Antimafia senza mafia
Ora che la stagione eroica ed esaltante è
tramontata che faranno i coraggiosi condottieri dell'antimafia militante,
quella che gira per le scuole e mobilita la società civile, quella che invoca
giustizia e non si accontenta mai della verità giudiziaria perché c'è sempre
una collusione nascosta o una regia occulta da smascherare?
Trattativa finita, pm in crisi, criminali azzoppati.
L'antimafia che resiste è quella editoriale. Ora che i fumi della Trattativa si
sono sedimentati in una pesantissima sentenza di condanna per boss e pezzi
deviati dello Stato, ora che i magistrati di quel processo hanno avuto il
giusto riconoscimento e non c'è più bisogno di tenere alta la tensione sui
giornali e nei talk-show, ora che una Corte d'assise ha finalmente disvelato
trame oscure e complicità politiche che diedero copertura alle stragi di mafia,
ora che la stagione eroica ed esaltante è tramontata che faranno i coraggiosi
condottieri dell'antimafia militante, quella che gira per le scuole e mobilita
la società civile, quella che invoca giustizia e non si accontenta mai della
verità giudiziaria perché c'è sempre una collusione nascosta o una regia
occulta da smascherare?
Dei terribili e sanguinari boss degli anni funesti e
tenebrosi non c'è più traccia. Totò Riina, che fu capo dei corleonesi e regista
delle più avventate sfide allo Stato, ha chiuso la sua vita scellerata in un
carcere duro: arrestato nel gennaio del 1993, è stato murato vivo per un quarto
di secolo in una cella di massima sicurezza e da lì non ha più visto la luce
del sole. Solo lampade a neon. Bernardo Provenzano, suo complice e compare,
catturato dalla polizia dopo 43 anni di latitanza e dopo avere mangiato per una
vita pane e cicoria, è morto pure lui tra i rigori del 41 bis.
Della potente cosca che scalava le vette della criminalità a
colpi di kalashnikov e di tritolo, resta in vita solo Giovanni Brusca, l'uomo
che ebbe il coraggio di sciogliere nell'acido con le proprie mani il figlio
tredicenne di un pentito e che poi - in età matura: siamo già nel maggio del
1992 - ebbe pure il fegato, così dicono i mafiosi, di premere il telecomando
dell'attentato che a Capaci massacrò il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i
ragazzi della scorta.
Ma dopo queste scelleratezze, il killer più spietato di Cosa
nostra ebbe la furbizia di buttarsi sotto le bandiere dello Stato e di mettersi
a disposizione di tutti quei pubblici ministeri desiderosi più che mai di
smantellare le ultime resistenze dei boss e di riscrivere all'un tempo la storia
d'Italia. Brusca ha confermato tutte le tesi dell'accusa e tutti i teoremi.
E quando Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha
trasformato Massimo Ciancimino, figlio del vecchio e malvissuto Don Vito, in
una "icona dell'antimafia" e in una pedina indispensabile per montare
il Grande processo sulla trattativa, Brusca non esitò a cogliere lo spirito del
tempo e a confermare - pur sempre con il collaudato metodo del dire e del non
dire - anche le patacche che il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo aveva
distribuito a piene mani prima nei sottoscala delle procure e poi nelle aule
dei tribunali.
Un genio del male, questo Brusca. Gli eroi dell'antimafia da
salotto non lo ammetteranno mai. Ma il colonnello Sergio Di Caprio, che con il
nome in codice di capitano Ultimo partecipò alla cattura di Totò Riina, lo ha
scritto addirittura in un libro. Brusca ha portato a termine non una ma due
trattative: "Prima con lo Stato quando faceva le stragi, e poi con la
procura quando si è lasciato il passato alle spalle e ha intrapreso la seconda
trattativa, lavandosi il sangue dalle mani".
Per l'antimafia militante trovare un nemico contro il quale
puntare fucili e baionette non è - diciamolo - un'operazione facile.
Della vecchia mafia non ci sono che i rimasugli. L'ultimo
padrino, ancora latitante, è Matteo Messina Denaro. Procure e forze dell'ordine
lo cercano da almeno trent'anni. Hanno messo a ferro e fuoco Castelvetrano,
pensando che fosse lì il suo quartiere generale, ma non c'è stato verso di
snidarlo.
Hanno arrestato parenti, amici e conoscenti; hanno stretto
alle corde complici e favoreggiatori; hanno attivato la cultura del sospetto
persino sulle confraternite e sulle logge massoniche del circondario ma della
Primula rossa non si è percepito nemmeno un lontano odore. Il capo della
procura nazionale, Federico Cafiero De Raho, e i più alti ufficiali del Ros
affermano periodicamente che "il cerchio si stringe" e che "al
massimo fra qualche mese" il boss finirà in manette ma il loro ottimismo
non prende più piede. Con la conseguenza che i grandi condottieri
dell'antimafia non sanno più a che santo votarsi. E per rendersene conto basta
sfogliare i giornali, anche i più coraggiosi.
Nel dicembre dell'anno scorso c'era stata persino una vampata
di entusiasmo: si era sparsa la voce che i carabinieri avessero stroncato,
ovviamente sul nascere, la nuova cupola di Cosa nostra. Ma poi, dopo i
brillanti e promettenti titoli di prima pagina, anche i giornali più zelanti e
ardimentosi hanno scoperto che il boss dei boss, comunque finito regolarmente
in galera, era un vecchietto di 80 anni, Settimo Mineo. E l'entusiasmo finì lì.
I giornalisti più tenaci e intraprendenti, in particolare
quelli che per cinque anni avevano fiancheggiato, con libri e interviste, Nino
Di Matteo, magistrato di punta nel processo della Trattativa, hanno allora
cercato nuovi fronti e nuovi scoop. Ma hanno trovato cosuzze prive di qualsiasi
spessore: la storia delle tre sorelle di Mezzojuso assediate, manco a dirlo,
dalla mafia dei pascoli e una storiaccia raccattata in un quartiere
palermitano, Passo di Rigano, dove una poveretta travestita da cantante
neomelodica, ha salutato dal palco della festa rionale un boss morto tre anni
fa. Apriti cielo.
La storia di Mezzojuso è stato un cavallo di battaglia di
Massimo Giletti: l'ha usata a piene mani nella sua trasmissione su La7 e dopo
averla spremuta fino all'ultima goccia ci ha pure tirato su un libro. La
pacchianata di Passo di Rigano è servita a un giornale locale per riempire
pagine su pagine e tenere alta la convinzione - l'illusione, si stava per dire
- di indirizzare la coscienza civile della gente contro le forze oscure della
mafia.
Una mafia che però è quella che è - un rimasuglio, appunto -
e che per questo viene definita oggi invisibile e domani sommersa. Mai
sconfitta: perché non si deve mai sapere che, nella sfida finale, lo Stato ha
vinto e la mafia ha perso.
Diciamolo. L'unica antimafia che resiste, ormai, è quella
editoriale. Nino Di Matteo ha preso al balzo la sentenza della Corte d'assise
sulla Trattativa e ha pubblicato, con Saverio Lodato, un libro - Il patto
sporco - che gli ha consentito per una intera stagione di girare in lungo e
largo l'Italia, di predicare il rosario dei mille misteri ancora da svelare e
di raccogliere altre venti o trenta cittadinanze onorarie. Salvatore
Borsellino, fratello del giudice assassinato ventisette anni fa in via
D'Amelio, di libri ne ha pubblicati, nel giro di un anno, addirittura due: uno,
La Repubblica delle Stragi, per sostenere le tesi, in linea con Di Matteo,
dello Stato complice e assassino; l'altro per verdeggiare la memoria di Paolo,
il magistrato che con Falcone aveva disegnato la più efficace strategia
d'attacco contro gli ossi più duri di Cosa nostra.
L'impegno editoriale - che resta sempre un impegno civile, ci
mancherebbe altro - pervade ormai l'intero piazzale degli eroi: non c'è
timoniere dell'antimafia che non consegni alla storia una propria analisi o le
proprie memorie. Le librerie si affollano non solo di magistrati e giornalisti
con la schiena dritta, va da sé, ma anche di pentiti, di ex killer il cui
ravvedimento riesce a commuovere gli editori più magnanimi e i redattori più
solerti nel trasformarsi in amanuensi.
Ha scritto un libro Giovanni Brusca, quello del bambino
sciolto nell'acido e del telecomando di Capaci; ne ha scritto uno pure Gaspare
Mutolo, che si vanta di avere partecipato a settanta delitti e di avere ucciso
personalmente almeno venti uomini delle cosche rivali; e ha scritto il suo bel
volume - con le prefazioni, manco a dirlo, di due magistrati come Nino Di
Matteo e Luca Tescaroli - anche Salvatore Cancemi, ricordato dalle cronache
soprattutto per avere giustificato così il fatto di essersi ricordato solo dopo
molti anni che dentro le trame oscure c'era pure infilato Silvio Berlusconi:
"Presidente, la mia mente è come una vite arrugginita: si svita a poco a
poco".
Si dirà, ma è mai possibile che l'antimafia militante oltre
ai libri e alle sbandate di due o tre cantanti melodici non riesca a mettere su
una campagna seria per la legalità e contro il malaffare? Gli scandali e la
corruzione in Sicilia non mancano. Anzi.
Basti pensare all'ultimo maleodorante affare: quello dei
novanta milioni pagati dalla Regione a un avventuriero di Pinerolo per un
censimento che si è potuto vedere solo dopo dieci anni, quando le rilevazioni
sono diventate obsolete e dunque inutilizzabili. L'antimafia militante e anche
quella più istituzionale - fondazioni, centri studi, gruppi di ricerca - si
sono ben guardate da proferire parola. Come se il discorso non li riguardasse.
Ma una spiegazione forse c'è. E si annida probabilmente nella
sudditanza che le nobili e meritorie associazioni - da quella intestata a Giovanni
Falcone a quella che porta il nome di Pio La Torre o di Cesare Terranova,
vittime indimenticate della violenza mafiosa - hanno verso i finanziamenti,
spesso anche sostanziosi, elargiti dalla Regione. Per carità, i soldi non hanno
mai ucciso il coraggio, ma tra le anti-mafie organizzate e il potere politico
si è creato una sorta di circolo vizioso: alle associazioni servono i soldi per
mantenersi in vita e ai palazzi - da Palazzo d'Orleans a Palazzo dei Normanni -
fa comodo alimentare il malinteso secondo il quale basta avere concesso quei
contributi per ritenersi al di sopra di ogni sospetto; per credere e far
credere che anche loro, partiti e gruppi parlamentari, sono in prima fila nella
lotta contro gli sprechi e contro le malversazioni, contro la corruzione e
contro ogni affare opaco e malandrino.
E le anti-mafie glielo fanno credere. Perché loro, rimaste
quasi senza mafia, non conoscono altro impegno se non quello di scrivere libri
o di strapparsi le vesti per la sottocultura di una smarrita cantante di Passo
di Rigano sorpresa - come i neomelodici che popolano il film di Franco Maresco,
premiato a Venezia - a mandare un saluto al boss amico suo morto da tre anni.
Riescono a rimanere insensibili davanti a uno scandalo di dimensioni enormi; ma
un requiem blasfemo no, non lo sopportano.
Fonte: Il Foglio, 14 settembre 2019- di Giuseppe Sottile
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