,  il 17 ottobre del 1946, Cipriano Serao, tentò di uccidere il seduttore della sorella minorenne, Saverio Cavaliere. Fu ritenuto un delitto d’onore. La ragazza  lavorava come cameriera presso  il Dr.  Renato Iaselli, futuro sindaco di Caserta. Una perizia sullo stato di mente redatta dal Prof. Eustachio Zara, medico primario dell’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, stabilì che era in uno stato di infermità psichica consistente dalla incapacità di valutare l’importanza e le conseguenze dell’atto sessuale  e di potervi opporre  adeguata resistenza.
     Seguirono due  mancati omicidi per questioni d’onore ed eredità.  Accaddero a San Felice a Cancello, il 9 ottobre del 1949, dove un uomo tentò di uccidere la moglie,  la suocera e le cognate  per motivi  d’onore sparando 5 colpi di rivoltella. Il secondo episodio accadde il 17 febbraio del 1950, allorquando un giovane tentò di uccidere lo zio per una eredità contesa. Un altro cruento episodio avvenne a Marcianise quando la città  era il centro della lavorazione della canapa del casertano. I concorrenti gli volevano soffiare un affare per la sua vasca di macerazione della canapa. Un morto e due feriti…per l’attrito tra i due. Uccise con tre colpi di pistola il cugino e ferì il nipote. Il 16 ottobre del 1949, invece, a Maddaloni, due assurdi delitti:  un giovane,  per il furto di  una patata da una caldaia messa a bollire per il pasto dei maiali, uccise un operaio;  mentre il secondo fatto di sangue si verificò allorquando un uomo  uccise il cugino,  con un calcio,   perché   alcuni   polli  avevano beccato la sua piantagione di cavoli.
     Era appena ritornato dalla leva militare e dopo i delitti  tentò il suicidio sparandosi alla testa. Fu rinvenuto in fin di vita in un crepaccio in aperta campagna. Ma non morì. La sua amante lo aveva stregato? Definì il padre “vigliacco” e quasi mostrò  di compiacersi di aver schiusa la tomba a chi gli diede la vita. Accadde a San Potito Sannitico il 1° febbraio del 1950. Nello stesso anno a Villa Literno,  Francesco Corvino uccise Francesco  Borrato e tentò di uccidere il fratello. La sparatoria con morti e feriti tra due carretti alla rotonda di Villa Literno. Alla base della vendetta vecchi rancori familiari e la mala  gestione delle vasche di macerazione della canapa. Il 13 settembre del 1950 a Cervino  il giovane Pasquale Piscitelli  uccise lo zio Alessandro De Lucia istigato dalla zia per una eredità; mentre in agro di San Felice a Cancello, il 26 giugno del 1950, si consumava l’ennesimo delitto passuoinale: “O sarai mia o di nessuno”… Lei si rifiutò, lui tentò di ucciderla con un colpo di pugnale al fianco. Era stata in precedenza violentata ma non volle accettare il matrimonio riparatore. Una Franca Viola antesignana?
     A Cancello Scalo, invece, il 24 agosto del 1950, Giuseppe Della Rocca uccise colui che riteneva il mandante dell’omicidio del fratello. Il primo delitto nel 1943 nel corso di una violenta sparatoria. Alla base dell’omicidio la interruzione della costruzione di un pozzo artesiano. Come pure finì nel sangue lo sfratto del colono: “Tu me ne cacci io ti uccido”… a Castello Lariano di  Marcianise dove il  Preside fu assassinato dal colono che aveva sfrattato. Ma ad Alvignano, ancora oggi ricordano la strage di una intera famiglia era il gennaio del 1950. Padre e figlio, accusati dell’orrendo delitto,  furono  assolti però  in appello,  dopo avere scontato undici anni di carcere in seguito all’annullamento della condanna all’ergastolo. Erano accusati di aver sterminato una  famiglia di 4 persone per motivi di interesse.
     Il 1950 fu un anno pregno di cronaca: ben 10 delitti.  Iniziò con la strage di un marito tradito. Un carabiniere di Cancello Arnone che uccise la moglie, la suocera e poi si suicidò mentre nello stesso periodo a  S. Cipriano, “dove lo schiaffo rappresentava una caparra per la morte”, il guappo di “turno”, si girò verso l’avversario esplodendogli contro più colpi di pistola ma uccise anche un ignaro barbiere. Nella tranquilla terra dei vini pregiati come il Pallagrello e il Casavecchia, sulla strada che da Pontelatone conduce a Formicola,  Salvatore Di Dario uccise Ermenegildo Parillo, il  giovane amante della moglie. Fu sfortunato… perché tentò di uccidere anche la donna ma la pistola si inceppò. Nell’occasione venne alla luce una relazione  “more uxorio” di un possidente sammaritano e si scoprirono gli amori mercenari della contadinotta assai piacente la quale per “darla” chiedeva appezzamenti di terra in donazione. Una sorta di “bocca di Rosa” della famosa canzone di De Andrè…si arriva così a Villa Literno, il 24 maggio del 1950, allorquando per la contesa di un piccolo appezzamento di terreno comprato all’asta, si realizza un truce delitto. I giudici nella motivazione della sentenza di condanna additarono le popolazioni dei Mazzoni come una pletora di malviventi: “Nel patente disconoscimento delle fondamentali norme sociali e giuridiche si rivela la personalità dell’imputato, sintesi dell’ambiante, espressione del costume di sopraffazione che infesta la plaga in cui egli è nato e vissuto”. In certe zone (camorristiche) comprare all’asta la proprietà altrui significa scavarsi la fossa!
     Teatro invece dell’ennesimo assurdo delitto la ben nota San Cipriano d’Aversa, il 22 maggio  del 1950 il capraio Alfredo Esposito, uccise la sorella Mafalda, che avversava le sue nozze con una donna “megera”. Un fratricida assurdo, un delitto crudele, un movente incerto ed illogico. Un cruento fatto di sangue germinato da un odio profondo e da rancore ancestrale.  La vittima era vedova ed aveva una bambina di pochi anni,  che rimase orfana. Il fratello sparò con una pistola e la sgozzò con un  baionetta. Non da meno nella vicina  Trentola, il 24 del mese seguente dello stesso anno allorquando Alessandro Fabozzi, uccise Michele Martino, fidanzato della figlia e ferì gravemente un suo compagno. La giovane accusata di concorso nel delitto venne, però, scagionata.  Il giovane aveva violentato la ragazza, l’aveva infettata di  “sifilide” e l’aveva lasciata per un’altra. Fu un delitto d’onore?
     Ci spostiamo poi a sud della provincia a Cancello Scalo, in Limiti di San Marco di Santa Maria a Vico, per registrare due truci fatti di cronaca. L’uno del 1943 e l’altro del  1950. Giuseppe Della Rocca, facoltoso imprenditore locale uccise il presunto mandante dell’omicidio del fratello.  Il primo delitto si verificò nel corso di una violenta sparatoria. Alla base dell’omicidio la interruzione della costruzione di un pozzo artesiano. Un movente per gli inquirenti futile. Il secondo fatto di sangue accadde alla Frazione Talanico di San Felice a Cancello il 25 aprile del 1951. Aniello Marotta, Raffaele Lettieri, Gildo Piscitelli e Pasquale Migliore  uccisero per vendetta il guappo locale Pasquale Bernardo. La vittima  si  vantava  in pubblico di aver posseduto la moglie del Piscitelli. Una torbida storia di incesto e di prevaricazione in un ambiante immondo ed in degrado.
     Giungiamo così a Capua, nella Caserma Mezzacapo,  dove il 22 settembre del 1951un  barbiere uccise a forbiciate il vicino che riteneva amante della moglie. L’assassino ritornava da un funerale, allorquando, uccise il vicino il  47enne  Giuseppe Lanziello che riteneva amante della moglie. La donna, bella, affascinante, corteggiata da molti uomini, 30enne, era di Santa Maria Capua Vetere. Il Guarino, dopo aver colpito con le forbici il Lanziello, si portò nei pressi di una fontanina, che esisteva nel cortile,  ed iniziò a lavare l’arnese inzaccherato  di sangue e mentre compiva tale azione gridava  a squarciagola: “Ne ho fatto uno…”.
     Da registrare l’ennesimo cruento episodio che  accadde il 9 dicembre del 1951 tra San Cipriano e Casal di Principe. Fu un omicidio a scopo di rapina, fatto singolare per la zona. Fu assassinato un  agricoltore, Luigi Schiavone per mano dei fratelli Armando e Amedeo Galoppo. L’uomo si difesa ma fu ucciso con la sua arma dai  due malviventi. Poi nella zona che si potrebbe definire “tranquilla”, l’alto casertano, dove la popolazione si dedica più al lavoro dei campi che ad altre attrattive all’improvviso scoppio la tragedia  a Prata Sannita il 31 maggio del 1951fu consumato un  raccapricciante delitto d’onore. Una donna uccise con una scure il seduttore della figlia. Era vedova ma in paese si mormorava che fosse innamorata del fidanzato della figlia. Si fece prestare l’arma del delitto da un suo vicino e spaccò in due la testa al giovane. Sottoposta a perizia psichiatrica fu riconosciuta “capace di intendere e volere”.  Era nota nella zona con l’appellativo di  “Mazzutessa” ed  era additata da tutti come una “che la dava con facilità”… rozza e provocante, una bellezza che attirava gli uomini come moscerini…
     Dobbiamo poi registrare – nello stesso anno -  a Casapulla il gesto disperato di un  macellaio che tentò di uccidere la zia a coltellate. La donna stette per vari giorni tra la vita e la morte. Alla base del folle gesto il sequestro di un quantitativo di canapa per una cambiale di 150 mila lire non pagata.  Le zie erano ricche, il loro padre uno scialacquatore, insieme volevano affamare i nipoti. In agro di Falciano di Carinola, il 5 giugno del 1951 un giovane contadino  uccise il padre della ragazza che aveva sedotto. L’imputato raccontò che dietro la siepe, vi era un uomo bocconi a terra, il quale faceva l’atto di alzarsi ed imbracciare un fucile contemporaneamente esclamando: ”Disgraziato non ti muovere, questo è l’ultimo giorno della tua vita!”. Nel processo adombrò la legittima difesa ma non venne creduto. Due mesi prima del delitto la ragazza aveva sparato un colpo – andato a vuoto – contro il suo seduttore. La legittima difesa invece venne completamente riconosciuta al guardiano di una tenuta che si difese rispondendo  al fuoco di una banda di ladri.  Uno fu ferito a morte  in agro di Villa Literno nella  notte del 7 luglio del 1951.
     Nella stessa “plaga” dell’aversano in due date diverse (luglio 1950 e gennaio 1951) Antonio Sabatino uccise il nipote Giovanni Pagano con un colpo di pistola per il pagamento di un cavallo mentre per la “serie la vendetta è un piatto che va servito freddo”, un giovane di Mondragone assassinò il figlio dell’uomo che gli aveva ucciso il padre 15 anni prima, quando lui aveva soltanto 11  anni. Era presente al delitto e sfuggì  miracolosamente alla morte.  Il primo delitto avvenne nel 1938  e l’assassino aveva scontato 15 anni di galera, era uscito da poco ma il giovane applicò la ”legge di sangue dei Mazzoni”, la medioevale fàida. Ad Alvignano il 29 gennaio del 1952 il primo infanticidio dell’anno. Una ragazza-madre strangolò la figlioletta appena nata e lo getto’ in un pozzo. Credeva che con il delitto avrebbe potuto salvare il proprio onore.  Il cadaverino era stato avvolto in una mutandina con le iniziali dell’assassina. Accusò falsamente la madre e il fidanzato di complicità.
     E dall’infanticidio a femminicidio il passo è breve. Ma all’epoca non si definiva così la soppressione di una donna. Il fatto accadde in agro di Grazzanise il 17 agosto del 1952. Uccise la  moglie che lo tradiva. Il contadino Stefano Iannotta esplose 5 colpi di pistola all’indirizzo della moglie Vincenza Lanna lasciandola in mezzo alla campagna. L’uxoricida si riteneva tradito ma non fu ritenuto un delitto d’onore. Negava di aver ucciso perché venuto a conoscenza della sua relazione con  Raffaele Gravante, un giovane 19enne alto e biondo che lavorava con la donna. Teatro, invece, dell’ennesimo delitto per vendicare l’onore perduto fu la Pretura di Carinola  il sette febbraio del 1952. La giovane Addolorata Di toro ferì il suo seduttore nell’aula di udienza mentre si stava celebrando il processo  a carico  di Stanislao Lanfranchi  per sottrazione di minore e violenza sessuale. La giovane esplose otto colpi di pistola in mezzo al pubblico, il fidanzato cadde in una pozza di sangue. Stette vari giorni tra la vita e la morte.  
     A  Gricignano, il 26 maggio del 1952, un operario che era stato  cancellato dalla lista dei disoccupati  uccise il collocatore. La provocazione del sindaco che in un comizio affermò: “il collocatore lo faccio io”. Il funzionario aveva dato lavoro ad un disoccupato con 7 figli a carico. Ancora un cruento episodio germinato da dissidio per ragioni di lavoro provocò tra Cancello Arnone e Casal di Principe il 25 aprile 1952 l’ennesimo delitto. La mattina vi era stata una discussione per un carico di pozzolana;  la sera la vendetta e il delitto.  Mario Della Corte, Luigi Della Corte e Antonio Natale, accusati in concorso tra loro di aver ucciso, con un colpo di pistola diretto contro Antonio Bifulco (che scappando si rifuggiò nel palazzo della vittima)  cagionato per  errore di identificazione la morte di Gennaro Caterino.
     Giungiamo, così, al febbraio del 1952 allorquando le Sorelle Angela, Nicolina, Lucia  Rosa Cantone aggredirono la moglie di un loro  zio, Pasqualina Turco, in  stato interessante causandone la  morte. Il delitto accadde  in Lusciano. Il movente era da ricercarsi nei rancori delle donne nei confronti del marito della Turco Alfonso Cantone, accusato di essersi appropriato di una quantità di costoso carico di rame. La vittima, cardiopatica partorì un bambino morto al settimo mese. Nella contrada “Casapesenna”  di San Cipriano d’Aversa  il 13 aprile del 1952, Filiberto Diana, Giuseppe Petrillo e Armando Gagliardi  con pistola e colpi di pallettoni uccisero il guardiano campestre Antonio Mormile.  I cittadini abitanti nei pressi del luogo del delitto  furono concordi nel dichiarare che la sera precedente  erano stati svegliati da otto, nove colpi  di pistola, sparati quasi contemporaneamente, ma non avevano dato peso all’occorso in quanto non avevano udito alcun grido di persona colpita ed anche perché ritenevano che  si fosse trattato della “solita” sparatoria di giovani scapestrati che sparano sempre allorquando – provenienti dai cinema di Casal di Principe e San Cipriano – rincasano in Casapesenna.  
     Continuando a tracciare la lunga scia di sangue della nostra Provincia giungiamo, così,  al giugno del 1952, allorquando due coniugi furono  crivellati di colpi su un sentiero di campagna. Michele Russo e Maria Colella furono uccisi per vendetta.
      Sembra assurdo ma nei pressi del Santuario di  Villa di Briano, Nicola e Francesco Pagano uccisero Roberto Pellegrino per motivi di precedenza. Il movente agganciato al traffico dei carretti dell’epoca. L’omicidio avvenne a seguito di diverbio sorto circa il passaggio e la precedenza dei carri carichi di canapa, dato che la strada medesima era molto stretta. Pellegrino minaccio: “se non ti togli di mezzo ti tiro un colpo di pistola in testa”;  Pagano di rimando al fratello: “Piglia o ribotto, piglia a pistola…!!!
     Ci spostiamo ora a sud della Provincia nella  contrada “Bosco Valle” di  San Felice a Cancello e giungiamo al 19 agosto del 1953 allorquando si consumò una  barbara vendetta tra caprai: Carmine Martone fu assassinato  a colpi di roncola alla presenza di un bimbo di 8 anni. Il delitto ricostruito nei particolari del piccolo testimone che condusse i carabinieri nel bosco facendo scoprire il cadavere occultato e gli autori del truce delitto: Carmine Rivetti e Mario Sabatasso. La vittima si era resa più volte colpevole di pascoli abusivi. Banale fu intanto a San Prisco il 23 agosto del 1953 la lite sulla posizione di alcuni telai per materassi nelle circostanze venne uccisa Emma D’Ariotta. Donne violenti, tra queste, Rosa De Felice assassina senza volerlo…
     E giungiamo a San Cipriano d’Aversa, il 17 ottobre del 1953 dove  Camillo Di Bello, appena 17enne, uccise  il cugino Pasquale Caterino che aveva difeso un presunto parente dell’assassino del padre. Quando a Casale vigeva la legge della vendetta “occhio per occhio e dente per dente” e si precostituivano gli alibi per i prossimi delitti, facendo ricoverare i giovani reputati a compiere la vendetta presso il manicomio di Aversa per avere poi un alibi di seminfermità mentale una volta compiuto la vendetta. E     Casal di Principe  fu il luogo del causale incontro tra l’assassino e la sua vittima in via Serao alle 10,50 del 18 ottobre del 1953.  Antonio Natale uccise il suo fittuario Nicola Musto con tre colpi  di pugnale. L’assassino era un violento ed aveva gravi precedenti. Fu arrestato  con l’arma ancora insanguinata dai carabinieri che stavano in strada indagando su di un altro delitto avvenuto la sera precedente. Mentre ammanettato veniva accompagnato in caserma ingoiò una cambiale che era a favore della vittima.
     E il “pendolo” delle investigazioni si sposta ancora nella malfamata zona a ridosso della provincia di Benevento, alla  Frazione “Mandre” in agro di  Santa Maria a Vico,  in via Bracciale nei pressi del passaggio a livello della Ferrovia Cancelllo-Benevento il 30 agosto del 1953 dove   l’imprenditore Antonio Palermo uccise un suo concorrente Vincenzo Pascarella. La vittima era stata alle dipendenze dei Palermo poi vendeva le gazzose prodotte dai Della Rocca diretti concorrenti. L’accusa voleva coinvolgere Clemente Palermo, padre del giovane, quale istigatore e mandante del delitto. Una sorella dell’assassino era fidanzata con il figlio della vittima. Il monopolio per la vendita delle gazzose provocò il delitto.
     Grazzanise fu invece teatro (non nuovo ad episodi di violenza)  dove Igino Parente uccise per vendetta, con vari colpi di pistola nella pubblica Piazza,  Giovanni Raimondo.  Il movente era da ricercarsi in un precedente agguato ai danni del rag. Angelo Parente nella notte del 18 agosto del 1952 messo in atto dalla vittima che colpì l’anziano a colpi di bastone alla testa.  Il delitto si consumò  il 29 marzo del 1953. Mentre a Mondragone alle ore 6 dell’11 aprile del 1954 un giovane uccise la sorella  perchè era stata sedotta dal fidanzato. Era la domenica delle Palme: “A te la malapasqua”.   La ragazza era in stato interessante e il   fidanzato anche di Mondragone all’epoca era militare a Verona.  In località “Cinque Vie” il 3 agosto del 1954, alle 15,45 nei pressi della linea  Ferroviaria Napoli-Piedimonte d’Alife in agro di Trentola, Luca Ronza uccise con due colpi di pistola Nicola Grassia. Alla base del delitto le ingiurie della vittima nei confronti della madre dell’assassino. La vittima era armata ed aveva tentato di aggredire il suo avversario. La donna era andata a reclamare il pagamento di un barile di vino rotto da un operaio.
    Mentre a Maddaloni, nello studio medico Manfredonia, alle ore 14 del 9 ottobre del 1954 un  padre di 4 figli uccise la moglie con 2 coltellate nello studio del medico ritenuto suo presunto amante. Fu arrestato in ospedale dove con l’arma ancora insanguinata  aveva tentato di finire la moglie se non fosse già spirata. Un ributtante cinismo: mentre l’accompagnavano al carcere chiese ai carabinieri: “Ora che non ho più mia moglie mi posso risposare?”. In giudizio sostenne il delitto d’onore…ma non fu creduto…
     Nella zona alta della provincia dove si vive con più tranquillità il muro del silenzio venne squarciato in località “Forniello”, in agro di Raviscanina, alle ore 17 del 26 giugno del 1954.  La mietitura del grano insanguinata da un duplice delitto. L’agricoltore Pietro Manera  uccise il trattorista  Vincenzo Ricciardi e ferì gravemente il suo vicino Santo Albanese. Il duplice delitto era stato consumato perché  il trattorista  aveva promesso di mietere il grano quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui il Manera non era da tempo in buoni rapporti. Un atroce gravissimi fatto di sangue accadde, invece,  a Sant’ Andrea del Pizzone alle ore 18,30 del 21 agosto del 1954 in agro di Francolise nella massaria “Difesa Vecchia”. Il contadino Gaetano Iossa, uccise con alcuni colpi di pistola la giovane  moglie, Vincenza De Cicco (che aveva in braccia il figlioletto di pochi mesi)  e la suocera, Francesca Aperuta. Quest’ultima (vedova) pretendeva rapporti sessuali col genero con l’assenso della figlia instaurando un “vero menage a trois”  in quanto dormivano in tre nello stesso letto… il giovane prima di commettere il duplice delitto aveva deciso di suicidarsi facendosi travolgere da un treno… L’assassino costretto al matrimonio dopo aver sedotto la ragazza…
     Nella Frazione Casolla di Caserta il I° Ottobre del 1954 un agricoltore  uccise la moglie con una pietra. La donna morì per spappolamento della milza. Il medico che era suo datore di lavoro diagnosticò il decesso come morte naturale. Una lettera anonima dei cittadini di Casolla fece riaprire il caso… Mentre a Frignano il 3 agosto del 1955, Michele Montella, ferì il  fratello e uccise il nipote per la vendetta a seguito di un incendio appiccato al suo campo di canapa e a Capodrise un uomo uccise con tre coltellate il suocero del fratello che lo chiamava “cornuto”. La vittima era un suo vicino di casa, che quando lo incontrava lo apostrofava con l’epiteto di “cornuto” ed anche per questo che aveva preso a nutrire dubbi sulla fedeltà della moglie.  L’assassino sosteneva di aver colpito con un coltello il Generoso perché costui fermatosi presso di lui lo aveva preso per il petto e gli aveva detto: “Questo cornuto lo incontro sempre dinanzi ai miei occhi, sempre di devo uccidere”. 
     Ancora più singolare e barbaro il delitto consumato il 17 luglio del 1955, alle ore 19 alla via Capitelli, 49 in San Tammaro.  Girolamo Mirra per vendicarsi  di percosse e schiaffi assassinò nel suo negozio con 4 colpi di pistola  il giovane nipote Vincenzo Fierro. Ma l’assassino insidiava la cognata vedova…  e la vittima aveva difeso l’onore di famiglia…e  nella frazione Talanico di  San Felice a Cancello, nel Vico Paciello,  il 18 agosto del 1955, un aberrante fatto di sangue. Uccise il fratello alle spalle con tre colpi di pistola per  la contesa di una cugina che entrambi volevano sposare.  Alla base del fratricidio non solo la spartizione dell’eredità e la gestione dell’azienda agricola. L’assassino aveva chiesto per primo la mano della cugina. Il fratello maggiore  invece la stava sposando.
     E giungiamo così al 28 gennaio del 1955, alle ore 23,  nel cortile della vittima a Casal di Principe. Un uomo uccise a bruciapelo  il fratello del dott. Pignata. Il possesso del fondo “Pantanozzo” alla base del delitto. Corvino gli aveva detto che il Coppola minacciava una schioppettata al Pignata ed una a chi avesse messo piede nella terra. Il Corvino, pur negando di aver parlato di schioppettate ammise che il Coppola aveva dichiarato che “si sarebbe dispiaciuto”… espressione che nel gergo casalese – come l’esperienza conferma – suona minaccia ed aperta dichiarazione di ostilità, specialmente quando il dissidio abbia per oggetto un pezzo di terra…
     Ed avviandoci quasi alla fine del nostro cruento viaggio giungiamo alla Frazione Cave di San Marcellino, il 30 luglio del 1955. Un bruto uccise la sorella di sedici anni essendo contrario al suo fidanzamento. Un colpo di pistola alla mammella. La ragazza amoreggiava con il coetaneo Francesco Oliva che però era già fidanzato con altra giovane… Se non che la sorella continuava a vedersi con il giovane Francesco ed anzi coglieva ogni pretesto per uscire all’aperto, mettersi in  mostra e fargli segnali incurante della opposizione  dei familiari e perfino delle percosse che per tale suo comportamento le venivano inflitte. Allora doveva essere uccisa! La mamma e la cognata della vittima riferivano ai carabinieri che si trattava di suicidio. Il fratello della ragazza alla fine confessava di averla uccisa per sbaglio… invece era un delitto premeditato…..
     E poi quello truce ed insensato, aberrante ed abietto eseguito da Pasquale Cafaro che uccise il giovane nipote Giovanni Cafaro per una questione di condominio. Il delitto trovava  spiegazione nei rapporti quanto mai tesi esistenti tra zio e nipote da quando quest’ultimo aveva acquistato i diritti del nonno sul fabbricato ove entrambi abitavano… La vittima  intendeva addirittura far saltare in aria con mine il fabbricato se lo zio non fosse andato via.  Bellona alle 23,45 del 19 marzo del 1956.
     E per finire, ma non ultimo, il delitto avvenne a San Cipriano d’Aversa verso le core 11,30  del 16 aprile del 1956, in una zona campestre di via Serao. Raffaele Buonanno, uccise Giovanni Benito Di Girolamo per un diverbio sul gioco del bigliardo e anche perché amoreggiava con la sorella Maria.  Nel  tentativo di simulare una legittima difesa l’assassino si impossessò della pistola della vittima. Un tempo nella zona era come il Far West: tutti armati… abusivamente. Impossibilitato a reagire subito per l’intervento di terzi, avesse  pensato di vendicarsi dell’offesa ricevuta secondo la triste consuetudine della zona – con la uccisione dell’amico – che aveva attirato nella località del delitto.  
                                                                                                                                                            
 



















FATTI, MISFATTI, DELITTI & PROCESSI IN  TERRA DI LAVORO  
  il prossimo lavoro verterà sui grandi processi della Corte di Assise 





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