L'ergastolo ostativo, Sisifo e il mito
della collaborazione
di Daniel Monni
"Gli
dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla
cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso
peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più
terribile del lavoro inutile e senza speranza".
Sisifo
è l'eroe assurdo: è condannato dagli dei a spingere un masso sulla cima di un monte
che, ogniqualvolta raggiunge la vetta, precipita nuovamente verso il fondo. Il
suo è "l'indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla
condurre al termine [...].
Questo
mito è tragico perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti,
la pena, se, a ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire?. Il mito
di Sisifo sembra rivivere, oggi, in un certo "diritto penale" e, più
precisamente, avendo riguardo all'ergastolo ostativo. L'imbuto dell'art. 4bis
della l. 354 del 1975 è, infatti, chiaro nel ribadire che i benefici
"possono essere concessi ai detenuti e internati [per i delitti indicati
in tale articolo] solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino
con la giustizia a norma dell'articolo 58ter [della stessa legge]".
La
collaborazione con la giustizia e l'insussistenza di collegamenti con la
criminalità organizzata sono divenuti, in sostanza, l'olio utilizzati per
"salvare" gli ingranaggi d'uno scricchiolante ergastolo ostativo. La
questione di legittimità costituzionale di tale pena a vita è stata, infatti,
"dichiarata infondata proprio sul rilievo che in caso di provato
ravvedimento il condannato all'ergastolo può essere ammesso alla liberazione
condizionale anche per i cosiddetti reati ostativi, in relazione ai quali la
collaborazione e la perdita di legami con il contesto di criminalità
organizzata da cui era scaturito il reato non sono che indici legali di tale
sicuro ravvedimento".
Il
ravvedimento passerebbe, dunque, anche e, soprattutto, attraverso la
collaborazione con la giustizia. Se tutto questo è vero, e lo è, allora il
concetto di "collaborazione" diviene importantissimo, perché si
palesa come la presunta ancora di salvataggio dell'ordinamento idonea a
legittimare o meno la pena dell'ergastolo ostativo. Può, tuttavia, la
collaborazione con la giustizia assurgere al rango di indice legale del
ravvedimento del reo?
L'art.
4bis, invero, ha subito numerose modifiche avendo riguardo alla collaborazione:
si pensi alla sentenza 357 del 1994 nella quale veniva dichiarata
l'illegittimità costituzionale di tale articolo nella parte in cui non
prevedeva che "i benefici di ci al primo periodo del medesimo comma
possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al
fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile
un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti
elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità di collegamenti con la
criminalità organizzata", oppure alla pronuncia 68 del 1995 che riteneva
"doveroso pervenire alle medesime conclusioni, proprio per l'identità di
ratio [...] anche nel caso in cui la collaborazione sia impossibile perché i
fatti e le responsabilità risultino ormai integralmente accertati nella sentenza
irrevocabile". La Corte Costituzionale, in sostanza, ritiene che
"collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile [...] finiscano
per saldarsi all'interno di un quadro unitario di collaborazione oggettivamente
inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento preclusivo previsto
dalla norma proprio perché privato, in simili casi, della funzione stessa che
il legislatore ha inteso imprimergli. [Per tali ragioni] introdurre come
presupposto per la applicazione di istituti funzionali alla rieducazione del
condannato un comportamento che obiettivamente non può essere prestato perché
nulla aggiungerebbe a quanto è stato già accertato con la sentenza
irrevocabile, equivale evidentemente ad escludere arbitrariamente una serie
importante di opportunità trattamentali, con chiara frustrazione del precetto
sancito dall'art. 27 della Costituzione e senza alcuna
"contropartita" sul piano delle esigenze di prevenzione
generale". La collaborazione, in estrema sintesi, per essere esigibile,
deve essere utile: se la collaborazione è esigibile, in quanto utile, allora
per l'ergastolano che non collabora la pena ritenuta legittima dall'ordinamento
è l'ergastolo ostativo. Questo è, in parole poverissime, il nesso tra
collaborazione ed ostatività ed è, quindi, facile comprendere perché la
collaborazione sia divenuta, l'ultimo baluardo di una fortificazione decadente
come un "certo" diritto penale.
Verrebbe
da dire un "certo" diritto penale perché, a ben vedere, risulta
davvero arduo comprendere come si possa parlare di "contropartite" in
un settore nevralgico dell'ordinamento come quello penitenziario: è possibile
"dispensare" o meno rieducazione sulla base di presunte
"contropartite"? La mancanza di collaborazione, ad oggi, genera
nell'ordinamento una presunzione assoluta di mancato ravvedimento del
condannato: chi può dire, tuttavia, quali sono le ragioni sottostanti a tale
scelta del detenuto? Sono ben noti a tutti, inoltre, gli effetti patologici di
tale presunzione: i cc.dd. "falsi pentiti", si potrebbe dire, sono
"vecchi" quanto l'art. 4bis. A tal riguardo ci si potrebbe limitare
alla citazione di un'opera sul tema: "si continua a parlare di
"pentiti", mentre in realtà si dovrebbero chiamare semplicemente
"collaboratori di giustizia", perché è evidente che la collaborazione
è una scelta processuale, mentre il pentimento è uno stato interiore. La
collaborazione permette di uscire dal carcere, ma non prova affatto il
pentimento interiore della persona".
L'ergastolano
ostativo pare vivere come il summenzionato Sisifo, condannato a spingere un
masso su di una montagna, dalla quale la pietra, ogniqualvolta l'eroe
raggiungeva la cima, ricadeva per effetto del suo peso: l'ergastolo ostativo è
"l'indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla condurre
al termine".
Ritenere
che una pena di tal genere sia costituzionalmente legittima per il solo fatto
che chi la subisce non ha collaborato con la giustizia, e non ha, quindi,
offerto una contropartita alla società, francamente, pare un nonsense giuridico.
Le pene, tutte le pene, devono tendere alla rieducazione del condannato:
barattare la rieducazione con una presunta collaborazione è come barattare con
Sisifo un masso di minor peso in cambio delle sue braccia: non solo la pietra
continuerà a cadere ma l'eroe non saprà più come spingerla.
Fonte: agoravox.it, 2 agosto 2018
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