In allestimento
CASERTA CRIMINALE
CASERTA
CRIMINALE
Fatti,
misfatti, delitti & processi in Terra di Lavoro
1920-1960
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I
delitti dell’Italia raccontati dalla
“Settimana Incom”
Una maga con “strumenti primordiali” – un
martello, una scure: con l’accenno a fatti di stregoneria il cinegiornale della
Repubblica, la Settimana Incom, apre, nell’Italia contadina assediata dalle
macerie, una nuova stagione per l’informazione filmata: quella della cronaca
nera italiana, assente nei giornali fascisti. Si celebrava nel ’46 il processo
a “La saponificatrice” di Correggio, Leonarda Cianciulli, una piccola commerciante di vestiti usati
ossessionata dal malocchio che, tra il ’39 e il ’40, uccise e fece a pezzi tre
donne riducendole in saponette. La storia sarà poi rievocata da Mauro Bolognini
nel film Gran Bollito.
Omicidi senza armi in questi primi anni,
affidati spesso, bestialmente, ad asce o spranghe. Ancora pochi mesi e una
commessa milanese di origini friulane, Rina Fort, soprannominata “la belva di
via S. Gregorio”, sterminava la moglie e i tre figli del suo amante: il
cinegiornale indugiava nei particolari, drammatizzava il racconto – una sorta di “docufiction” realizzata con
la voce. Dino Buzzati, che abitava a cento metri dal luogo della strage seguirà
come cronista giudiziario il caso dalle pagine del “Corriere della Sera”. Caterina Fort, Leonarda Cianciulli, Pia
Bellentani – un’altra donna, questa volta del bel mondo, che, armata di
pistola, uccise nel 1948 il suo ricco amante – saranno tutte rinchiuse nel
manicomio criminale di Aversa tra schizofreniche assassine e “capraie
infanticide”. “Come ha potuto farlo? Aveva tutto ciò che una donna può desiderare,
un marito, le figlie e la ricchezza” commentò con stupore l’infermiera quando seppe dell’arrivo della Bellentani.
Ma è anche l’anno del serial killer
Ernesto Picchioni: la Settimana Incom apre con il ‘mostro di Nerola’, il “terrore e morte al km 47 della Salaria” .
Qui, nella campagna romana, un “mostro” uccideva le sue vittime per
impadronirsi delle loro biciclette. E De
Sica non aveva ancora presentato in sala “Ladri di biciclette”.
“Di sicuro c’è solo che è morto”: con
questo titolo il giornalista Tommaso Besozzi contestò dalle pagine de l’Europeo
la versione ufficiale dei carabinieri –
riportata fedelmente in un lungo servizio della Incom – sulla morte di Salvatore Giuliano,
“Turiddu”, il bandito siciliano responsabile della strage di Portella della
Ginestra morto la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950. Al termine di un conflitto a fuoco, diranno
gli uomini del Comando forze repressione banditismo; ucciso nel sonno dal
cugino Gaspare Pisciotta resta l’ipotesi più probabile.
Ancora storie dal profondo Sud – la
provincia di Catanzaro – nel caso del
“mostro di Presinaci”, dove un contadino di 34 anni, affiliato alla ndrangheta,
Serafino Castagna, uccide 5 persone, tra cui il padre. Il 3 marzo 1950: la
cronaca nera travolge e scuote una borgata romana. In fondo ad un pozzo, a
Primavalle, viene ritrovato il corpo di una tredicenne, “Annarella” Bracci, scomparsa
dal 18 febbraio. Lionello Egidi, il “biondino di Primavalle” dopo l’arresto
confesserà il delitto ma successivamente ritratterà e sarà assolto. La Incom
racconta nel 1952 con toni innocentisti
il suo rientro a casa; nel 1961 tornano i sospetti sul “biondino”.
Confusione e sbandamento originati dalla
guerra caratterizzarono le esistenze disordinate e violente dei giovani della
banda Casaroli autori di numerose rapine di Bologna nel 1950; ad essi Florestano Vancini dedicò un film, nel 1962.
L’11
aprile 1953 il corpo di una ventenne, Wilma Montesi, è ritrovato sulla spiaggia
di Torvajanica, senza scarpe, calze, gonna e reggicalze. Il fatto di cronaca
farà esplodere il primo scandalo politico della Repubblica per il
coinvolgimento, risultato poi totalmente infondato, di Piero Piccioni, figlio
del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, nell’inchiesta sulla morte della
ragazza che si concluderà nel 1957 a Venezia. Un recente saggio, “Dolce vita,
sesso, politica nell’Italia del caso Montesi”, ha ridimensionato il ruolo
svolto nel caso Montesi di Amintore Fanfani, cui era stata attribuita dagli
storici la responsabilità di una campagna stampa contro lo Stato maggiore
degasperiano (da Attilio Piccioni a Mario Scelba).
L’Italia intanto sta cambiando: ai delitti
maturati in ambienti poveri, guidati da un furore selvaggio e istintivo, che
ritroviamo anche nella canzone popolare italiana, si sostituiscono omicidi calcolati, affidati
a sicari. Per impadronirsi della polizza della moglie Maria Martirano, Giovanni
Fenaroli, geometra indebitato e rampante, assolda un killer. È l’Italia che
vuole arricchirsi, è l’Italia moderna che costruisce alibi e strategie su
automobili veloci, orari di aerei e di treni.
Mezzo
secolo di delitti mediatici. Tutti colpevoli?
“Dovessimo stare ai cosiddetti grandi
delitti mediatici potremmo anche dirci certi che i pubblici ministeri non
sbagliano mai” - ha scritto Edoardo
Montolli in “Giustiziopoli”. Ed ha portato ad esempio l’ultimo grande caso,
chiuso anche in appello con una condanna, è quello che ha visto alla sbarra il
muratore di Mapello Massimo Bossetti per il delitto della tredicenne Yara
Gambirasio, scomparsa dalla palestra di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e
ritrovata cadavere in un campo di Chignolo d’isola esattamente tre mesi più
tardi.
“Ma è solo l’ultimo. Perché, sui delitti
mediatici, emerge una singolare statistica; negli ultimi quarantasei anni si
sono conclusi tutti con la condanna definitiva degli imputati. E tutti loro,
anche a distanza di decenni, si proclamano innocenti”.
“Il primo è il caso del
“biondino della Spider rossa”, Lorenzo Bozano, accusato di aver ucciso la tredicenne
Milena Sutter, scomparsa all’uscita di scuola il 6 maggio 1971 e riemersa dalle
acque di Priaruggia, Quarto dei Mille, una manciata di giorni più tardi. Un
processo tutto indiziario su cui molto impressiona la spregiudicata personalità
dell’imputato, disoccupato, pregiudicato per truffa e soprattutto per atti di
libidine violenta nei confronti di una quattordicenne. Assolto per
insufficienza di prove in primo grado, lo condannano all’ergastolo in appello e
Cassazione. Per anni ha annunciato invano nuove verità”.
“Passano cinque anni – continua ancora
Montolli - e a Padova scoppia il caso
Massimo Carlotto. E il 20 gennaio 1976: una giovane studentessa universitaria,
Margherita Magello, viene trovata immersa nel sangue, mezza nuda, nello
sgabuzzino di casa. Qualcuno l’ha colpita decine di volte. Qualcuno giunto
mentre la ragazza, appena uscita dalla doccia e con ancora l’asciugamano
intorno al corpo, era al telefono con un’amica. Il giorno stesso un militante
di Lotta Continua, Massimo Carlotto, 19 anni, si presenta in caserma. Dice che
più o meno all’ora del delitto, mentre conduceva un’indagine sullo spaccio di
droga nel quartiere, è passato vicino casa di Margherita. Ha sentito gridare. E
siccome la conosceva, dato che al piano di sopra abita sua sorella, si è
fermato. E entrato nel palazzo. Ha varcato la porta trovata aperta. E ha visto
Margherita agonizzante. Si è chinato su di lei, che gli ha sussurrato: “Cosa mi
fai...ti ho dato tutto”. Poi è morta. Impaurito, è scappato. E ora è lì, a
raccontare tutto ai carabinieri. Certo, come versione è strana. Però è anche
strano che se quello è l’assassino e non un testimone, sia tanto ingenuo da pensare
di cavarsela così, andando dai carabinieri a dire che la vittima gli è morta
tra le braccia. La duplice chiave di lettura finirà al vaglio di dieci
processi, un ricorso alla Corte Costituzionale e 50 perizie. Carlotto viene
arrestato immediatamente, e passerà 2 anni e 4 mesi in carcere in attesa di
giudizio. Latitante, toma in Italia nel 1985, tre anni dopo che la Cassazione
ha confermato la sua condanna, senza sapere che nessuno lo sta cercando.
Ottiene la revisione, ma va male. E, dopo un vaglio totale di 86 giudici, la
sentenza conferma la condanna. Viene graziato da Scalfaro”.
“Si passa a Bologna: nel 1983 47 fendenti
uccidono Francesca Alinovi, 35 anni, insegnante al Dams. Quando la trovano in
casa, è morta ormai da tre giorni. Nessun segno di effrazione. Sulla finestra
del bagno una scritta fatta con la matita da sopracciglia, in inglese sgrammaticato
e in stampatello: Your not alone, anyway (Comunque non sei sola). Le indagini
puntano su Francesco Ciancabilla, 23 anni, pittore di spicco del movimento
lanciato proprio dalla vittima, gli “enfatìst1”, suo allievo prediletto nonché
amante. Anche se, verrà fuori, lui si rifiutava di avere rapporti sessuali con
lei. Un movente vero però non c’è. Si sa che il ragazzo è rimasto con lei fino
alle 19,30 di domenica. Lui dice che hanno sniffato coca, poi se n’è andato
alla stazione e lei era viva. A che ora è morta Francesca? Assolto in primo
grado, la soluzione, come in un film, arriva dal Rolex con carica a polso della
vittima, che si ferma dopo 35 ore dalla cessazione del battito: o è morta alle
18,12 di domenica o alle 6,12 di lunedì. E lunedì è troppo tardi, secondo il referto
autoptico. Quindi deve essere stata uccisa quando Ciancabilla era ancora lì.
Condannato a 15 anni, verrà arrestato nel 1997 a Madrid. Nel 2006 esce di
prigione”.
“Ma l’Italia, intanto, si è divisa ancora:
stavolta sul delitto di Cristina Capoccitti, 7 anni, detta Biancaneve, a
Balsorano, il 23 agosto 1990. Del delitto si autoaccusa prima il cugino
tredicenne Mauro Perruzza, ma giura che è stato un incidente: stava
inseguendola, Cristina è caduta, ha picchiato la testa su una pietra. Lui si è
spaventato e l’ha strangolata. Lo portano alla Procura dei minori. E, a notte fonda,
cambia versione: “Volevo possederla”. La notizia va ai giornali così, con la
sua confessione. Solo che, alla chiusura del verbale, Mauro ritratta tutto: “E
stato mio papà Michele”. Prima dice di averlo visto rientrare a casa piangendo.
Poi, di averlo notato nel boschetto mentre tentava di violentare e quindi soffocare
la cugina. Cosa sia accaduto esattamente quella notte non si sa, perché l’audio
dell’interrogatorio sparisce. Michele finisce in manette. Sequestrano dalla
lavatrice una camicia, pantaloni e un fazzoletto sporchi di sangue. Mauro diventa
l’eroe che voleva proteggere il padre. E Michele il mostro di Balsorano. In
primo grado Michele prende lo stesso avvocato che aveva seguito il figlio, che
non può dunque accusare. Gli danno l’ergastolo. E a questo punto che il suo
destino s’incrocia con quello del giornalista Gennaro De Stefano, che, con una
personale controinchiesta smonta ogni accusa. In appello Mauro cambia ancora versione:
in totale ne darà l7. Ma viene considerato attendibile: l’ergastolo a Michele è
confermato il 29 gennaio 1992. Subito dopo, De Stefano pubblica una
sconvolgente lettera inviata da Mauro al padre il 12 aprile 1991, che recita: “Lo
so che sei lì dentro per colpa mia”. Che cosa significa? Il cronista accelera:
un mese prima della sentenza di Cassazione pubblica su un settimanale il
memoriale di Michele. Tre giorni dopo un poliziotto gli infila della coca in
auto. E lo arrestano. Da lì al 28 settembre non ci sono così altre sorprese: la
Cassazione rende definitiva la condanna il 28 settembre 1992. Quando la
trappola contro il giornalista viene scoperta e il poliziotto finisce dentro (e
condannato fino in Cassazione), De Stefano, dopo due mesi di carcere ingiusto,
riprende l’inchiesta, trovando le prove che portano i giudici, in un processo
satellite a Sulmona, a smentire le accuse che inchiodano Michele. Soprattutto
salta fuori, in questo processo, che sulle mutande sporche del sangue di
Cristina ritrovate sul tetto c’è sì un dna dei Perruzza, ma compatibile con
quello di Mauro e non con quello di Michele. Ma neppure il dna, quel che a
volte è considerato una prova regina, servirà a scagionarlo. Scriverà infatti
De Stefano che i “macigni difensivi presentati alla Corte d’Appello di
Campobasso, vennero cancellati così: “Non hanno il crisma della prova e
quand’anche l’avessero non scalfiscono gli elementi a carico di Michele
Perruzza”. Caso chiuso. Perruzza muore d’infarto nel gennaio 2003. Al
soccorritore dell’ambulanza affida le sue ultime parole: “Per favore, dite a
tutti che non l’ho uccisa io”. De Stefano, cronista scomodo, muore cinque anni
più tardi di un cancro nato quando era finito ingiustamente dietro le sbarre”.
(*) “Muore
invece da innocente Pietro Pacciani, protagonista del più inquietante dei
gialli italiani, quello del mostro di Firenze e della Beretta calibro 22 Long
Rifle, che usa proiettili marca Winchester serie H, lettera incisa sul fondello
del bossolo: l’arma ha ucciso in otto duplici delitti, dal 1968 al 1985.
L’arma. Ma per il primo, in cui sono morti Barbara Locci e il suo amante
Antonio Lo Bianco, un condannato c’è già: Stefano Mele, marito di Barbara.
Nessuno saprà mai come l’arma sia passata di mano al killer che riprende a
colpire nel 1974 e poi dal 1981. Finiscono però dentro in quattro: un sardo,
due parenti di Mele, un guardone. Ma uno a uno il mostro li scagiona uccidendo.
E poi, mutila le vittime, sfida gli inquirenti e invia un lembo di seno al
magistrato Silvia Della Monica”.
“L’Fbi traccia un profilo: il mostro è
solitario e soffre di impotenza. Poi, nel 1991, fermano Pacciani, contadino di
Mercatale, detto il Vampa per la facilità con cui s’infuria. Ma non è
impotente. E in galera per abusi sessuali sulle figlie. Nel 1951 scovò la
fidanzata con un seno scoperto abbracciata ad un amante, Severino Bonini. Uccise
lui e violentò lei davanti al cadavere. Gli perquisiscono casa e in un paletto
di cemento rotto in cui Pacciani tiene i filari dell’orto trovano un proiettile
Winchester serie H. Cosa ci faccia lì è un mistero. Trovano anche un block
notes Skizzen come quello che avevano i turisti tedeschi. E uno straccio
compatibile con la stoffa che avvolse l’arma. “Li avrò presi in discarica” dice
lui. Al processo sfilano i testi che delineano un quadro da romanzo
sudamericano: orge, maghi, prostitute. E un ex postino alto e magro, uno che si
disse girava con un vibratore in tasca e che in gioventù aveva scaraventato la
moglie incinta dalle scale, Mario Vanni, detto il Torsolo: “Con Pacciani ho
fatto solo delle merende”.
“Il pm Paolo Canessa dice: “L’assassino è
uno solo”. E ottiene l’ergastolo del contadino, tranne per il primo delitto,
quello del ’68. Ma non è che ci credano in molti. Nemmeno il pg Piero Tony, che
infatti in appello chiede l’assoluzione. Succede però un fatto curioso: il
giorno prima della sentenza gli inquirenti arrestano Vanni e chiedono di
acquisire gli atti al processo: dopo anni, il mostro è diventato all’improvviso
un gruppo. Il presidente della Corte Francesco Ferri non ci sta. Assolve
Pacciani e lascia la magistratura per scrivere un libro dal titolo emblematico:
“Il caso Pacciani, storia di una colonna infame”. La Cassazione annulla,
Pacciani muore. Ma il nuovo teorema tiene: Vanni viene condannato grazie al
pentito del gruppo, Giancarlo Lotti, detto Katanga per le scarse qualità intellettive.
Il resto è un’appendice: a Perugia viene ipotizzata addirittura l’esistenza di
una setta, mandanti esterni che avrebbero ordinato i feticci dei duplici delitti”.
“Ma dopo arresti e rumore, finisce
archiviata. A Firenze va peggio al farmacista di San Casciano, Francesco
Calamandrei, a processo per cinque dei duplici delitti, ma lo assolvono. Ora
l’inchiesta sul mostro è stata riaperta. Dove porterà è presto per dirlo. Sono
stati gli improbabili “compagni di merende” a prendersi gioco degli inquirenti
per diciassette anni, seminando il terrore? Chi non ci ha mai creduto è stato
Mario Spezi, cronista oggi scomparso: arrestato dalla Procura di Perugia e accusato
sostanzialmente di depistaggio passò 23 giorni in galera da innocente: il suo libro,
scritto con Douglas Preston sulla vera (presunta) storia del mostro di Firenze,
è diventato un bestseller in America”.
(*)
All’epoca del processo a Piero Pacciani ero cronista giudiziario del “Corriere del
Mezzogiorno” – l’inserto quotidiano del “Corriere della Sera” – ero direttore
responsabile della rivista a tiratura nazionale, edita dal criminologo romano
Carmelo Lavorino, “Detective&Crime”, dell’Agenzia “Mediapress”, (che forniva
i servizi girati a “TCN”, “Tele Capri Notizie” e al Gruppo di “Mediaset”),
della tv “New Antenna Sud”, e responsabile delle relazioni esterne di un
importante Gruppo agro-alimentare. Avevo maturato, insomma, esperienze
validissime nella cronaca e nell’informazione. Avevo fondato e diretto testate
giornalistiche: giornali, riviste, radio e tv libere. Ero un cronista inserito
a livello nazionale. Tanto è vero che a febbraio del 1996, il giornale da me
diretto, “Detective&Crime”, era balzato agli onori della cronaca nazionale
per il caso Pacciani. Così commentò l’avvenimento l’Ansa: “Soddisfazione per il
verdetto del “processo Pacciani” emesso lo scorso 13 febbraio dalla Corte di
Assise d’Appello del tribunale di Firenze, è stata espressa dal giornalista
casertano Ferdinando Terlizzi, da circa tre anni direttore responsabile della
rivista a tiratura nazionale “Detective&Crime”, che ha messo a disposizione
un pool investigativo coordinato dal noto criminologo Carmelo Lavorino,
investigatore ed editore del “magazine”, unico in Italia per il suo genere.
Terlizzi, originario di Santa Maria Capua Vetere, da oltre 30 anni nel campo
giornalistico, ex cronista giudiziario de “Il Roma”; già direttore di numerose
testate di Terra di Lavoro, tra cui la prima emittente locale del capoluogo
della provincia di Caserta, ha affermato che “la sentenza di primo grado
ribaltata dall’ appello, deve far riflettere sul conflitto tra i due verdetti e
sul ruolo che in questi anni hanno avuto la maggior parte dei mass-media
accanitisi sulla colpevolezza del contadino di Mercatale”. La strategia difensiva
per il giudizio di appello fu presentata dallo stesso Terlizzi, e da Lavorino
nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la Sala Stampa Estera a Roma
il 5 ottobre scorso. In quella occasione, alla presenza degli avvocati Bevacqua
e Fioravanti, del criminologo Prof. Francesco Bruno - consulente della rivista,
del presidente della Commissione Cultura della Camera, on. Vittorio Sgarbi, del
deputato Alessandro Meluzzi, dell’avvocato Nino Marazzita e dell’ avvocato
Raniero Valle, fu anche annunciata la costituzione del comitato per una
“Giustizia Normale”, il cui programma prevedeva, al primo punto, che fosse
stata resa giustizia a Pietro Pacciani in carcere da più di tre anni perché
accusato di essere il “Mostro di Firenze”. In questi ultimi mesi, la rivista
“Detective & Crime”, (con redazione Campana presso l’Agenzia Giornalistica
“Mediapress”, di Santa Maria Capua Vetere, struttura coordinata dal giornalista
Biagio Salvati) è stata menzionata più volte su numerosi quotidiani a
diffusione nazionale (ma anche esteri) tra cui Il Mattino, Il Corriere della
Sera, Il Tempo, Il Giorno, Il Giornale, La Repubblica, La Stampa, Il Giornale
d’Italia, Il Messaggero, e su periodici come L’Italia Settimanale, Panorama,
L’Espresso, Focus, e delle reti televisive della Rai, Fininvest e
Telemontecarlo. Il direttore responsabile di “Detective & Crime”,
Ferdinando Terlizzi, ha preannunciato un nuovo caso giudiziario di rilevanza
nazionale del quale si interesserà tra breve la rivista e che riguarderà un episodio
accaduto in Campania”. Si trattava
dell’omicidio di due bambine, violentate e bruciate in una discarica di
immondizia a Ponticelli (Napoli), i cui presunti assassini - tre giovani del
luogo - furono condannati all’ergastolo. “Carmelo Lavorino e io, - ha concluso Terlizzi - decidemmo di dare una
mano ai ragazzi, per accreditare la tesi delle loro innocenza. Poi non se ne
fece niente, per il semplice fatto che gli imputati si accontentarono di
ottenere benefici fuori dal carcere, dopo aver scontato vari anni di reclusione”.
“Un altro caso controverso si
verifica a Roma il 9 maggio 1997, quando
in un cortile dell’Università La Sapienza, un proiettile vagante uccide Marta
Russo, studentessa di 22 anni. Gli inquirenti ritengono che il colpo sia
partito dall’aula 6 dell’istituto di Filosofia del diritto, perché sulla
finestra vengono trovate tracce di ferro, bario e antimonio. E si pensa siano
tracce di polvere da sparo”.
“Chi c’era nell’aula? Lo chiedono a lungo
alla dottoranda Maria Chiara Lipari, che aveva fatto da lì una telefonata al
padre, l’ex senatore Dc Nicolò Lipari. Il giorno successivo, al telefono con
l’amico Jacopo, la ragazza parla dell’interrogatorio: “Tutto il pomeriggio sono
stati a dirmi: lei è in una posizione delicata... lei sa, mors tua vita mea...;
cioè... per cui loro mi dicevano sì, però allora ti incolpiamo a te, per cui
dilli...”. Alla fine però ha ricordato, con sforzo “doloroso” e “genuino” -
sottolineeranno i giudici - due volti che vide quando entrò nell’aula: la
segretaria Gabriella Alletto e l’usciere Francesco Liparota”.
“Tocca a loro. La Alletto viene sentita per
quindici giorni. L’11 giugno non ce la fa più e ai magistrati dice: “Io non ci
sono entrata là dentro. Ma come ve lo devo di’, come ve lo devo di’? Va a fini’
che m’ammazzo per questa storia, io non campo più”. Gli inquirenti le fanno
presente che “lei è messa male, peggio di chi ha sparato”. Il tutto è ripreso
in un video, che verrà fuori molto tempo dopo. Di fatto passano tre giorni. E
Gabriella Alletto sostiene di ricordare i volti di due ricercatori, Giovanni
Scattone e Salvatore Ferraro: Scattone avrebbe esploso il colpo”.
“I periti della Corte d’Assise Carlo Torre
e Paolo Romanini escludono però che quella sulla finestra fosse polvere da sparo
e sostengono che fosse un’altra l’aula più compatibile con la traiettoria del
colpo. Ma Scattone e Ferraro vengono condannati il primo giugno ’99. Il
processo arriva due volte in Cassazione che annulla una prima volta e poi
conferma parzialmente la terza condanna del 30 novembre 2002, diminuendo le
pene a Giovanni Scattone, per omicidio colposo, e Salvatore Ferraro per
favoreggiamento (il primo a 5 anni e quattro mesi, il secondo a 4 anni e due
mesi) e annullando definitivamente l’accusa di favoreggiamento per Liparota”.
“Si ripete spesso in questi casi che la
scienza è ciò che conta, e conta più dei ricordi delle persone. Dipende dai
casi: non valeva per scagionare Perruzza, non vale per scagionare Ferraro e
Scattone. Nel 2007 il perito balistico Paolo Romanini che con Carlo Torre aveva
escluso la finestra dell’aula 6 mi disse: “Essenzialmente la condanna fu dovuta
alle testimonianze. Quelle tracce sul davanzale erano residui di impianti
frenanti delle auto, all’epoca ad esempio, le lasciavano i ferrodi usati dalle
Volkswagen. Ma sono tracce che lasciano perfino le saldatrici. Queste furono le
conclusioni di Torre che curò la parte analitica. E vero poi che nella borsa di
Ferraro fu realmente trovata una traccia di polvere da sparo. Tuttavia, fosse
stata inserita lì dentro, la presenza di particelle di sparo sarebbe stata
notevolmente superiore”.
“Ma la tecnologia torna utilissima, almeno
nei primi due gradi di giudizio, quando esplode il più seguito caso di nera
degli ultimi decenni. Alle 8,27 del 30 gennaio 2002, squilla il telefono della
dottoressa Ada Satragni, medico a Cogne. E la richiesta di soccorso da una
villetta di Montroz: a lanciarla una donna il cui figlio più piccolo vomita
sangue. Il bimbo ha tre anni e due mesi, si chiama Samuele Lorenzi ed è sul
letto in una pozza di sangue. L’arrivo dell’elisoccorso sarà inutile. Qualcuno
gli ha fracassato la testa. Ma chi? Nel mirino delle indagini finisce presto la
madre, Annamaria Franzoni, di cui
vengono sezionate risposte, tono della voce e perfino gli sguardi”.
“La mattina del delitto ripercorsa minuto
per minuto: alle 5,40 Annamaria si sentiva poco bene e ha fatto chiamare la
guardia medica, la dottoressa Stefania Neri. L’esito: “Nulla di particolare”.
La donna racconta poi di aver portato Samuele nel suo letto prima di uscire
alle 8,16 per accompagnare il figlio più grande, Davide, allo scuolabus. E
rientrata verso le 8,24. E ha scoperto Samuele con la testa rotta. La domanda
si fa più insidiosa: chi può essere entrato in casa, aver ucciso ed essere
sparito in meno di otto minuti? Arrivano i Ris di Parma del colonnello Luciano
Garofano. Applicano una tecnica piuttosto nuova in Italia, la Bpa (Blood
pattern analysis), ossia l’analisi matematica della direzione degli schizzi di
sangue. Manca però un dettaglio per nulla trascurabile: l’arma del delitto”.
“Per fare la Bpa, bisognerà ipotizzarne
una, “sperimentando”. Il Ris conclude: l’assassino era in pigiama. La notte tra
il 13 e il 14 marzo 2002 Annamaria Franzoni viene arrestata. L’avvocato della
Franzoni, Carlo Federico Grosso, già vicepresidente del Csm, presenta immediata
istanza di scarcerazione. E il giudice del Riesame, Giorgio Balestretti, in 68
pagine fa a pezzi le tesi dell’accusa: scrive che l’assassino non indossava il pigiama
e che è plausibile che una donna cui hanno massacrato un figlio non ricordi con
precisione quei momenti. E ancora: è “arduo ipotizzare” che possa aver compiuto
un massacro simile in cinque minuti. Fa di più: ipotizza che l’assassino sia un
estraneo e fa presente che due persone non hanno alibi. Annamaria, in rotta con
Cogne, torna al paese nativo, Monteacuto Vallese”.
“A giugno cambia legale, dando incarico a
Carlo Taormina. E annuncia al Maurizio Costanzo Show. “Aspetto un bimbo”. A sei
mesi dal massacro, sull’opinione pubblica, questo fatto, insieme alla scelta di
ricorrere al rito abbreviato, ha un effetto boomerang. Il processo “indiziario”
diventa così una guerra di perizie. Gli psichiatri la ritengono capace di
intendere e di volere. Il gup Eugenio Gramola la condanna a 30 anni. Caposaldo
della sentenza, ancora una volta, il pigiama: per il giudice lo indossava. In
appello a Torino si torna sullo stesso tema: il perito tedesco della Corte
Hermann Schmitter, stavolta conclude che l’assassino, inginocchiato sul letto
“alquanto a sinistra della vittima” indossava sicuramente i pantaloni. Per il Ris
indossava casacca e pantaloni, inginocchiato di fronte al bimbo. Per i
consulenti della difesa, non lo indossava e stava in piedi. Alla fine la
condanna è confermata, ma la pena ridotta. Resta un dubbio: che attendibilità
ha un sistema matematico che arriva a tre conclusioni diverse? La Cassazione
risolve il giallo usando la “prova logica”, secondo cui nessun altro poteva
entrare, uccidere e uscire dalla scena del crimine in così poco tempo: lo ha
fatto una mamma sana di mente, senza movente, assassina per “esclusione”.
“E ciò che dunque per il Riesame era
addirittura “arduo ipotizzare” diventa la “prova logica” di una condanna.
Eppure la cronaca insegna il contrario: colpire in un attimo e sparire era ad
esempio il sistema utilizzato dal serial killer tunisino che uccideva in
Puglia, Ben Ezzedine Sebai. Prendeva il pullman, ammazzava una persona a caso,
e poi tornava a casa. Nessun movente, nessun collegamento, niente di niente.
Non avesse confessato lui, una decina di omicidi italiani sarebbero ancora
irrisolti”.
“Quattro anni più tardi la scienza esce
ancora di scena. Siamo nella corte di via Diaz, Erba, poco dopo le 20, 11
dicembre 2006. Alcune persone vedono del fumo uscire dall’appartamento di Azouz
Marzouk e della moglie Raffaella Castagna e accorrono pensando ad un incendio.
Saliti al primo piano trovano invece sul pianerottolo Mario Frigerio, che abita
nella mansarda, a terra, ferito alla gola. Da sopra arrivano le urla di aiuto
della moglie Valeria Cherubini: ma le fiamme sono troppo alte per salire ancora
e soccorrerla. Mentre in casa Marzouk trovano una scena orribile: tre cadaveri.
Raffaella Castagna, la madre Paola Galli e il bimbo di Raffaella e Azouz,
Youssef, di nemmeno tre anni. Sono stati uccisi. Ma da chi? All’esterno un
dirimpettaio vede armeggiare alcuni extracomunitari, la stessa scena che nota
Ben Brahaim Chemcoum, tunisino senza fissa dimora, che andrà due volte dai
carabinieri a raccontare la sua versione dei fatti senza che sia preso in
considerazione”.
“Il procuratore di Como Lodolini, la
stessa notte, dice ai cronisti che è Azouz il principale sospetto: solo che
Azouz si trova in quel momento in Tunisia. Gli inquirenti cercano di risolvere
rapidamente il caso e, in fondo, c’è Frigerio, salvatosi, che può testimoniare
sull’accaduto. Il 15 dicembre l’uomo spiega al pm Simone Pizzotti che ad
aggredirlo è stato un uomo dalla pelle olivastra, esperto di arti marziali, mai
visto prima. Anche lui invita gli inquirenti a cercare l’assassino tra gli
extracomunitari che frequentavano casa Castagna. Il giorno dopo fa inviare un
fax dal suo avvocato agli investigatori nel quale spiega che l’aggressore era
decisamente più alto di lui. I carabinieri di Erba hanno però tutt’altra idea,
fin dalla sera della strage: sospettano di Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini
di casa che litigavano spesso con Raffaella. Il 20 dicembre il comandante della
stazione locale dell’Arma, Luciano Gallorini, va in ospedale da Frigerio e gli
chiede se l’uomo olivastro, sconosciuto e più alto di lui che lo ha assalito
non possa essere invece il noto vicino di casa, bianco e più basso: Olindo Romano.
Frigerio scoppia a piangere”.
“Sei giorni più tardi il testimone dice ai
magistrati che vanno a interrogarlo in ospedale che sì, è stato proprio Olindo
ad aggredirlo. L’8 gennaio scattano le manette: arrestano Olindo, ma anche
Rosa. Invano i due sostengono che all’ora della strage erano in un McDonald’s a
Como, esibendo lo scontrino. Intercettati in carcere due giorni più tardi,
Olindo dice a Rosa che vuole confessare. E la moglie pare stupita: “Ma cosa c’è
da confessare? Non siamo stati noi”. Alla fine è proprio lei ad ammettere i
delitti. Seguita da Olindo. Nel farlo, vengono mostrate a entrambi le foto
della strage e a lei vengono ripetute tutte le dichiarazioni fatte dal marito.
Dopo lunghissime ore, le versioni risulteranno combaciare. I successivi
avvocati della coppia conteranno 243 errori nella confessione di lui e così
tanti nella versione di Rosa da aver perso il conto. Ma il caso è dato per
chiuso. Passano diversi mesi. Poi Olindo e Rosa ritrattano. Nessuno ci crede.
Il primo colpo di scena arriva però dalla relazione del Ris, che non trova alcuna
traccia dei due nel palazzo della strage e nessuna traccia delle vittime in
casa loro”.
“C’è un altro dettaglio che non torna:
quando i soccorritori sono entrati nel palazzo hanno sentito Valeria Cherubini
che gridava aiuto. Ma se Olindo e Rosa l’hanno uccisa subito dopo, non potevano
essere scesi da lì per andare in casa loro a cambiarsi degli abiti, proprio
perché in quel momento lì c’erano i soccorritori. Possibile che gli assassini
siano altri e siano usciti da un’altra parte? Per la sentenza che li condanna
all’ergastolo no: secondo i giudici Valeria Cherubini, attinta da 43 colpi al
corpo 8 dei quali le avevano fracassato il cranio, con la gola squarciata e la
lingua tagliata, ha avuto la forza di salire per una rampa di scale e di
gridare “aiuto” prima di perdere, solo allora, tutto il sangue sotto una
finestra, dove era stata ritrovata con le mani “come a protezione del capo”.
Com’è possibile?”
“Non è chiaro e non lo sarà in seguito,
tanto che i giudici della Cassazione che confermeranno l’ergastolo scriveranno
che sul caso vi erano “non poche
divergenze o aporie” ossia problemi che non hanno soluzioni. Il fatto è che
nel 2006 l’Italia ha introdotto nell’ordinamento un principio anglosassone,
quello cioè in cui si deve essere colpevoli “al di là di ogni ragionevole
dubbio”. Ma i giudici si rifanno così alla sentenza che ha condannato Annamaria
Franzoni secondo cui “per passare dal fatto noto a quello ignoto va fatto uso di
“regole ponte”, che consentono di mettere in relazione i due fatti e di
risalire da quello noto a quello ignoto, attraverso la mediazione o di regole di
esperienza legittimate dal patrimonio conoscitivo e dalla ripetitività dei
fenomeni, o di leggi scientifiche di valenza universale, o semplicemente
statistica, ovvero ancora di leggi appartenenti alla logica”.
“Anche
Alberto Stasi è colpevole. Per il delitto della fidanzata Chiara Poggi,
avvenuto nella villetta della ragazza il 13 agosto 2007, che al 118 e ai
carabinieri Alberto dice di aver trovato morta sulle scale che portano in
cantina. La domanda di tutti i processi sarà sempre la stessa, dando origine a
maxiperizie: come ha fatto il giovane a non sporcarsi le scarpe di sangue
quando è entrato e ha trovato il corpo? Lo fermano, ma, tra tutti i sembra e i
pare, il gip non trova niente di rilevante per convalidare l’arresto. E lo
rimette fuori. Si va a processo con rito abbreviato. E il gup Stefano Vitelli
nota un dettaglio: è vero che sotto le scarpe di Stasi non c’erano tracce
ematiche. Ma non ce n’erano nemmeno sotto quelle dei primi due carabinieri che
entrarono in casa (e che fecero analizzare le scarpe dopo un po’ di tempo). Né
ce n’erano di evidenti a occhio nudo sotto i calzari del personale del 118
(tranne una persona) intervenuto nella villa. Significa che all’ora in cui dice
di essere entrato il sangue si era evidentemente seccato. Assolto in primo
grado, assolto in appello, la Cassazione però annulla. E si arriva ad una
condanna a 16 anni che diventerà definitiva, per la decisiva ripetizione
dell’esperimento della camminata che documenta come (evidentemente solo lui?)
non potesse non sporcarsi le scarpe”.
“Tra i delitti mediatici c’è solo un caso
in cui due imputati ne sono usciti in un’altalena giudiziaria: quello di Raffaele Sollecito e Amanda Knox,
processati, condannati, assolti, condannati, di nuovo assolti per l’omicidio di
Meredith Kercher. Loro sono stati riconosciuti innocenti. Ma, in fondo, il
colpevole era già dentro, definitivamente: l’ivoriano Rudy Guede, l’unico dei
tre di cui ci fossero tracce di dna nell’appartamento del delitto”.
“Nell’estate 2010, quando scompare la quindicenne
Sarah Scazzi, la situazione si
complica. Non c’è di mezzo la tecnologia. E non si crede nemmeno troppo ai
testimoni. Di fatto, non appena lo zio Michele Misseri crolla e ammette di aver
ucciso in un raptus la nipote, portando gli inquirenti al pozzo in cui
l’avrebbe gettata, il caso dovrebbe essere chiuso. Solo che i suoi ricordi non
sono precisi. Arriva a fornire sette versioni, finché non coinvolge,
nell’ultima, la moglie Cosima Serrano e figlia Sabrina, tenendo per sé la
soppressione del cadavere. Gli inquirenti non gli credono più. Diventa l’uomo
in balìa delle donne di casa, costretto a dormire su una sdraio e a mangiare
gli avanzi. Ma come e perché Sabrina e Cosima avrebbero ucciso Sarah?”.
“La dinamica non è più tanto chiara, visto
che cinque anni più tardi si arriverà a dodici testimoni indagati, compreso un
fioraio che prima disse di aver visto Cosima trascinare Sarah su un’auto, poi
sostenne di aver sognato. Il movente pare abnorme: gelosia. Dirà in tribunale
Mariangela Spagnoletti, che il 26 agosto sarebbe dovuta andare al mare con
Sabrina e Sarah: “A Sabrina piaceva Ivano. Me lo diceva lei che parlava sempre
di Ivano, gli interessava come ragazzo, voleva avere con lui una storia. Sabrina
glielo ha detto e glielo ha fatto anche
capire. Per lei era una cosa forte”. E soprattutto, che il giorno della
scomparsa di Sarah: “Sabrina era già in strada. Era agitata, ha fatto una prima
telefonata fuori dall’auto, la seconda in auto e poi ha detto “l’hanno presa,
l’hanno presa”.
“Zio Michele intanto torna ad autoaccusarsi,
proverà ad essere più preciso nei ricordi. Ma, in un Paese dove in più casi le
confessioni da sole diventano una prova regina anche quando vengono ritrattate
nessuno gli dà più retta. Se la caverà con otto anni, mentre moglie e figlia
prenderanno l’ergastolo. Un caso più unico che raro, dove, peraltro, risulta
davvero scioccante immaginare che una mamma sia talmente solidale con la figlia
da aiutarla ad ammazzare la cugina per una cotta giovanile”.
“Infine, c’è la conferma della condanna in
appello di Massimo Bossetti, per quel suo dna ritrovato sui leggins di Yara
Gambirasio. Non l’unico, in verità, sui vestiti della giovane, di fatto l’unica
prova trovata contro di lui. Un dna che però è anomalo, nel quale corrisponde
il codice genetico nucleare, ma non quello mitocondriale. Il muratore, che non
sa spiegare come quel dna sia arrivato lì, ha chiesto in due gradi di processo
di poter verificare con una perizia che sia davvero suo. Per due volte gli è
stata negata questa possibilità, costringendolo ad andare all’ergastolo, come
dire, sulla fiducia, senza esercitare il proprio diritto di difesa”.
“D’altra parte gli esperti in primo grado
spiegarono che le possibilità che quel dna appartenesse ad un altro erano pari
a una su 330 milioni di miliardi di altri pianeti popolati ciascuno da 7
miliardi di persone. Un numero davvero stupefacente. Ma non ditelo a Peter Neil
Hamkin, barista di Litherand, vicino Liverpool, Inghilterra: quando nella
pineta di Chioma, nel livornese, il 19 agosto 2002 fu uccisa Annalisa Vincentini,
il test del dna portò a lui, con tanto di nome e cognome, e Scodand Yard lo
fermò. Giurò di non essere mai stato in Italia e nonostante le perplessità
degli esperti, gli inglesi si decisero a ripetere il test. Venne fuori che
davvero il dna non era il suo. Tre anni più tardi trovarono una nuova corrispondenza
con un detenuto in Germania di origine, pare, russa: Andrei Orni. Nel 2010 la
Cassazione l’ha condannato definitivamente a 27 anni”.
“Delitti senza cadavere. Ma condanne per
omicidio, in primo grado, sono giunte recentemente anche per altri due noti
casi mediatici, stavolta di scomparsa: Antonio Logli, ventanni in abbreviato in
primo grado per l’omicidio e la soppressione del cadavere di Roberta Ragusa,
svanita nel nulla nel gennaio 2012, la notte del naufragio della Concordia. E
quella di Padre Gratien Alabi a 27 anni, per l’omicidio di Guerrina Piscaglia,
casalinga 50enne, sparita il primo maggio 2014 a Ca’ Raffaello, una località
dell’Appenino aretino. Il problema è che il cadavere non c’è. E i giudici hanno
dovuto così sostenere ben tre “prove logiche”: la prima è che la persona
scomparsa sia effettivamente morta. La seconda è che sia stata uccisa e non
morta in un incidente né che si sia suicidata. La terza è che l’assassino sia
effettivamente l’imputato”.
“Eppure nella cronaca non mancano casi di
persone considerate morte, assassinate, che invece erano vive, magari
trattenute contro la propria volontà. Basti ricordare la vicenda di Natascha
Kampusch, segregata otto anni dietro la porta blindata della casa di Wolfgang
Priklopil. Sempre negli ultimi anni fecero scalpore le disavventure di Gina De
Jesus, Amanda Berry e Michelle Knight, prigioniere per anni di Ariel Castro,
conducente di autobus, e date per morte da tempo. Ma è stato proprio un caso di
“delitto senza cadavere” a far
cambiare il codice penale italiano. Perché l’episodio più inverosimile, ma
dannatamente vero, di persona data per uccisa e invece viva e vegeta, lo
abbiamo avuto proprio in Italia nel 1954, quando ad Avola, in Sicilia, all’improvviso
svanì nel nulla Paolo Gallo. Gli inquirenti non lo trovavano da nessuna parte e
accusarono il fratello Salvatore di averlo ucciso e di averne nascosto il
cadavere, aiutato, in quest’ultima operazione, dal figlio Sebastiano”.
“Ci fu chi disse di averlo visto vivo. E
venne condannato per falsa testimonianza. Senonché Paolo vivo lo era davvero.
Fu ritrovato sette anni dopo: disse solo che col fratello aveva litigato e che
non voleva più saperne nulla. Per tirar fuori Salvatore da Porto Azzurro fu
necessario introdurre in Italia la revisione processuale, che prima non
esisteva. Uscito in carrozzina, nessuno lo risarcì. Passano trent’anni e lo
stesso schema si ripete altrove: il pomeriggio del 26 luglio 1984 Petra
Pazsitka va dal dentista. Deve tornare a casa, a Wolfsburg, per il compleanno
del fratello. Invece sparisce. Non ha alcun motivo per allontanarsi: si sta per
laureare e tutto procede per il meglio. E poi c’è la festa in famiglia. Gli
appelli in tv non approdano a nulla. La Procura tedesca si convince dunque che
sia stata uccisa. Trascorre un anno e arrestano Gunther K., 19 anni, già
accusato dell’omicidio di una 14enne avvenuto in un luogo non troppo distante
da dove Petra è sparita. E Gunther confessa: “Sì, l’ho ammazzata io”. Petra è
dichiarata morta nel 1989. Senonché, anno 2015, a Dusseldorf, la signora
Schneider denuncia un furto con scasso. Quando la polizia le chiede un
documento per firmare il verbale risponde che non ce l’ha. Il motivo? Il suo
vero nome è Petra Pazsitka, sparita nel nulla 31 anni prima, il cui delitto fu
confessato (chissà come) dal giovane Gunther. Per 31 anni ha mantenuto il
segreto senza aprire conti in banca, pagando solo in contanti, lavorando solo
in nero. Dice che aveva preparato la sua fuga mesi prima, mettendo via
l’equivalente di 2mila euro attuali e affittando segretamente un appartamento.
Lo psicologo Gerd Zimmek spiega alla Bild che probabilmente la donna soffre di un disturbo chiamato fuga
dissociativa. Sarà”.
“Ma le variabili nei casi dei “delitti
senza cadavere” sono davvero tante. Ancora in Italia non si può non pensare ad
un altro clamoroso errore: stavolta le persone scomparse erano davvero morte.
Ma in un incidente. E la storia dei fratellini Ciccio e Tore di Gravina, di 13
e 11 anni: svaniscono nel nulla nel giugno del 2006, li cercano ovunque e
invano per venti mesi. Almeno così dicono. Sul padre dei piccoli, Filippo
Pappalardi, viene costruito un castello di ombre e sospetti finché il 27
novembre 2007 viene arrestato con l’accusa di averli uccisi e di averne
occultato i corpi. Nessuno crede alla sua innocenza fino a quando, il 25
febbraio 2008, un bimbo di 11 anni cade in un pozzo della cosiddetta “casa
delle cento stanze”, una casa padronale abbandonata nel centro di Gravina.
Quando i quattro vigili del fuoco scendono a salvarlo notano delle ossa: i
resti dei due fratellini. Filippo, ancora in prigione, viene fatto uscire con
tante scuse, ma non subito. All’inizio gli vengono concessi i domiciliari per
il nuovo reato di abbandono di minore seguito da morte. Poi, quando l’autopsia
rivela che i bimbi sono caduti accidentalmente, gli inquirenti si arrendono
all’evidenza: l’uomo è innocente. Sarà risarcito con 65mila euro, un’inezia di
fronte all’infamia”.
“E allora – conclude Edoardo
Montolli nel suo “pamphlet”, da dove ho
“tratto” parte di questa introduzione -
non è rischioso condannare se manca la prova principale, ossia un cadavere?”.
Fatti,
misfatti, delitti & processi di casa nostra
Da giudiziarista, cronista
giudiziario, mi sono approcciato ai delitti fin dai primi anni della mia
milizia giornalistica. Anni Sessanta. La frequenza delle Corti di Assisi, in
particolare, (ma anche i miei venti anni come funzionario del Ministero della Giustizia
presso la Corte di Appello di Napoli) mi ha spinto sempre di più ad
interessarmi degli omicidi, con un particolare movente. Ma, nell’approfondire
questi argomenti e divorare tutta la saggistica nera, ho subito constatato che
la nostra provincia non era diversa, dal mondo intero e che negli archivi e
nelle cancellerie vi erano delitti atroci, barbari, inusitati, raccapriccianti.
Nel 1958 avvenne il delitto del medico sammaritano Aurelio Tafuri, il cui
movente mi fulminò sulla via di Damasco!
Stetti per quasi 15 anni a raccogliere materiale inedito (le arringhe,
le perizie, le foto, i ritagli di giornali, le testimonianze) venne fuori la
mia opera prima: “Il delitto di un uomo normale”. Fu una rivalsa per
riscattarmi da anni bui che avevo attraversato, con vicende drammatiche e
dirompenti della mia vita. Mi ripresi. Il libro edito da Il Filo - Albatros e
distribuito da Mursia Editore (pubblicato nel
2009) venne ristampato ed andò esaurito. Ma passò quasi in ombra nella
provincia. Poi Alfonso Martucci, qualche giorno prima che finisse (2008) mi
consegnò una velina della sua difesa per il processo Tafuri. Lui era stato
compagno d’infanzia del medico assassino e lo aveva difeso in Corte di Assise
con una arringa memorabile. Vi è da premettere che io sono nato a via Torre,
oggi via Alberto Martucci; mia sorella Melina aveva cresimato la sorella
Giuseppina, suora di clausura nelle Domenicane di Alba; frequentavo il suo
studio già da giovane, lui mi voleva bene, mi dava consigli su come impostare
il libro su Tafuri. Non feci in tempo ad inserirla nell’edizione in
preparazione (che già conteneva le arringhe di Enrico Altavilla e Alfredo De
Marsico) anche perché era scritta a macchina con molti refusi ed era
lunghissima. Continuai a raccogliere materiale sulla vicenda e dopo alcuni anni
venne fuori il mio secondo libro “Il
caso Tafuri”, arricchito dalla bellissima arringa dell’avvocato Martucci. Brutto nel formato. Illeggibile e mastodontico.
Ma fu stampato in quel modo perché – su consiglio di un mio amico professore
universitario della Facoltà di giurisprudenza - era diretto ai giovani che si
affacciavano alla professione forense. Infatti, la maggior parte delle copie,
furono vendute nelle due librerie che trattano testi universitari. Boicottato
da tutta la borghesia sammaritana (perché avevo esposto al pubblico
ludibrio - con una analisi approfondita
- una delle famiglie più in vista della città bigotta ma anche perché avevo
fatto i nomi della signore della “santamaria-bene” che frequentavano i convegni
nella villa di Castelvolturno, i balletti e gli strip a base di cocaina);
avversato dai parenti e affini (la cameriera della famiglia Tafuri diffidava
gli edicolanti ad esporre le copie del
mio libro) e la famiglia minacciava, attraverso gli avvocati, querele e citazioni.
Ignorato dagli avvocati ( il banchetto all’ingresso del tribunale delle
Edizioni Giuffrè vendette due-tre copie). Se non un fallimento fu un vero e
proprio disastro editoriale. Già avevo dovuto attendere la morte della mamma di
Tafuri, che era una “bizzoca”, amica di mia sorella Melina, la quale mi
ripeteva continuamente di non pubblicare il libro perché “troppo brutto”…! Vi è da dire però che “Nessuno è profeta
nella propria Patria”, che continuo ad avere richieste e sono costretto a ristampare
continuamente il libro per lettori… non sammaritani!
Addirittura il maestro di
musica Pino Carolis ha voluto scrivere una ballata per cantastorie con
chitarra, in la minore… intitolata: “La storia del Tafuri”
Questa triste storia
del Tafuri
Caso di
tristezza e anche d’orrori
Quando la passione
esce fuori
succedono delitti per
amori
Lui che la vorrebbe
come amante
In una verità che è...
tanto distante
sogna di tenerla tra
le braccia
diventa assassina la
sua faccia
Dentro un processo a
ricordare
che in fondo lui non
sapeva amare
Quando gli donava
soldi e fiori
in cambio non
voleva i suoi favori
E fù per debolezza della mente
che diventò pazzo e
incosciente
fu condannato per
folle omicida
quando al fidanzato
tolse la vita
Lo invitò per mezzo
di un lavoro
Poi lo finì con un colpo al cuore
Il giovane non fece
manco un turno
e fu trovato morto nel
Volturno
Voleva la sua
amica a se vicino
E diventò Il medico
assassino
per un amore
pazzo non si uccide
E dietro a quelle sbarre Lui si vide.
Il caso di Tafuri fù
archiviato
Però tanto e ancora si è parlato
Storia d’intrighi e
depravati vizzi
A scrivere Il libro
c’è il Terlizzi....
Alla
faccia di tutti i detrattori. Prosit! Poi a maggio 2017 ho pubblicato il mio
terzo libro “Delitti in bianco e nero a Caserta”. Esaurito già in prima battuta
e ristampato dopo appena quattro mesi.
Il segreto? Non è monotematico. Ora questo “Fatti, misfatti, delitti
& processi di casa nostra”, che riporta delitti efferati cha vanno dal 1920
ai nostri giorni. Non sono stati scelti a caso. Ma per movente.
Si parte dal bandito geloso e innamorato Carlo Boemio, che sottopose a grassazioni e
compì vari delitti in Cancello Arnone,
che tentò anche una fuga dal carcere… dopo aver commesso una strage al
torneo di Cappella Reale, per giungere al delitto della donna di Albanova, che uccise a rivoltellate il genero di cui da
molti anni era l’amante. Mentre, nel 1945, un giovane ferì lo zio che
ostacolava le nozze della figlia e uccise un operaio che era in sua compagnia.
Il 2 giugno del 1946, in concomitanza con le votazioni per la proclamazione
della Repubblica, tre fratelli furono accusati di aver ucciso per vendetta
Ersilio Riccardo e ferito per “aberratio” il giovane Antonio Spierto. Dopo 4 anni Michele Iovine, uccise per vendetta, Francesco Castiello. Fu incriminato per
omicidio colposo anche il medico Raffaele Di Bello che lo stava curando dopo il
ferimento. Il delitto fu ordito ad
Albanova, eseguito a Cancello
Arnone e occultato a Castel Volturno.
Nel marzo del 1946, un giovane fu assassinato con un colpo alla
testa e gettato in un pozzo. Un giallo
degli anni cinquanta ancora senza colpevoli. Era stato sospettato del furto di
una motocicletta ad un possidente del posto. Furono accusati i componenti di
una banda e i vertici della camorra
dell’epoca. Sull’omicidio vi furono versioni contrastanti dei carabinieri di S.
Cipriano (a favore di un indiziato dell’omicidio) e quelli di Castelvolturno (a
favore delle tesi dei familiari delle vittime). Per avere un rapporto (primo
caso nella storia giudiziaria) il magistrato dovette sequestrare gli atti
presso la Caserma dei carabinieri di San Cipriano. A Casagiove, invece, il 17 ottobre del 1946, Cipriano Serao, tentò
di uccidere il seduttore della sorella minorenne, Saverio Cavaliere. Fu
ritenuto un delitto d’onore. La ragazza
lavorava come cameriera presso il
Dr. Renato Iaselli, futuro sindaco di
Caserta. Una perizia sullo stato di mente redatta dal Prof. Eustachio Zara,
medico primario dell’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, stabilì che era in
uno stato di infermità psichica consistente dalla incapacità di valutare
l’importanza e le conseguenze dell’atto sessuale e di potervi opporre adeguata resistenza.
Seguirono due mancati omicidi per questioni d’onore ed
eredità. Accaddero a San Felice a
Cancello, il 9 ottobre del 1949, dove un uomo tentò di uccidere la moglie, la suocera e le cognate per motivi
d’onore sparando 5 colpi di rivoltella. Il secondo episodio accadde il
17 febbraio del 1950, allorquando un giovane tentò di uccidere lo zio per una
eredità contesa. Un altro cruento episodio avvenne a Marcianise quando la
città era il centro della lavorazione
della canapa del casertano. I concorrenti gli volevano soffiare un affare per
la sua vasca di macerazione della canapa. Un morto e due feriti…per l’attrito
tra i due. Uccise con tre colpi di pistola il cugino e ferì il nipote. Il 16
ottobre del 1949, invece, a Maddaloni, due assurdi delitti: un giovane,
per il furto di una patata da una
caldaia messa a bollire per il pasto dei maiali, uccise un operaio; mentre il secondo fatto di sangue si verificò
allorquando un uomo uccise il
cugino, con un calcio, perché
alcuni polli avevano beccato la sua piantagione di cavoli.
Era appena ritornato dalla leva militare e
dopo i delitti tentò il suicidio
sparandosi alla testa. Fu rinvenuto in fin di vita in un crepaccio in aperta
campagna. Ma non morì. La sua amante lo aveva stregato? Definì il padre
“vigliacco” e quasi mostrò di
compiacersi di aver schiusa la tomba a chi gli diede la vita. Accadde a San
Potito Sannitico il 1° febbraio del 1950. Nello stesso anno a Villa
Literno, Francesco Corvino uccise
Francesco Borrato e tentò di uccidere il
fratello. La sparatoria con morti e feriti tra due carretti alla rotonda di
Villa Literno. Alla base della vendetta vecchi rancori familiari e la mala gestione delle vasche di macerazione della
canapa. Il 13 settembre del 1950 a Cervino
il giovane Pasquale Piscitelli uccise
lo zio Alessandro De Lucia istigato dalla zia per una eredità; mentre in agro
di San Felice a Cancello, il 26 giugno del 1950, si consumava l’ennesimo
delitto passuoinale: “O sarai mia o di nessuno”… Lei si rifiutò, lui tentò di
ucciderla con un colpo di pugnale al fianco. Era stata in precedenza violentata
ma non volle accettare il matrimonio riparatore. Una Franca Viola antesignana?
A Cancello Scalo, invece, il 24 agosto del
1950, Giuseppe Della Rocca uccise colui che riteneva il mandante dell’omicidio
del fratello. Il primo delitto nel 1943 nel corso di una violenta sparatoria.
Alla base dell’omicidio la interruzione della costruzione di un pozzo
artesiano. Come pure finì nel sangue lo sfratto del colono: “Tu me ne cacci io
ti uccido”… a Castello Lariano di
Marcianise dove il Preside fu
assassinato dal colono che aveva sfrattato. Ma ad Alvignano, ancora oggi
ricordano la strage di una intera famiglia era il gennaio del 1950. Padre e
figlio, accusati dell’orrendo delitto,
furono assolti però in appello,
dopo avere scontato undici anni di carcere in seguito all’annullamento
della condanna all’ergastolo. Erano accusati di aver sterminato una famiglia di 4 persone per motivi di
interesse.
Il 1950 fu un anno pregno di cronaca: ben
10 delitti. Iniziò con la strage di un
marito tradito. Un carabiniere di Cancello Arnone che uccise la moglie, la
suocera e poi si suicidò mentre nello stesso periodo a S. Cipriano, “dove lo schiaffo rappresentava
una caparra per la morte”, il guappo di “turno”, si girò verso l’avversario
esplodendogli contro più colpi di pistola ma uccise anche un ignaro barbiere.
Nella tranquilla terra dei vini pregiati come il Pallagrello e il Casavecchia,
sulla strada che da Pontelatone conduce a Formicola, Salvatore Di Dario uccise Ermenegildo
Parillo, il giovane amante della moglie.
Fu sfortunato… perché tentò di uccidere anche la donna ma la pistola si
inceppò. Nell’occasione venne alla luce una relazione “more uxorio” di un possidente sammaritano e
si scoprirono gli amori mercenari della contadinotta assai piacente la quale
per “darla” chiedeva appezzamenti di terra in donazione. Una sorta di “bocca di
Rosa” della famosa canzone di De Andrè…si arriva così a Villa Literno, il 24
maggio del 1950, allorquando per la contesa di un piccolo appezzamento di
terreno comprato all’asta, si realizza un truce delitto. I giudici nella
motivazione della sentenza di condanna additarono le popolazioni dei Mazzoni
come una pletora di malviventi: “Nel patente disconoscimento delle fondamentali
norme sociali e giuridiche si rivela la personalità dell’imputato, sintesi
dell’ambiante, espressione del costume di sopraffazione che infesta la plaga in
cui egli è nato e vissuto”. In certe zone (camorristiche) comprare all’asta la
proprietà altrui significa scavarsi la fossa!
Teatro invece dell’ennesimo assurdo
delitto la ben nota San Cipriano d’Aversa, il 22 maggio del 1950 il capraio Alfredo Esposito, uccise
la sorella Mafalda, che avversava le sue nozze con una donna “megera”. Un fratricida
assurdo, un delitto crudele, un movente incerto ed illogico. Un cruento fatto
di sangue germinato da un odio profondo e da rancore ancestrale. La vittima era vedova ed aveva una bambina di
pochi anni, che rimase orfana. Il
fratello sparò con una pistola e la sgozzò con un baionetta. Non da meno nella vicina Trentola, il 24 del mese seguente dello
stesso anno allorquando Alessandro Fabozzi, uccise Michele Martino, fidanzato
della figlia e ferì gravemente un suo compagno. La giovane accusata di concorso
nel delitto venne, però, scagionata. Il
giovane aveva violentato la ragazza, l’aveva infettata di “sifilide” e l’aveva lasciata per un’altra.
Fu un delitto d’onore?
Ci spostiamo poi a sud della provincia a
Cancello Scalo, in Limiti di San Marco di Santa Maria a Vico, per registrare
due truci fatti di cronaca. L’uno del 1943 e l’altro del 1950. Giuseppe Della Rocca, facoltoso
imprenditore locale uccise il presunto mandante dell’omicidio del fratello. Il primo delitto si verificò nel corso di una
violenta sparatoria. Alla base dell’omicidio la interruzione della costruzione
di un pozzo artesiano. Un movente per gli inquirenti futile. Il secondo fatto
di sangue accadde alla Frazione Talanico di San Felice a Cancello il 25 aprile
del 1951. Aniello Marotta, Raffaele Lettieri, Gildo Piscitelli e Pasquale
Migliore uccisero per vendetta il guappo
locale Pasquale Bernardo. La vittima
si vantava in pubblico di aver posseduto la moglie del
Piscitelli. Una torbida storia di incesto e di prevaricazione in un ambiante
immondo ed in degrado.
Giungiamo così a Capua, nella Caserma
Mezzacapo, dove il 22 settembre del
1951un barbiere uccise a forbiciate il
vicino che riteneva amante della moglie. L’assassino ritornava da un funerale,
allorquando, uccise il vicino il 47enne Giuseppe Lanziello che riteneva amante della
moglie. La donna, bella, affascinante, corteggiata da molti uomini, 30enne, era
di Santa Maria Capua Vetere. Il Guarino, dopo aver colpito con le forbici il
Lanziello, si portò nei pressi di una fontanina, che esisteva nel cortile, ed iniziò a lavare l’arnese inzaccherato di sangue e mentre compiva tale azione
gridava a squarciagola: “Ne ho fatto
uno…”.
Da registrare l’ennesimo cruento episodio
che accadde il 9 dicembre del 1951 tra
San Cipriano e Casal di Principe. Fu un omicidio a scopo di rapina, fatto
singolare per la zona. Fu assassinato un
agricoltore, Luigi Schiavone per mano dei fratelli Armando e Amedeo
Galoppo. L’uomo si difesa ma fu ucciso con la sua arma dai due malviventi. Poi nella zona che si
potrebbe definire “tranquilla”, l’alto casertano, dove la popolazione si dedica
più al lavoro dei campi che ad altre attrattive all’improvviso scoppio la
tragedia a Prata Sannita il 31 maggio
del 1951fu consumato un raccapricciante
delitto d’onore. Una donna uccise con una scure il seduttore della figlia. Era
vedova ma in paese si mormorava che fosse innamorata del fidanzato della
figlia. Si fece prestare l’arma del delitto da un suo vicino e spaccò in due la
testa al giovane. Sottoposta a perizia psichiatrica fu riconosciuta “capace di
intendere e volere”. Era nota nella zona
con l’appellativo di “Mazzutessa”
ed era additata da tutti come una “che
la dava con facilità”… rozza e provocante, una bellezza che attirava gli uomini
come moscerini…
Dobbiamo poi registrare – nello stesso
anno - a Casapulla il gesto disperato di
un macellaio che tentò di uccidere la
zia a coltellate. La donna stette per vari giorni tra la vita e la morte. Alla
base del folle gesto il sequestro di un quantitativo di canapa per una cambiale
di 150 mila lire non pagata. Le zie
erano ricche, il loro padre uno scialacquatore, insieme volevano affamare i
nipoti. In agro di Falciano di Carinola, il 5 giugno del 1951 un giovane
contadino uccise il padre della ragazza
che aveva sedotto. L’imputato raccontò che dietro la siepe, vi era un uomo
bocconi a terra, il quale faceva l’atto di alzarsi ed imbracciare un fucile
contemporaneamente esclamando: ”Disgraziato non ti muovere, questo è l’ultimo
giorno della tua vita!”. Nel processo adombrò la legittima difesa ma non venne
creduto. Due mesi prima del delitto la ragazza aveva sparato un colpo – andato
a vuoto – contro il suo seduttore. La legittima difesa invece venne
completamente riconosciuta al guardiano di una tenuta che si difese
rispondendo al fuoco di una banda di
ladri. Uno fu ferito a morte in agro di Villa Literno nella notte del 7 luglio del 1951.
Nella stessa “plaga” dell’aversano in due
date diverse (luglio 1950 e gennaio 1951) Antonio Sabatino uccise il nipote
Giovanni Pagano con un colpo di pistola per il pagamento di un cavallo mentre
per la “serie la vendetta è un piatto che va servito freddo”, un giovane di
Mondragone assassinò il figlio dell’uomo che gli aveva ucciso il padre 15 anni
prima, quando lui aveva soltanto 11
anni. Era presente al delitto e sfuggì
miracolosamente alla morte. Il
primo delitto avvenne nel 1938 e
l’assassino aveva scontato 15 anni di galera, era uscito da poco ma il giovane
applicò la ”legge di sangue dei Mazzoni”, la medioevale fàida. Ad Alvignano il
29 gennaio del 1952 il primo infanticidio dell’anno. Una ragazza-madre
strangolò la figlioletta appena nata e lo getto’ in un pozzo. Credeva che con
il delitto avrebbe potuto salvare il proprio onore. Il cadaverino era stato avvolto in una
mutandina con le iniziali dell’assassina. Accusò falsamente la madre e il
fidanzato di complicità.
E dall’infanticidio a femminicidio il
passo è breve. Ma all’epoca non si definiva così la soppressione di una donna.
Il fatto accadde in agro di Grazzanise il 17 agosto del 1952. Uccise la moglie che lo tradiva. Il contadino Stefano
Iannotta esplose 5 colpi di pistola all’indirizzo della moglie Vincenza Lanna
lasciandola in mezzo alla campagna. L’uxoricida si riteneva tradito ma non fu
ritenuto un delitto d’onore. Negava di aver ucciso perché venuto a conoscenza
della sua relazione con Raffaele
Gravante, un giovane 19enne alto e biondo che lavorava con la donna. Teatro, invece,
dell’ennesimo delitto per vendicare l’onore perduto fu la Pretura di
Carinola il sette febbraio del 1952. La
giovane Addolorata Di toro ferì il suo seduttore nell’aula di udienza mentre si
stava celebrando il processo a
carico di Stanislao Lanfranchi per sottrazione di minore e violenza
sessuale. La giovane esplose otto colpi di pistola in mezzo al pubblico, il
fidanzato cadde in una pozza di sangue. Stette vari giorni tra la vita e la
morte.
A
Gricignano, il 26 maggio del 1952, un operario che era stato cancellato dalla lista dei disoccupati uccise il collocatore. La provocazione del
sindaco che in un comizio affermò: “il collocatore lo faccio io”. Il
funzionario aveva dato lavoro ad un disoccupato con 7 figli a carico. Ancora un
cruento episodio germinato da dissidio per ragioni di lavoro provocò tra
Cancello Arnone e Casal di Principe il 25 aprile 1952 l’ennesimo delitto. La
mattina vi era stata una discussione per un carico di pozzolana; la sera la vendetta e il delitto. Mario Della Corte, Luigi Della Corte e
Antonio Natale, accusati in concorso tra loro di aver ucciso, con un colpo di
pistola diretto contro Antonio Bifulco (che scappando si rifuggiò nel palazzo
della vittima) cagionato per errore di identificazione la morte di Gennaro
Caterino.
Giungiamo, così, al febbraio del 1952
allorquando le Sorelle Angela, Nicolina, Lucia
Rosa Cantone aggredirono la moglie di un loro zio, Pasqualina Turco, in stato interessante causandone la morte. Il delitto accadde in Lusciano. Il movente era da ricercarsi nei
rancori delle donne nei confronti del marito della Turco Alfonso Cantone,
accusato di essersi appropriato di una quantità di costoso carico di rame. La
vittima, cardiopatica partorì un bambino morto al settimo mese. Nella contrada
“Casapesenna” di San Cipriano
d’Aversa il 13 aprile del 1952,
Filiberto Diana, Giuseppe Petrillo e Armando Gagliardi con pistola e colpi di pallettoni uccisero il
guardiano campestre Antonio Mormile. I
cittadini abitanti nei pressi del luogo del delitto furono concordi nel dichiarare che la sera
precedente erano stati svegliati da
otto, nove colpi di pistola, sparati
quasi contemporaneamente, ma non avevano dato peso all’occorso in quanto non
avevano udito alcun grido di persona colpita ed anche perché ritenevano che si fosse trattato della “solita” sparatoria
di giovani scapestrati che sparano sempre allorquando – provenienti dai cinema
di Casal di Principe e San Cipriano – rincasano in Casapesenna.
Continuando a tracciare la lunga scia di
sangue della nostra Provincia giungiamo, così, al giugno del 1952, allorquando due coniugi
furono crivellati di colpi su un
sentiero di campagna. Michele Russo e Maria Colella furono uccisi per vendetta.
Sembra assurdo ma nei pressi del Santuario
di Villa di Briano, Nicola e Francesco
Pagano uccisero Roberto Pellegrino per motivi di precedenza. Il movente
agganciato al traffico dei carretti dell’epoca. L’omicidio avvenne a seguito di
diverbio sorto circa il passaggio e la precedenza dei carri carichi di canapa, dato
che la strada medesima era molto stretta. Pellegrino minaccio: “se non ti togli
di mezzo ti tiro un colpo di pistola in testa”;
Pagano di rimando al fratello: “Piglia o ribotto, piglia a pistola…!!!
Ci spostiamo ora a sud della Provincia
nella contrada “Bosco Valle” di San Felice a Cancello e giungiamo al 19
agosto del 1953 allorquando si consumò una
barbara vendetta tra caprai: Carmine Martone fu assassinato a colpi di roncola alla presenza di un bimbo
di 8 anni. Il delitto ricostruito nei particolari del piccolo testimone che
condusse i carabinieri nel bosco facendo scoprire il cadavere occultato e gli
autori del truce delitto: Carmine Rivetti e Mario Sabatasso. La vittima si era
resa più volte colpevole di pascoli abusivi. Banale fu intanto a San Prisco il
23 agosto del 1953 la lite sulla posizione di alcuni telai per materassi nelle
circostanze venne uccisa Emma D’Ariotta. Donne violenti, tra queste, Rosa De
Felice assassina senza volerlo…
E giungiamo a San Cipriano d’Aversa, il 17
ottobre del 1953 dove Camillo Di Bello,
appena 17enne, uccise il cugino Pasquale
Caterino che aveva difeso un presunto parente dell’assassino del padre. Quando
a Casale vigeva la legge della vendetta “occhio per occhio e dente per dente” e
si precostituivano gli alibi per i prossimi delitti, facendo ricoverare i
giovani reputati a compiere la vendetta presso il manicomio di Aversa per avere
poi un alibi di seminfermità mentale una volta compiuto la vendetta. E Casal di Principe fu il luogo del causale incontro tra
l’assassino e la sua vittima in via Serao alle 10,50 del 18 ottobre del
1953. Antonio Natale uccise il suo
fittuario Nicola Musto con tre colpi di
pugnale. L’assassino era un violento ed aveva gravi precedenti. Fu
arrestato con l’arma ancora insanguinata
dai carabinieri che stavano in strada indagando su di un altro delitto avvenuto
la sera precedente. Mentre ammanettato veniva accompagnato in caserma ingoiò
una cambiale che era a favore della vittima.
E il “pendolo” delle investigazioni si
sposta ancora nella malfamata zona a ridosso della provincia di Benevento,
alla Frazione “Mandre” in agro di Santa Maria a Vico, in via Bracciale nei pressi del passaggio a
livello della Ferrovia Cancelllo-Benevento il 30 agosto del 1953 dove l’imprenditore Antonio Palermo uccise un suo
concorrente Vincenzo Pascarella. La vittima era stata alle dipendenze dei
Palermo poi vendeva le gazzose prodotte dai Della Rocca diretti concorrenti.
L’accusa voleva coinvolgere Clemente Palermo, padre del giovane, quale
istigatore e mandante del delitto. Una sorella dell’assassino era fidanzata con
il figlio della vittima. Il monopolio per la vendita delle gazzose provocò il
delitto.
Grazzanise fu invece teatro (non nuovo ad
episodi di violenza) dove Igino Parente
uccise per vendetta, con vari colpi di pistola nella pubblica Piazza, Giovanni Raimondo. Il movente era da ricercarsi in un precedente
agguato ai danni del rag. Angelo Parente nella notte del 18 agosto del 1952
messo in atto dalla vittima che colpì l’anziano a colpi di bastone alla
testa. Il delitto si consumò il 29 marzo del 1953. Mentre a Mondragone
alle ore 6 dell’11 aprile del 1954 un giovane uccise la sorella perchè era stata sedotta dal fidanzato. Era
la domenica delle Palme: “A te la malapasqua”.
La ragazza era in stato interessante e il fidanzato anche di Mondragone all’epoca era
militare a Verona. In località “Cinque Vie”
il 3 agosto del 1954, alle 15,45 nei pressi della linea Ferroviaria Napoli-Piedimonte d’Alife in agro
di Trentola, Luca Ronza uccise con due colpi di pistola Nicola Grassia. Alla
base del delitto le ingiurie della vittima nei confronti della madre
dell’assassino. La vittima era armata ed aveva tentato di aggredire il suo
avversario. La donna era andata a reclamare il pagamento di un barile di vino
rotto da un operaio.
Mentre a Maddaloni, nello studio medico
Manfredonia, alle ore 14 del 9 ottobre del 1954 un padre di 4 figli uccise la moglie con 2
coltellate nello studio del medico ritenuto suo presunto amante. Fu arrestato
in ospedale dove con l’arma ancora insanguinata
aveva tentato di finire la moglie se non fosse già spirata. Un
ributtante cinismo: mentre l’accompagnavano al carcere chiese ai carabinieri:
“Ora che non ho più mia moglie mi posso risposare?”. In giudizio sostenne il
delitto d’onore…ma non fu creduto…
Nella zona alta della provincia dove si
vive con più tranquillità il muro del silenzio venne squarciato in località
“Forniello”, in agro di Raviscanina, alle ore 17 del 26 giugno del 1954. La mietitura del grano insanguinata da un
duplice delitto. L’agricoltore Pietro Manera
uccise il trattorista Vincenzo
Ricciardi e ferì gravemente il suo vicino Santo Albanese. Il duplice delitto
era stato consumato perché il
trattorista aveva promesso di mietere il
grano quel giorno invece si era recato a mietere il grano dell’Albanese con cui
il Manera non era da tempo in buoni rapporti. Un atroce gravissimi fatto di
sangue accadde, invece, a Sant’ Andrea
del Pizzone alle ore 18,30 del 21 agosto del 1954 in agro di Francolise nella
massaria “Difesa Vecchia”. Il contadino Gaetano Iossa, uccise con alcuni colpi
di pistola la giovane moglie, Vincenza
De Cicco (che aveva in braccia il figlioletto di pochi mesi) e la suocera, Francesca Aperuta. Quest’ultima
(vedova) pretendeva rapporti sessuali col genero con l’assenso della figlia
instaurando un “vero menage a trois” in
quanto dormivano in tre nello stesso letto… il giovane prima di commettere il
duplice delitto aveva deciso di suicidarsi facendosi travolgere da un treno…
L’assassino costretto al matrimonio dopo aver sedotto la ragazza…
Nella Frazione Casolla di Caserta il I°
Ottobre del 1954 un agricoltore uccise
la moglie con una pietra. La donna morì per spappolamento della milza. Il
medico che era suo datore di lavoro diagnosticò il decesso come morte naturale.
Una lettera anonima dei cittadini di Casolla fece riaprire il caso… Mentre a
Frignano il 3 agosto del 1955, Michele Montella, ferì il fratello e uccise il nipote per la vendetta a
seguito di un incendio appiccato al suo campo di canapa e a Capodrise un uomo
uccise con tre coltellate il suocero del fratello che lo chiamava “cornuto”. La
vittima era un suo vicino di casa, che quando lo incontrava lo apostrofava con
l’epiteto di “cornuto” ed anche per questo che aveva preso a nutrire dubbi
sulla fedeltà della moglie. L’assassino
sosteneva di aver colpito con un coltello il Generoso perché costui fermatosi
presso di lui lo aveva preso per il petto e gli aveva detto: “Questo cornuto lo
incontro sempre dinanzi ai miei occhi, sempre di devo uccidere”.
Ancora più singolare e barbaro il delitto
consumato il 17 luglio del 1955, alle ore 19 alla via Capitelli, 49 in San
Tammaro. Girolamo Mirra per
vendicarsi di percosse e schiaffi
assassinò nel suo negozio con 4 colpi di pistola il giovane nipote Vincenzo Fierro. Ma
l’assassino insidiava la cognata vedova…
e la vittima aveva difeso l’onore di famiglia…e nella frazione Talanico di San Felice a Cancello, nel Vico
Paciello, il 18 agosto del 1955, un
aberrante fatto di sangue. Uccise il fratello alle spalle con tre colpi di
pistola per la contesa di una cugina che
entrambi volevano sposare. Alla base del
fratricidio non solo la spartizione dell’eredità e la gestione dell’azienda
agricola. L’assassino aveva chiesto per primo la mano della cugina. Il fratello
maggiore invece la stava sposando.
E giungiamo così al 28 gennaio del 1955,
alle ore 23, nel cortile della vittima a
Casal di Principe. Un uomo uccise a bruciapelo
il fratello del dott. Pignata. Il possesso del fondo “Pantanozzo” alla
base del delitto. Corvino gli aveva detto che il Coppola minacciava una
schioppettata al Pignata ed una a chi avesse messo piede nella terra. Il
Corvino, pur negando di aver parlato di schioppettate ammise che il Coppola
aveva dichiarato che “si sarebbe dispiaciuto”… espressione che nel gergo
casalese – come l’esperienza conferma – suona minaccia ed aperta dichiarazione
di ostilità, specialmente quando il dissidio abbia per oggetto un pezzo di
terra…
Ed avviandoci quasi alla fine del nostro
cruento viaggio giungiamo alla Frazione Cave di San Marcellino, il 30 luglio
del 1955. Un bruto uccise la sorella di sedici anni essendo contrario al suo
fidanzamento. Un colpo di pistola alla mammella. La ragazza amoreggiava con il
coetaneo Francesco Oliva che però era già fidanzato con altra giovane… Se non
che la sorella continuava a vedersi con il giovane Francesco ed anzi coglieva
ogni pretesto per uscire all’aperto, mettersi in mostra e fargli segnali incurante della
opposizione dei familiari e perfino
delle percosse che per tale suo comportamento le venivano inflitte. Allora
doveva essere uccisa! La mamma e la cognata della vittima riferivano ai
carabinieri che si trattava di suicidio. Il fratello della ragazza alla fine
confessava di averla uccisa per sbaglio… invece era un delitto premeditato…..
E poi quello truce ed insensato, aberrante
ed abietto eseguito da Pasquale Cafaro che uccise il giovane nipote Giovanni
Cafaro per una questione di condominio. Il delitto trovava spiegazione nei rapporti quanto mai tesi esistenti
tra zio e nipote da quando quest’ultimo aveva acquistato i diritti del nonno
sul fabbricato ove entrambi abitavano… La vittima intendeva addirittura far saltare in aria con
mine il fabbricato se lo zio non fosse andato via. Bellona alle 23,45 del 19 marzo del 1956.
E per finire, ma non ultimo, il delitto
avvenne a San Cipriano d’Aversa verso le core 11,30 del 16 aprile del 1956, in una zona campestre
di via Serao. Raffaele Buonanno, uccise Giovanni Benito Di Girolamo per un
diverbio sul gioco del bigliardo e anche perché amoreggiava con la sorella
Maria. Nel tentativo di simulare una legittima difesa
l’assassino si impossessò della pistola della vittima. Un tempo nella zona era
come il Far West: tutti armati… abusivamente. Impossibilitato a reagire subito
per l’intervento di terzi, avesse
pensato di vendicarsi dell’offesa ricevuta secondo la triste
consuetudine della zona – con la uccisione dell’amico – che aveva attirato
nella località del delitto.
FATTI, MISFATTI, DELITTI & PROCESSI IN TERRA DI LAVORO
il prossimo lavoro verterà sui grandi processi della Corte di Assise
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