Il rebus
europeo
Alle prossime elezioni si fronteggeranno due gruppi contrapposti: il fronte (chiamiamolo così) filo-europeo e quello nazional-populista.
(Nostro servizio particolare)
di Stelio W. Venceslai
Alle
prossime elezioni si fronteggeranno due gruppi contrapposti: il fronte
(chiamiamolo così) filo-europeo e quello nazional-populista.
Nessuno di questi
due schieramenti, fino ad ora, ha un programma definito. Quel che è certo, ed è
tra loro l’unico elemento comune, è che occorre modificare l’Unione europea
dopo settant’anni di storia. Come, però,
è ancora tutto da scoprire.
Una
folata di populismo o di nazionalismo, due concetti che tendono ad essere
assimilati tra loro in una nozione comune, ma che sono profondamente diversi,
attraversa in questo periodo gli Stati dell’Occidente.
Il
termine populista, in fondo, è spregiativo e si oppone, concettualmente, a
quello di popolare. Che vuol dire popolo? Un insieme di persone che vivono
della stessa lingua e delle stesse tradizioni? Oppure è solo un modo per dire
che la democrazia è quella espressa dal popolo? Oppure, ancora, è in termine
che può avere mille significati; popolo di schiavi, popolo di elettori, popolo
di professionisti, popolo povero o popolo ricco e così via? Il termine popolo
indica un’entità astratta, d’incerta definizione.
Il
populismo, piuttosto è l’identificazione politica di una protesta che viene dal
basso, con il rifiuto delle istituzioni, da una categoria di persone disilluse,
in rivolta contro il potere dominante.
Diversa,
invece, è la natura del nazionalismo. L’idea di nazione, una collettività
omogenea, con dei confini, lingua e organizzazione politica e amministrativa
comuni, su uno stesso territorio, identifica il concetto di nazione e, quindi,
d’indipendenza da ogni altra struttura giuridica superiore.
In
un sistema ibrido come quello dell’Unione europea, questo significa che il
nazionalista vorrebbe forse restare nell’Unione per usufruirne dei vantaggi, ma
con una sovranità totale, il che è contraddittorio con l’idea stessa di
un’Unione fra Stati.
Ciò
ci conduce al tema della sovranità. Nell’Unione europea certi aspetti delle
sovranità nazionali sono attenuati dall’attività normativa dell’Unione. Cito,
fra gli esempi più importanti, le politiche agricole, doganale, monetaria,
della concorrenza. Ma attenzione, questa sovranità limitata è sempre stata
concessa dagli Stati membri, non è imposta dall’Unione.
Rivendicare
una sovranità concessa non ha molto senso. Recuperare una sovranità perduta,
infatti, è in contraddizione con l’idea stessa di Europa. Legato all’idea del
sovranismo, poi, è il protezionismo, considerato una forma di difesa dal potere
del capitalismo internazionale e una garanzia per i propri interessi interni.
Dopo
la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione sovietica,
l’ingresso della Cina popolare fra i grandi political
makers del pianeta, il mondo è radicalmente cambiato. La globalizzazione
economica ha portato alla creazione di grandi gruppi economici interstatali,
aggregando tre o quattro grandi potenze mondiali con i loro satelliti Usa,
Cina, Russia, India (e, forse, Brasile).
Non
sono aggregazioni giuridiche ma politiche, con un enorme potenziale economico-militare,
sorretto dal deterrente nucleare. Queste aggregazioni decidono dei commerci,
della pace e della guerra nel mondo. Gli altri Paesi, diciamolo pure, non
contano nulla. Seguono le decisioni degli altri.
L’Unione
europea si trova in una situazione singolare. Stretta fra la potenza russa e
l’alleanza un po’ pesante americana, insidiata dal terrorismo e dalle ondate
immigratorie arabo-africane, è pur sempre una grande potenza economica a
livello planetario.
Le
mancano, però, la copertura nucleare (salvo quella, minimale francese, dopo la
Brexit) e un ruolo politico esterno efficace: il suo tallone d’Achille. O si
dota di queste politiche, con tutti i costi che ne conseguono, o sarà
fatalmente destinata a orbitare in un difficilissimo equilibrio fra Russia e
Stati Uniti, senza avere alcuna strategia credibile se non quella della sopravvivenza,
perché non sorretta da una comune visione d’intenti e da una corrispondente
forza militare.
Se
lo sbocco finale delle tensioni nazional-populiste di alcuni Stati europei
prevarrà, l’Unione non morirà ma languirà per anni in una specie di limbo
politico, alla ricerca del bene perduto. Se, per converso, finalmente ritornati
sovrani, questi Stati dovranno affrontare lo scenario geo-politico di cui
sopra, non saranno degli interlocutori ma ombre, in un contesto minaccioso di
grandi potenze.
L’obiettivo
finale di quest’ondata di malcontento istituzionale, peraltro ragionevole e
motivato, sarà quello di ridurre, ad esempio, l’Italia, dal punto di vista
economico, al ruolo di Paese turistico e, politicamente, al ruolo della
Macedonia o della Bolivia. Francamente, c’è da dubitare della razionalità, nel
medio periodo, di questa politica.
Al
contrario, andrebbe rafforzata l’integrazione, supplendo alle carenze attuali e
procedendo sulla strada, difficile ma logica, degli Stati Uniti d’Europa. La
politica non è mai logica, purtroppo, e segue le emozioni del momento, ma una
visione corretta degli accadimenti futuri nel medio periodo dovrebbe pretendere
soluzioni non emotive ma razionali, nell’interesse proprio del futuro dei
cittadini e dei popoli europei.
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