Icona della poesia confessionale, premio Pulitzer nel 1967 con la raccolta Live or Die, ribelle, irrequieta, alla costante ricerca di nuovi stimoli, frammentata, dipendente (da alcol e psicofarmaci) ma anche geniale, passionale, anticonformista, chic, sempre ben truccata, spesso fasciata da abiti rossi e fedele ai tacchi a spillo, artisticamente unica. Suicida a 45 anni, dopo diversi tentativi, come l’amica Silvia Plath. Insieme parlavano di morte e autodistruzione “con ardente intensità, attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica”. A Sylvia, che compì il gesto estremo undici anni prima di lei, dedicò anche una lirica in cui scrisse “She took something that was mine”, prese qualcosa che era mio. Eppure sulla carta Anne Sexton avrebbe potuto avere un’esistenza invidiabile.

Sfrontatamente bella e magnetica, nacque nel 1928 in una un’agiata famiglia del New England, padre industriale, madre discendente di politici e intellettuali. Peccato che dietro la facciata si nascondessero due genitori duri, algidi, giudicanti, alcolizzati, tanto che non si sentì mai accettata, stimata (se non dalla prozia Nana, suo doppio identitario) e continuò a dire di esser stata “chiusa a chiave nella casa sbagliata”. Così provò a crearsi quella giusta: sposò diciannovenne il ricco commerciante Alfred Muller Sexton, si trasferì da Weston a Boston, ebbe due figlie nel giro di due anni, ancora inconsapevole, anche per via della modesta istruzione ricevuta per suo scarso interesse, di avere una profondità creativa. Confidava che aderire al sogno americano della classe media e “badare ai bambini e rimescolare besciamella”, come facevano tutte, l’avrebbe pacificata.

“Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se avessi messo abbastanza amore nello scacciarli”. Scivolò invece nella depressione post parto, le fu diagnosticato un disturbo bipolare e le cliniche psichiatriche diventarono familiari. L’ancora di salvezza fu l’incoraggiamento dello psichiatra Orne, che la spinse a coltivare la sua vena poetica, e il corso tenuto da John Holmes al Boston Center for Adult Education dove conobbe la poetessa Maxime Kunim, che le restò sempre amica.

Anne capì che la poesia poteva essere la terapia più efficace. Sul foglio bianco riversava ciò che la tormentava, dava spazio a temi come aborto, alcol, eros e thanatos, disagio psichico, oppressione dei ruoli sociali imposti, la ricerca di Dio pur essendo atea. Negli anni Sessanta nessuno scriveva come lei. Anne era novità, rivoluzione, cambiamento.

Il libro della follia – uscito nel 1972 e ora riproposto in versione integrale da La Nave di Teseo con l’ottima curatela di Rosaria Lo Russo (e testo inglese a fronte) – contiene venti poesie in stile confessionale, quindi autobiografico, nove componimenti sulla figura di Cristo e tre folgoranti racconti inediti – Ballare la giga (il ritmo narrativo richiama l’andamento veloce di questa antica danza tradizionale; qui sotto ne pubblichiamo uno stralcio in anteprima, ndr), Il balletto del buffone e Cala le ciocche, ispirato alla fiaba Rapunzel dei fratelli Grimm – espunti nell’edizione originaria. Pagine in cui la dolorosa essenza di Sexton pulsa all’impazzata. Quando il 4 ottobre 1974 indossò una vecchia pelliccia appartenuta alla madre, bevve un bicchiere di vodka e si chiuse nel garage per farsi fuori col monossido di carbonio, pose fine anche alla sua poetica, il cui lascito consta di sette preziosi volumi di poesie e quattro libri per bambini con Kumin.

A leggerla viene spontaneo dare ragione a quel prete che un giorno, per confortarla e sedare i suoi dubbi, le disse: “Dio è nella tua macchina da scrivere”.