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sabato 30 gennaio 2021

 

Benno Neumair, Erika De Nardo, Pietro Maso: quando i figli uccidono i genitori. I casi più famosi della cronaca nera italiana

Bolzano, Novi Ligure e gli altri delitti familiari più clamorosi degli ultimi anni: un filo nero che parte da Doretta Graneris e passa per Maso ed Erika e Omar

Benno Neumair, Erika De Nardo, Pietro Maso: quando i figli uccidono i genitori. I casi più famosi della cronaca nera italiana
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L’ultimo figlio fermato con l’accusa di aver ucciso i genitori è Benno Neumair: l’istruttore di fitness 30enne si è presentato in Procura a Bolzano dopo aver saputo che gli sarebbe stato presto notificato un provvedimento di fermo per omicidio volontario e occultamento di cadavere. I suoi genitori Laura Perselli e Peter Neumair sono spariti nel nulla la sera del 4 gennaio 2021. Benno ora è a disposizione dell’autorità giudiziaria: non ha confessato e continua a dirsi innocente.

Prima del «giallo di Bolzano», sono state tante le stragi familiari che in Italia hanno occupato le pagine dei giornali e sono rimaste, come profondi buchi neri, nella nostra memoria. Ecco una carrellata dei casi più famosi.

Erika e Omar - 2001

L’arresto di Omar ed Erika
L’arresto di Omar ed Erika

Alle nove di sera di una fredda sera di inverno una ragazza vaga per il suo paese chiedendo aiuto. È il 21 febbraio del 2001, siamo a Novi Ligure (Alessandria) e la giovane si chiama Erika De Nardo, 16 anni. Quando le forze dell’ordine entrano nella villetta dove abita con la sua famiglia si trovano davanti a una mattanza: in cucina c’è il corpo della madre della ragazza, massacrata da 40 coltellate, circondata da oggetti in disordine e dal tavolo spezzato in due, scena che racconta di una dura lotta della donna per la vita. Susy Cassini aveva 41 anni. Ma non è finita: al piano di sopra, nella vasca da bagno, c’è anche il cadavere del fratello di Erika, Gianluca che ha 11 anni. Anche il piccolo è stato accoltellato ma prima l’assassino ha provato ad avvelenarlo facendogli bere del topicida, poi ha tentato anche di affogarlo. L’assassino o gli assassini? Erika dice che sono stati due extracomunitari, forse albanesi, che volevano fare una rapina. Lei è stata risparmiata, così come il padre Francesco De Nardo, ingegnere di 44 anni, che non era in casa al momento dell’aggressione perché stava giocando a calcetto. In paese si scatena un’ondata di xenofobia, viene addirittura fermato un giovane albanese che corrisponde all’identikit fornito dalla ragazza.

Ma presto le indagini svelano tutta un’altra storia. Nessuno ha forzato porte o finestre della villetta, non è stato rubato nulla, gli schizzi e le impronte di sangue esaminati dai carabinieri del Ris «parlano». Erika e il suo fidanzato Omar Favaro, 17 anni , vengono convocati in caserma e lasciati soli per un po’ di tempo. Soli ma circondati di microspie. È così che gli inquirenti e l’Italia intera scoprono la verità sul delitto di Novi Ligure: a massacrare Susy e Gianluca sono stati proprio Erika e Omar (leggi l’articolo del Corriere di allora). Hanno usato due coltelli da cucina e indossato anche guanti di gomma durante alcune fasi del delitto della mamma. Sia la donna che il bambino hanno lottato con disperazione e forza mentre venivano assassinati. Il piccolo ha anche morso a sangue la mano di Omar. Proprio questa ferita e «la stanchezza» dopo il massacro hanno salvato la vita del padre di Erika: Omar infatti se ne è andato a casa sua e ha lasciato la ragazza da sola.

I due fidanzati diventano per tutti l’immagine del male. Il movente dei due delitti? I cattivi rapporti di Erika con la madre che era preoccupata per i brutti voti della figlia e temeva che facesse uso di droghe con il fidanzato. Erika e Omar vengono condannati nel 2001 - e poi anche negli altri due gradi di giudizio - a 16 anni lei, a 14 lui. Oggi sono usciti entrambi dal carcere , lei si è anche laureata in Filosofia nel 2009 durante la detenzione. Il padre l’ha perdonata e le è rimasto accanto in tutti questi anni. L’attenzione mediatica su Erika non si è mai spenta, così come la terribile forza simbolica di quel delitto che ha sconvolto l’Italia e ha ispirato canzoni, film, documentari e fumetti. (Angela Geraci)

Pietro Maso - 1991

Pietro Maso (a sinistra) elegantissimo durante un’udienza del processo a suo carico
Pietro Maso (a sinistra) elegantissimo durante un’udienza del processo a suo carico

I soldi, le auto, la bella vita: accecato da questi «miraggi» il 17 aprile 1991 l’allora ventenne Pietro Maso massacra i genitori Antonio e Rosa nella loro abitazione di Montecchia di Crosara (Verona). Al delitto partecipano anche gli amici di Pietro, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato, quest’ultimo minorenne. Dopo due tentativi andati a monte, i tre riescono nel loro intento: aspettano il rientro dei coniugi Maso nel villino di famiglia e li aggrediscono con un tubo di ferro e una pentola.

Il massacro crea grande scalpore anche perché alimenta un dibattito sul boom economico del Nordest di quegli anni e sul mito degli «schei» da guadagnare con ogni mezzo. Tutti gli imputati vengono dichiarati sani di mente, Maso è condannato a 30 anni, Carbognin e Cavazza a 26, il minorenne a 13. Nel 2008 Pietro ottiene la semilibertà e grazie all’indulto finisce di scontare la pena nel 2013. L’anno scorso è stato nuovamente indagato per un tentativo di estorsione nei confronti delle sorelle. (Claudio Del Frate)

Ferdinando Carretta - 1989

Ferdinando Carretta nel suo rifugio londinese, nel 1998. Nei riquadri i genitori Marta Ghezzi e Giuseppe, il fratello Nicola e il camper di famiglia (Ansa)
Ferdinando Carretta nel suo rifugio londinese, nel 1998. Nei riquadri i genitori Marta Ghezzi e Giuseppe, il fratello Nicola e il camper di famiglia (Ansa)

La sera del 4 agosto del 1989 a Parma scompare un’intera famiglia, i Carretta. A finire nel nulla sono il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e i due figli Nicola e Ferdinando. Anche il camper di casa non si trova più. Iniziano mesi di congetture, avvistamenti e ipotesi fantasiose: la famiglia è partita per un tour del Mediterraneo e si è persa nel deserto. No, sono scappati tutti in un paradiso fiscale. Sì, sono a Barbados nei Caraibi. Un primo colpo a queste teorie viene dato dal ritrovamento del camper a Milano: il Ford Transit dei Carretta è in un parcheggio di viale Aretusa. È il 19 novembre 1989.

La svolta arriva 9 anni dopo la sparizione della famiglia, il 22 novembre 1998, quando a Londra un poliziotto ferma un uomo di 36 anni per multarlo. Leggendo il suo nome sulla patente, il «bobby» si rende conto che è inserito nella lista degli scomparsi: è Ferdinando Carretta. Il procuratore di Roma si precipita in Gran Bretagna e lo interroga ma Ferdinando dice di non sapere nulla dei suoi cari. Ma poi, il 30 novembre, l’uomo confessa tutto davanti alle telecamere di «Chi l’ha visto?»: «Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Il ragazzo odiava il padre da anni e - dirà - voleva uccidere soltanto lui. Ma poi aveva dovuto eliminare anche la madre e il fratello più piccolo. Aveva messo i loro corpi insanguinati nella vasca da bagno aspettando il buio. Intanto aveva portato il camper lontano, a Milano, per depistare. Di notte aveva poi messo i cadaveri nel cellophane, li aveva caricati sull’auto del padre e seppelliti in una discarica. Gettata via l’arma e ripulito l’appartamento, era scappato a Londra, dove aveva vissuto per 9 anni di espedienti e lavoretti precari. Il Dna entra in gioco perché dà la conferma del suo racconto. Nel 1999 gli uomini del Ris, allora guidati dal colonnello Luciano Garofano, riescono infatti a trovare delle tracce di sangue grazie alle nuove tecniche scientifiche: sono state nascoste per 10 anni dietro il portasapone, nel bagno della mattanza. Ferdinando Carretta viene processato e assolto per incapacità totale di intendere e volere. Trascorre sette anni e mezzo nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova) e uno e mezzo in una comunità a Barisano (Forlì). Nel 2015 Carretta è tornato in libertà e ora vive nella casa di Forlì che ha comprato con il ricavato della vendita della casa del massacro della sua famiglia. L’arma del delitto e i corpi dei Carretta non sono mai stati trovati. (Angela Geraci)

Elia Del Grande - 1998

Elia Del Grande subito dopo l’arresto nel 1998
Elia Del Grande subito dopo l’arresto nel 1998

Sembra ricalcare il copione del delitto Maso un altro massacro che ha come sfondo la provincia italiana che avviene sette anni più tardi. A Cadrezzate (Varese) il 7 gennaio del ‘98 Elia Del Grande uccide a fucilate il fratello Enrico, il padre Enea e la madre Alida, proprietari di alcune panetterie. Elia, dipendente dalla cocaina, ha in mente un piano: impossessarsi dei soldi di famiglia e scappare a Santo Domingo dove i Del Grande avevano alcune proprietà: viene fermato per un controllo casuale dai gendarmi svizzeri alla frontiera e arrestato poche ore dopo il triplice omicidio.

La sentenza, oltre a condannare Elia a 30 anni, lo fa decadere da ogni diritto sull’eredità di famiglia.Nel dicembre del 2015 tenta un’evasione dal carcere di Pavia, dove sta scontando la condanna: il piano viene sventato dalla Digos che ne viene a conoscenza in anticipo. Un’auto parcheggiata a pochi chilometri dal carcere era già pronta da giorni per garantire la fuga a Elia e a un complice albanese. (Claudio Del Frate)

Federico Bigotti - 2015

Il selfie scattato da Federico dopo aver ucciso la madre
Il selfie scattato da Federico dopo aver ucciso la madre

Solo la dichiarata incapacità di intendere e di volere ha risparmiato il carcere a Federico Bigotti, 22 anni, che il 30 dicembre del 2015 colpì con otto coltellate la madre Anna Maria Cenciarini nella casa di famiglia alle porte di Città di Castello (Perugia). Subito dopo il delitto Federico posta una sua immagine sorridente su Facebook, un selfie accompagnato da una frase: «Le carezze sui graffi si sentono di più».

Subito fermato, Bigotti si ostinerà a dire che la mamma si è suicidata e che lui non è riuscito a fermarla. In realtà gli inquirenti raccoglieranno testimonianze che parlano di continui litigi, minacce, aggressioni del figlio nei confronti della madre. Il gip di Perugia ne ha dichiarato l’incapacità di intendere e di volere e ora Bigotti si trova in una struttura psichiatrica. (Claudio Del Frate)

Patrizia, la strana caduta per le scale e il tatuaggio del figlio - 2015

Patrizia Schettini
Patrizia Schettini

Patrizia Schettini, insegnante di musica di 53 anni, viene trovata morta il primo aprile del 2015 nella sua casa di Donnici (Cosenza). A chiamare il 118 è suo figlio di 17 anni: la mamma è caduta dalle scale e ha battuto la testa. Forse è stato un malore. Il giorno dopo il ragazzo si fa un tatuaggio: «Nemmeno la morte ci potrà separare, ti amo mamma». Ma gli inquirenti trovano che nella morte di Patrizia ci sia qualcosa di strano, troppo affrettato archiviare tutto come morte naturale. Poi arriva l’autopsia: sul corpo della donna ci sono anche segni di strangolamento.

L’attenzione si sposta tutta sul ragazzo, adottato da piccolo insieme a un altro fratello. Salta fuori che aveva un rapporto conflittuale con la madre. Poi dopo meno di un mese cede e la sua confessione al padre viene registrata dalle microspie piazzate in casa: «Sì papà, l’ho uccisa io la mamma». L’aggressione, racconta il 17enne, è avvenuta durante una lite scoppiata perché Patrizia lo ha sgridato mentre lui stava suonando il pianoforte: l’ha strangolata e poi ha gettato il corpo giù per le scale. Viene portato nel carcere minorile di Catanzaro con l’accusa di omicidio volontario. In primo grado è stato condannato, con rito abbreviato, a 14 anni e otto mesi; nel 2017 in appello la pena è stata ridotta di 2 anni e otto mesi. (Angela Geraci)

Igor Diana - 2016

Igor Diana (Ansa)
Igor Diana (Ansa)

Giuseppe e Luciana Diana, 67 e 62 anni, si preparano ad andare a dormire quando vengono uccisi a colpi di mazza da baseball. Poi una coltellata alla gola. È l’11 maggio 2016. Restano così, in pigiama lui, seminuda lei, abbandonati nel sangue dentro la loro villetta di Settimo San Pietro (Cagliari). Quasi vent’anni prima la coppia, senza figli, aveva deciso di adottare Igor e Alessio, due fratelli russi trovati in un asilo per bimbi abbandonati di San Pietroburgo. A far scoprire i corpi dei genitori è proprio Alessio, militare di stanza nella base di Teulada che chiama a casa ma nessuno gli risponde: dà l’allarme. Igor, 28 anni, è sparito. Il giovane, adorato dai genitori, ha un carattere opposto a quello del fratello: arruolatosi nell’esercito non ha retto al peso della disciplina. Si è congedato e la sua vita ha preso all’improvviso una piega triste: in un’incidente stradale ha urtato un motociclista che poi è morto. Da allora Igor è cambiato, scivolando pian piano in una dipendenza da alcool e droga che lo ha portato a essere un violento sempre a caccia di soldi. Neppure la nascita di una figlia lo ha aiutato a cambiare, anzi poi la storia tra lui e la compagna è finita. Adesso fa il pizzaiolo ed è sparito nel nulla proprio quando i genitori sono stati ammazzati con una violenza inimmaginabile: la mazza da baseball usata per ucciderli si è spezzata in due ed è rimasta sulla scena del crimine insieme al coltello. E ai vestiti del ragazzo sporchi di sangue.

«Sì, sono stato io. Abbiamo avuto un litigio e ho perso la testa». Con queste parole, due giorni dopo il ritrovamento dei corpi dei coniugi Diana, Igor confessa la sua responsabilità al magistrato che lo interroga in ospedale. Durante la cattura, infatti, il 28enne è rimasto ferito: aveva puntato una pistola contro gli agenti della squadra mobile che lo avevano individuato su una strada provinciale in Sulcis ed è stato colpito alle braccia prima che potesse fare fuoco. Il suo racconto del delitto è freddo e lucido.
Igor si è tolto la vita il 5 dicembre 2016 nel carcere di Cagliari-Uta. (Angela Geraci)

Doretta Graneris - 1975

Guido Badini e Doretta Graneris
Guido Badini e Doretta Graneris

Per trovare l’archetipo di tutte le stragi familiari compiute in Italia occorre comunque risalire fino al 1975; nella notte tra il 13 e il 14 novembre di quell’anno, in un appartamento di Vercelli, la diciottenne Doretta Graneris ammazza a a colpi di pistola cinque componenti della sua famiglia: la madre Italia, il papà Sergio, il fratellino tredicenne Paolo e i nonni materni Romolo e Margherita. Complice del massacro è il fidanzato di Doretta, Guido Badini . La ragazza era in rotta con la famiglia e da alcuni mesi era andata a convivere con il fidanzato. Tutti i cadaveri vennero trovati la mattina dopo nel salotto, uccisi mentre guardavano la tv, che era ancora accesa.

Doretta e Guido vennero arrestati la mattina successiva al delitto, mentre facevano acquisiti in un mercatino rionale. La ragazza all’inizio cercò di scagionare il fidanzato; il quale invece scaricò tutte le responsabilità su di lei. Entrambi gli imputati vennero dichiarati sani di mente e vennero condannati all’ergastolo. Nel 1992 la ragazza ha ottenuto la libertà condizionale. (Claudio Del Frate)

Roberto Succo - 1981

Roberto Succo durante la protesta al carcere di Vicenza
Roberto Succo durante la protesta al carcere di Vicenza

Una storia che invece sembrava non voler finire mai è quella di Roberto Succo: non solo nel 1981, allora diciannovenne Succo uccise entrambi i genitori a Mestre , il padre a colpi d’ascia, la madre annegandola nella vasca da bagno. Una perizia psichiatrica lo giudica schizofrenico e finisce al manicomio criminale di Reggio Emilia. Qui sembra placarsi: studia, mantiene un comportamento impeccabile tanto che nel 1985 gli viene concesso un permesso per uscire. Non farà più ritorno: passa il confine con la Francia, rapina una villa dove violenta una ragazza di 23 anni, uccide un poliziotto transalpino, un medico e altre due ragazze.

Succo è ormai uno dei ricercati più pericolosi d’Europa. Viene arrestato a Treviso il 28 febbraio nel 1988 ma la sua parabola criminale non è finita: si rende protagonista di una plateale protesta salendo sul tetto del carcere di Treviso, dal quale cade, ferendosi. Poco tempo dopo, la mattina del 23 maggio 1988 gli agenti carcerari di Vicenza, dove fu poi trasferito, lo trovano nel letto della sua cella. Morto: si era asfissiato inalando una bomboletta di gas da campeggio. (Claudio Del Frate)

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