La fine
della democrazia
Partiamo da due
considerazioni oggettive e da una prospettica.
La prima è che più
del 50% della popolazione mondiale e il 60% del commercio mondiale sono in Asia
e il baricentro della civiltà e dell’economia del futuro si è spostato sul
Pacifico.
La seconda è che sul
pianeta circola un cumulo di derivati, tossici o meno, ma più tossici che
buoni, pari a 33 volte l’intero PIL del mondo.
La terza è che, sul
piano geopolitico, almeno il 90% degli Stati nazionali che fanno parte delle
Nazioni Unite (cioè, praticamente, tutti) non conta assolutamente nulla ed ha
solo una parvenza di sovranità, magari pesante all’interno dei loro territori,
ma pressoché nulla in ambito internazionale.
Lo spostamento del
baricentro in Asia è un fatto nel quale la crescente espansione cinese ha un
ruolo sempre più rilevante. La Cina dispone di risorse ingenti, è sempre più
incombente negli affari del mondo, la sua flotta, prima pressoché inesistente,
si sta dotando di una possente portaerei a propulsione nucleare e la tanto
decantata Via della Seta non è solo uno strumento di potenziamento dei traffici
ma, altresì, un massiccio sforzo di penetrazione e di presenza politica
nell’Asia sud-orientale, nel Medio Oriente, in Europa e, soprattutto, in
Africa, tale da minacciare l’egemonia nordamericana. Ciò che potrà accadere in
Asia coinvolgerà inevitabilmente tutti i Paesi del mondo e, segnatamente,
l’Europa.
La massa dei derivati
rispetto al PIL del pianeta è un problema che si fa sempre di più denso di
preoccupazioni. Quando scoppierà questa bolla gigantesca i miasmi si faranno
sentire anche in Groenlandia. Chi pagherà questo debito enorme? Perché di
debito si tratta. È facile rispondere che, al momento, non ci pensa nessuno e viviamo
sogni tranquilli. Il risveglio non sarà piacevole e ne risentiranno tutti i
nostri risparmi.
Infine, nella
situazione geopolitica esistente brillano solo alcuni protagonisti veri, perché
tutti gli altri sono solo delle comparse da avanspettacolo. Chi governa il
mondo, si fa per dire, sono gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, comprimari Giappone,
Israele, India, forse il Brasile e, di molto distaccate, l’Europa (se realmente
unita) e l’Iran. Poi, se vogliamo essere di larghe vedute, mettiamoci anche la Corea
del Nord. Il resto, diciamolo francamente, è nulla. La pletora degli Stati
africani, latino-americani e mediorientali vale zero, checché se ne possa
pensare.
L’equilibrio
strategico del mondo, sino ad ora, è stato assicurato dalla Russia e dagli Stati
Uniti. Poi è subentrata la Cina. Gli Americani hanno profittato del marasma
russo dopo la scomparsa dell’Unione sovietica, credendosi soli, ma hanno
registrato continue sconfitte in quel mondo che ritenevano ormai egemonizzato,
a partire dal Vietnam per finire poi nelle sacche tumultuose dell’Afghanistan,
dell’Iran, della Siria e di tutto il Medio Oriente. Ristabilitasi come potenza
continentale la Russia di Putin, ora è la Cina a presentarsi come un
concorrente agguerrito sulla scena mondiale.
Le sceneggiate
d’incontri ad altissimo livello fra i tre potenti della terra non devono
ingannare nessuno. La flebile guerra commerciale scatenata da Trump contro la
Cina e le sanzioni inflitte alla Russia sono solo un modo mistificatorio per
evitare qualcosa di peggio. L’espansione cinese sta diventando incontrollabile
nel Sud-Est asiatico, dove gli Usa hanno steso una cintura di sicurezza a
protezione della Corea del Sud, del Giappone e delle Filippine, una cintura che
abbraccia anche Formosa, il punto dolente della sovranità popolare cinese.
D’altro canto, la
Cina ha i suoi problemi, immensi come la sua popolazione, problemi che la
spingono a cercare un’affermazione esterna a compenso delle difficoltà interne:
i confini incerti con l’India, la secessione sommersa del Sinkiang,
l’insofferenza repressa del Tibet, la questione delle popolazioni musulmane, i
rapporti non felici con gli Uiguri, le tensioni latenti con la Mongolia e la
Russia, il problema delle relazioni con la Corea del Nord, sempre difficili ed ambigue.
Non è roba da poco, come si vede, ma la questione primaria è quella
dell’egemonia sul Pacifico e della supremazia statunitense ora minacciata da
Pechino. Contro i 350 milioni circa di Americani si oppone un miliardo e mezzo
di Cinesi. Questo enorme dislivello demografico è compensato da un altrettanto
enorme squilibrio tra i rispettivi PIL: per l’America 59.531 $ pro capite contro gli 8. 623 $ per la
Cina ma, globalmente, l’economia cinese è seconda solo a quella americana.
In caso di conflitto
cino-americano, come si collocherebbe l’Europa?
Nel mentre si
confondono e si accavallano i problemi economici con quelli strategici e di
prestigio, il mondo va in una direzione diversa, sottoposto ad un’altra egemonia,
però strisciante, da parte dei grandi gruppi multinazionali a carattere
finanziario, i responsabili di quell’eccesso di derivati pari al 33 volte il
PIL del mondo cui si è fatto cenno prima.
Il denaro è sempre
stato il motore del pianeta. Serve per comprare armi, per corrompere, per
uccidere, per destabilizzare ma, soprattutto, per arricchirsi. Talvolta serve
anche per fare cose buone, ma è un impegno secondario.
Le multinazionali demo-pluto-giudaico-massoniche
contro cui le destre scagliavano strali quasi un secolo fa, sono scomparse.
Oggi, si tratta di tutt’altra cosa, al punto che la ndrangheta e la mafia russa fatturano cifre non inferiori a quelle
di Amazon o di Facebook.
Esse sfuggono alle regole del
diritto internazionale sancito dalle Nazioni Unite e manovrano ingenti masse
finanziarie di risorse con le quali decidono sempre di più dei destini del
mondo.
Non hanno un interesse
politico diretto. Tendono solo ad accumulare denaro ma, in questo modo, possono
influire ed influiscono, pesantemente, sulle decisioni politiche. Spesso si
crede che esista una specie di super governo sovranazionale dominato, appunto,
dalle multinazionali. Fa molto comodo, quando in un Paese si sbaglia politica o
la politica adottata non dà i frutti sperati, gridare al complotto
internazionale.
La verità è che le
multinazionali non hanno ideologia diversa da quella del business. Si spostano e operano dove i costi sono minori e maggiori
le convenienze. In questo senso condizionano governi e politiche.
Prima ancora che
parlino le armi, sono loro a dettare legge nel mondo e, in caso di guerra, a
fornirle. La contesa cino-americana è solo una faccia del problema e dietro,
comunque, ci sono le multinazionali. Sono fuori da ogni contesto giuridico
internazionale, si annidano in micro Paesi dove l’interesse alla loro presenza è
superiore a qualunque altra preoccupazione, hanno le loro regole e sviluppano i
loro tornaconti, militando contemporaneamente su due fronti diversi. Nessuno le
controlla e decidono dei destini del mondo.
In una prospettiva,
diciamo, pacifica del prossimo futuro, la loro influenza è molto più grande di
quella dei grandi Stati. La concentrazione di ricchezza rappresentata dal
potere assicurativo e bancario è tale che basta un poco di spread per destabilizzare un Paese e farsi un nuovo governo amico o
favorire un governo concorrente.
Certe recenti
lamentazioni sulla sostanziale (e rammaricata) inutilità dei Parlamenti, fanno
solo sorridere. In queste condizioni ogni Parlamento è pletorico, costoso e
inutile. La volontà degli elettori è del tutto superflua. Il processo
democratico, la democrazia del cittadino, non esistono più se non in modo
formale. Nel villaggio globale chi realmente decide è altrove, e non è eletto
da nessuno.
Se non si pone un
freno a questo tipo di destabilizzazione della democrazia di tipo occidentale,
il futuro della libertà sarà sempre più incerto, le persone saranno sempre di
più massificate e istupidite, incapaci di pensare e di opporsi al processo di
disgregazione che stiamo vivendo.
C’è una grande lotta
da fare, non sulle cifre e sui loro decimali, non sulle proposte più o meno
irrealizzabili di questo o di quello, questioni tutte certamente importanti
anche se assai miserevoli, ma sulla democrazia e sulla libertà dell’uomo e sul
suo destino, contro la società preconizzata da Orwell.
Roma, 06/01/2019
Nessun commento:
Posta un commento