Il cronista
giudiziario non può essere condannato per diffamazione quando riporta il
contenuto degli atti e provvedimenti del magistrato, purché si astenga da
illazioni ed esagerazioni.
Nel
periodo fra l’ottobre 1992 e il giugno 1993 i quotidiani La Repubblica, Il
Messaggero e Il Tempo hanno pubblicato notizie su perquisizioni eseguite presso
lo studio e l’abitazione dell’avvocato M. nell’ambito di un’inchiesta avviata
dalla Procura della Repubblica di Palmi al fine di accertare eventuali rapporti
illeciti fra logge massoniche "deviate" e associazioni mafiose. In
seguito a una querela sporta dall’avvocato M., il Tribunale di Roma ha
condannato per diffamazione gli autori degli articoli e per omesso controllo i
direttori dei giornali. La Corte
d’Appello di Roma ha confermato la condanna osservando che l’indagine svolta
nei confronti dell’avvocato M. non aveva conseguito alcun risultato, in quanto
non era stata provata l’esistenza di alcun suo legame con ambienti criminali nè
lo svolgimento di attività illecite da parte della loggia massonica cui egli
apparteneva.
Escludendo
la veridicità delle notizie pubblicate, la Corte d’Appello ha negato ai
giornalisti l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca. La Suprema Corte
ha accolto il ricorso dei giornalisti, affermando che la Corte d’Appello di
Roma, al fine di stabilire se essi avessero esercitato correttamente il diritto
di cronaca, non avrebbe dovuto fare riferimento all’esito delle indagini, bensì
all’esattezza o meno delle informazioni pubblicate sui provvedimenti adottati
dagli inquirenti.
Nell’ambito
della cronaca giudiziaria -ha affermato la Corte- la verità della notizia
mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele
al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti;
pertanto per il riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca è
sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti
dell’autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare
la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve
peraltro escludersi -ha precisato la Corte- che il cronista possa fondare la
propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di
provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una
valenza maggiore di quella reale.
Nel
caso in esame - ha rilevato la Corte - l’indagine della Procura di Palmi
tentava di svelare i legami occulti tra logge deviate della massoneria ed
ambienti affaristico-criminali, non alieni talvolta dal coltivare progetti di
eversione dell’ordine costituzionale; il giudice di merito avrebbe dovuto
accertare se l’accostamento, operato dai giornalisti, dell’avvocato M. a tali
ambienti fosse il coerente portato dell’indagine della Procura di Palmi ovvero
costituisse un’illazione, un’esorbitanza, un’avventata od anche arbitraria
elaborazione, nel qual caso sarebbe spettato al giornalista dimostrare la
corrispondenza fra quanto narrato e la realtà storica. (Cassazione Sezione V
Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato).
Nell’ambito
della cronaca giudiziaria la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni
qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza
alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca è
sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti
dell’autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare
la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve
pertanto escludersi che il cronista
possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare
il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed
attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale (Cassazione, sezione V penale, sentenza n.
2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato).
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