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sabato 29 maggio 2021

 


IL MEGLIO E IL PEGGIO DAI GIORNALI DI OGGI A CURA DELLA REDAZIONE

 

 

 

 

L’Analisi – Adesso rilanciamo l’app Immuni, con questi numeri può funzionare

 

Da 10 settimane cala la curva dei contagi, la media dell’ultima settimana è la più bassa dalla metà di ottobre. Gli ingressi in terapia intensiva sotto i 500 negli ultimi sette giorni, valore più basso da quando viene registrato il dato. Calano anche i decessi, seppur ancora troppi, per la prima volta da ottobre sotto i mille a settimana. Infine, il tasso di positività, il rapporto tra i positivi e i tamponi effettuati, ormai stabilmente sotto al 2%. Nel frattempo prosegue la campagna vaccinale, con 22,3 milioni di persone (43,6% dei vaccinabili) con prima dose e 11,2 milioni (21,9%) con ciclo completo (82% degli over 80, 33,4% di over 70, 26,2% degli over 60).

 

 

I dati, dunque, lasciano intravedere un’estate serena, che dovrà però essere ben diversa da quella precedente. È vero, oggi abbiamo l’arma in più dei vaccini, ma sarebbe sbagliato affidarsi solo a loro viste le domande ancora senza risposta sulla durata degli anticorpi e il proliferare di nuove varianti.

È in tempo di pace che si pianifica la gestione delle emergenze. E allora è in questa tregua estiva che dobbiamo cogliere l’occasione di riprendere in mano le redini dell’epidemia attraverso la vecchia ma fondamentale regola delle 3T: testare, tracciare, trattare.

 

Testare significa continuare a monitorare l’andamento epidemiologico attraverso i tamponi. Tracciare significa essere in grado di ricostruire la catena dei contagi per anticipare le mosse del virus, cosa che non siamo più stati in grado di fare dallo scorso autunno. Oggi, con il tasso di positività sotto al 3% e quasi tutte le regioni con un’incidenza inferiore ai 50 casi ogni 100.000 abitanti, abbiamo un’occasione unica di poter ricominciare il contact tracing e di rilanciare, ad esempio, l’app Immuni. Infine c’è l’ultima T, quella per il trattamento dei pazienti Covid, dove medici e scienziati continuano a ricercare le cure più efficaci.

 

C’è poi il capitolo varianti, il cui monitoraggio rimane fondamentale per testare l’efficacia dei vaccini. Al momento le notizie sembrano rassicuranti, l’Oms ha dichiarato efficaci tutti i vaccini contro le attuali varianti. Ma che il virus continui a circolare in molte zone del pianeta dove le vaccinazioni procedono estremamente a rilento, pone un enorme problema sanitario mondiale, oltre che di uguaglianza. La pandemia potrà essere sconfitta solo attraverso un grande impegno internazionale sulla distribuzione dei vaccini.

 

 

 

Fonte: di Giorgio Sestili | 30 MAGGIO 2021/ Il Fatto Quotidiano 

 

 

Come difendersi dai “covidioti”

di Antonio Padellaro | 30 MAGGIO 2021

 

“L’Oxford Dictionary lo ha inserito tra le nuove parole di quest’anno: covidiot. In italiano: covidiota. Appellativo che mette insieme due pezzi di parole diverse. La prima in questo caso è il nome Covid, la seconda proprio l’appellativo idiota, riservato a chi – non rispettando le regole – mostra di pensare solo a se stesso e ai suoi interessi, ma in realtà mette a rischio la propria salute, oltre a quella di tutti gli altri”.Stefania Salmaso, “L’Antidoto. Come sconfiggere la pandemia facendo scelte consapevoli”, Mondadori

 

Come numerosi altri virologi, epidemiologi, scienziati, ricercatori, abbiamo imparato a conoscere Stefania Salmaso dai suoi interventi televisivi (soprattutto a “Otto e Mezzo”). Mai con il protagonismo spettacolare di certi suoi colleghi, sempre con il tono giusto dettato da conoscenza ed esperienza (maturate in ruoli apicali presso l’Istituto superiore di Sanità). Armata soprattutto di buon senso ogniqualvolta viene chiamata a spiegare a un vastissimo pubblico, intimorito e spesso attonito, in cosa consista il reale pericolo del Covid-19, e come combatterlo. La professoressa ci perdonerà se dalla preziosa bussola che il suo libro ci fornisce per orientarci davanti a un nemico oggi contenuto grazie ai vaccini, forse respinto ma non del tutto sconfitto, abbiamo scelto una definizione tratta dal capitolo sul vocabolario delle nuove parole create dalla pandemia. E se citeremo qui di seguito, a mo’ d’esempio, il termine covidiota applicandolo ad alcuni comportamenti che, purtroppo, hanno finito per creare ulteriori problemi a chi era impegnato sul campo di battaglia. Sul podio ideale dei covidioti meritano naturalmente una menzione coloro che, mentre il contagio si moltiplicava a livello esponenziale, non solo giravano senza mascherina ma ne teorizzavano l’inutilità in pubblici convegni. Senza contare le loro reazioni infastidite riguardo alle regole sui distanziamenti, giudicate uno strumento quasi criminale per danneggiare commercianti, negozianti e addetti alla ristorazione. Nelle olimpiadi dei covidioti la medaglia d’oro spetta indubbiamente a quelli che sostenevano (e sostengono) che il lockdown non soltanto non serve a niente ma costituisce un arbitrio intollerabile, anzi un attentato alle libertà costituzionali. Sul merito l’autrice scrive quanto segue: “La linea italiana è decisamente interventista e molte nazioni seguiranno il nostro esempio, pur con diversi gradi di rigore, che da noi invece nella primavera 2020, è totale. Un’analisi delle conseguenze del lockdown indica un effetto positivo delle misure di contenimento sulla diffusione del Covid-19 in tutti i Paesi studiati, e dimostra che il miglioramento è stato maggiore in quelli che hanno implementato il lockdown prima e in modo più restrittivo”.

 

Ps1. Per evitare strumentalizzazioni politiche abbiamo evitato di ricordare quale è stato il governo promotore di lockdown, obbligo delle mascherine e distanziamento. Così come preferiamo omettere i nomi dei leader d’opposizione (e dei giornali e giornalisti al seguito) fieramente avversi alle misure succitate.

 

Ps2. Quanto ai No-Vax, riteniamo che per essi la definizione di covidioti sia ingiustamente restrittiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

Destra, la “marcia su Roma” come un casting di Verdone

Candidati, gaffe e tweet

 

 

Senza voler mancare di rispetto a Enrico Michetti, l’avvocato-tribuno in gara per il Campidoglio, che immagina il saluto romano come assai “più igienico” visti i tempi (“se per qualcuno è rievocativo del fascismo e del nazismo è un problema suo”, ha aggiunto spiegandosi anche meglio) perché non ritenere plausibile, nella ricca rosa di papabili dalla quale il centrodestra sceglierà sicuramente il nome più performante, anche quello di Armando Feroci, l’immortale candidato di Carlo Verdone nel suo Gallo Cedrone? “Signori elettori – diceva comiziando dal Gianicolo e dando le spalle al Tevere – ma sto’ fiume ve piace o nun ve piace? Ci serve o non ci serve? Se non ci serve, levamolo, sotterriamolo, prosciughiamolo”. Feroci immaginava una “lunga lingua d’asfalto, tre corsie come a Los Angeles”. Traffico finalmente “scorevole” senza più il fiume e soprattutto la città “senza più gabbiani: solo rondini”.

Ora il centrodestra, senza nulla togliere ai caratteri dei personaggi di Verdone, esibisce volti ciascuno dei quali raccoglie, tratteggia e soprattutto rimanda alla ricchissima tribuna capitolina, al cartellone affollato di papabili dal curriculum variabile per sedersi nel luogo del potere più grande e opaco che ci sia in Italia: il Campidoglio. Se dunque Giorgia Meloni ha proposto l’avvocato amministrativista, un po’ professore un po’ tribuno e un po’ imprenditore con la sua srl che governa una Fondazione che macina consulti per gli enti pubblici, Matteo Salvini ha tirato fuori, sembrerebbe più per non dargliela subito vinta all’alleata, un altro petalo dalla rosa: la magistrata Simonetta Matone, “che è stata Donna dell’anno del Lazio nel 2005”. I sedici anni che separano oggi dal premio conquistato, la Matone li ha trascorsi al tribunale dei minorenni, un po’ in quello televisivo di Bruno Vespa, per definire delitti e pene di vicende efferate ma tanto appassionanti per il pubblico di Porta a Porta, e un po’ ai ministeri. Prima con Mara Carfagna, quand’era alle Pari Opportunità, poi a via Arenula, alla Giustizia, ai tempi di Paola Severino. Salvini, già dentro la campagna elettorale, a margine di una sua incursione in periferia ha dimostrato che da qui in avanti tanti e tanti altri potranno essere della partita: “Michetti non lo conosco ma ne ho sentito parlar bene. Matone non la conosco ma ne ho sentito parlar bene. Ho parlato con alcuni architetti e alcuni medici di Roma di cui ho sentito parlar bene”. C’è da dire che anche ingegneri, geologi, commercianti (palazzinari no?) potrebbero, in teoria, entrare nel risiko romano perché, come si dice in casa Lega, “i politici non tirano più”. Serve un “civico”. Ecco perché Maurizio Gasparri, campione storico della destra romana, sempre fregato sulla linea del fuoco capitolino, nel suo mezzo secolo di militanza missina e poi forzista, ministro di Berlusconi per le tv, plurideputato e plurisenatore, oggi resta guardingo: “Io sono naturalmente disponibile. Si vedano e decidano”. Purtroppo per Gasparri è accaduto che gli ostacoli da superare, anche grazie alla sua penna, si sono andati gonfiando, come la pancia delle rane. Perché le ostilità nei suoi confronti si sono avviate per colpa della sua forsennata carica twittarola. Gasparri, al pari di Calenda, anch’egli candidato a Roma, macina ore sul social ma a differenza di Calenda deborda e si ribalta sotto i suoi stessi tweet. Ne riproponiamo solo tre, ricomparsi durante queste ore calde del negoziato conclusivo. Uno sulla virtù della famiglia naturale: “La famiglia VERA è quella diversa da quella con “diversi”, cioè coppie di sesso uguale ma diverse dalle altre coppie non diverse”. Un capolavoro del teatro del nonsense. Memorabile un altro suo tweet nel quale scambia una nota rivista sul mondo digitale (Wired) per un anonimo odiatore, un troll cioè: “WiredItalia non so chi sia, per viltà come tanti si cela dietro l’anonimato, senza nome e cognome”. Nel trio dei brevi capolavori gasparriani si rileva quello che scrisse a sostegno della candidatura di Meloni per Roma: “E’ figlia della destra e proprio per quello a suo tempo le chiesimo la disponibilità”.

Non saranno certo gli infortuni su Twitter a fermare la candidatura del senatore, come – ed è sicuro – non saranno né le inchieste della Corte dei conti sulla sua Fondazione, né le sue valutazioni sui vaccini anti Covid a rendere periglioso il cammino dell’avvocato Michetti, condottiero radiofonico. Certo, volendo essere puntigliosi, c’è da segnalare il suo inno alla libertà: “Si calpesta la libertà del cittadino che dev’essere posto al centro del Paese e non suddito, subalterno, da vaccinare come una vacca contro la sua volontà e somministrargli qualsiasi altra cosa come facevano alle atlete nel mondo dell’Est”.

Detto che poi Michetti ha avuto un ravvedimento operoso e ha offerto il suo braccio ad AstraZeneca, quando il centrodestra si ritroverà domani e nei giorni a seguire a valutare la miriade di candidature, non troverà solo il nome dello speaker radiofonico, della magistrata, del senatore, e anche del medico e dell’architetto conosciuti da Salvini nel suo tour di periferia, ma nell’infinita lista compare, non sappiamo con quali fortune, anche Rita Dalla Chiesa e, degna di nota, una sub candidatura. Vittorio Sgarbi, sempre presente nell’arcobaleno di ogni campagna elettorale, fa un passo indietro e indica, da quel che si legge, Achille Serra, ex prefetto ed ex parlamentare del Pd, come suo sub candidato. Così è se vi pare.

Fonte: di Antonello Caporale | 30 MAGGIO 2021/ da "Il Fatto Quotidiano" 

 

 

 

 

Sindrome di Stoccolma

 

 

Qualche specialista prima o poi indagherà sulla sindrome di Stoccolma che ha colpito i 5Stelle alla caduta di Conte. La forma più acuta si riscontra in Di Maio, che s’è scusato sul Foglio per aver avuto ragione sull’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, arrestato nel 2016 per aver truccato una gara d’appalto, minacciato l’ufficiale della Finanza che indagava, cancellato email dal suo pc e infine confessato al gup la turbativa d’asta (“a fin di bene”). Uggetti non si dimise perché glielo chiedevano le opposizioni (M5S e Lega), ma perché nessuno può fare il sindaco dal carcere: infatti, a norma di legge, fu sospeso dal prefetto e poi condannato in primo grado. Ora è stato assolto in appello: la giustizia così ridotta che assolve pure chi confessa. In pratica, il sant’uomo si credeva colpevole e poi, con sua grande sorpresa, ha scoperto di essere innocente. A sua insaputa. Resta da capire di cosa dovesse scusarsi Di Maio e che sia saltato in mente a Conte di lodare il suo autodafé. La Appendino si può capire: ha subìto due condanne in primo grado senz’aver fatto niente. Ma se non si possono più chiedere le dimissioni neppure di un sindaco in galera, che si fa: si riunisce la giunta nell’ora d’aria?

Già che c’era, Di Maio ha pure fatto mea culpa per la campagna contro la ministra Guidi, beccata a veicolare un emendamento pro petrolieri su richiesta dell’ex fidanzato lobbista. Ma la Guidi, neppure indagata, lasciò il Mise non perché glielo chiese Di Maio, ma il premier Renzi. Che ora la dipinge come una vittima dei 5Stelle dopo averla cacciata lui. Il 31 marzo 2016 fece sapere alla stampa che la riteneva “indifendibile”, era “furioso” (“È gravissimo che Federica non ci avesse detto chi fosse e che cosa facesse il fidanzato”) e le aveva chiesto di dimettersi. Cosa di cui si vantò al Tg2: “Il ministro Guidi ha fatto un errore. Non c’è niente di illecito ma ha fatto un errore e ne va preso atto. In Italia adesso chi sbaglia va a casa”. E nella sua newsletter: “Quando l’emendamento è stato formalmente presentato, il ministro l’ha comunicato in anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business. Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità”. Che avrebbe dovuto fare un movimento legalitario di opposizione: difendere una ministra cacciata dal premier? Se qualcuno, in altre occasioni, ha esagerato con toni fuori luogo e parole fuori posto, ledendo la dignità personale di indagati o arrestati, si scusi pure. Purché non dimentichi i fatti: l’unica bussola che deve orientare un politico sulla questione morale (da non confondere con quella penale).

Chi è raggiunto da prove schiaccianti o convincenti su fatti gravi e incompatibili con una carica pubblica (“disciplina e onore”) deve farsi da parte, sia che sia indagato sia che non lo sia, e se quei fatti alla fine vengono confermati deve lasciare la politica. Anche se viene assolto (o peggio ancora prescritto). Chi invece è sottoposto a indagine o a giudizio per fatti controversi o compatibili con la disciplina e l’onore, resta al suo posto fino al definitivo chiarimento. Ma il “primato della politica” non è delegare le decisioni ai giudici (visto, fra l’altro, come sono ridotti). Ogni leader deve esaminare i fatti, affidarsi a un collegio di probiviri autorevoli, dotarsi di un codice etico rigoroso e trasparente, prendere una decisione, assumersene la responsabilità e farla giudicare dagli elettori. Ora però, viste le fregole dei giornaloni arrapati per il mea culpa dimaiano, attendiamo a pie’ fermo le loro scuse a Virginia Raggi, dipinta come ladra e mignotta a proposito di processi basati sul nulla e finiti infatti nel nulla.

“Il bivio di Raggi: ammettere la bugia col patteggiamento o rischiare il posto”, “L’ultima spinta che avvicina di un’altra spanna la Raggi al suo abisso giudiziario e politico…” (Carlo Bonini, Repubblica, 26.1.17). “La Raggi teme l’arresto” (Giornale, 27.1.17). “La fatina e la menzogna”, “mesto déjà vu di una stagione lontana, quella di Mani Pulite”, “la Raggi è inseguita dallo schianto dell’ennesimo, miserabile segreto… una polizza sulla vita”, “Romeo ha un legame privato, privatissimo con la Raggi”, “tesoretti segreti e ricatti” (Rep, 3.2.17). “Spunta la pista dei fondi elettorali”, “Fondi coperti”, “L’ombra dei voti comprati” (Messaggero, 3.2.17). “La pista che porta alla compravendita di voti”, “Il sospetto di finanziamenti occulti giunti al M5S” (Corriere, 3.2.17). “Come in House of Cards”, “L’accusa di corruzione è vicina” (Stampa, 3.2.17). “Patata bollente. La sua storia ricorda l’epopea di Berlusconi con le Olgettine” (Libero, 10.2.17). “L’affare s’ingrossa: ‘Romeo e Virginia amanti’” (Libero, 12.2.17). “Berdini, nuovo audio: loro amanti” (Stampa, 20.2.17). “Una Forrest Gump con la fama di mantide” (Verità, 31.3.17). “Al Campidoglio il piacere dell’omertà” (Rep, 15.7.18). “La Raggi è riunita con i suoi legali per l’ultimo disperato tentativo di salvarsi” (Sky Tg24, 10.11.18). “La condanna di Raggi”, “E se l’unico modo per sbarrare la strada alla ricandidatura di Virginia Raggi fosse la condanna della sindaca nel processo d’Appello?… Di fatto sarebbe l’unica scappatoia dei rossogialli per togliersi di mezzo (forse) la grillina” (Simone Canettieri, Foglio, 2.9.20). Chi comincia? Daje

FONTE: di Marco Travaglio | 30 MAGGIO 2021/ DA "Il Fatto Quotidiano" 

 

 

 

PADRINI FONDATORI

 

di Marco Lillo e Marco Travaglio15€

 

Funivia, tutti contro tutti. Il capo servizio ammette: “Bloccai i freni altre volte”

 

Davanti al gip. Tadini: “I forchettoni? La scelta fu condivisa”. Perocchio (società di manutenzioni): “Non è vero, io all’oscuro”

 

 

Dopo i primi interrogatori di garanzia è già tutti contro tutti. I tre indagati per la strage della funivia Stresa-Mottarone, fermati nella notte fra martedì e mercoledì scorso, hanno provato a scaricarsi la responsabilità l’un l’altro. Ieri sono stati interrogati per tutto il giorno dal giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Bonamici, alla presenza del procuratore di Verbania Olimpia Bossi. Un confronto in cui non sono mancati momenti anche molto tesi. Il gip ha sciolto solo a tarda sera la decisione sulla nuova richiesta di misure cautelari nei confronti dei tre indagati: Gabriele Tadini, capo del servizio, Enrico Perocchio, responsabile tecnico dell’impianto, e Luigi Nerini, amministratore e proprietario della concessionaria Ferrovie del Mottarone srl. Perocchio ha negato di essere mai stato informato dell’uso dei “forchettoni” bloccafreni. Nerini sostiene di non avere le competenze tecniche per fermare l’impianto (accusando implicitamente Perocchio). Entrambi attaccano il sottoposto che li ha tirati in ballo, Tadini, l’uomo che ha materialmente disinnescato il sistema d’emergenza.

Perocchio, ingegnere dipendente della società di manutenzione Leitner, sostiene di “non essere mai stato informato dei malfunzionamenti” e, soprattutto, di “non aver mai autorizzato” l’uso dei forchettoni. Lo riferisce il suo avvocato Andrea Da Prato. “Solo un pazzo – ha detto sostanzialmente al giudice – sarebbe salito su quell’impianto senza il sistema di sicurezza. Avevo fatto colorare di rosso i dispositivi perché non accadesse mai che un operatore potesse dimenticarli inseriti con passeggeri a bordo”. Perocchio si proclama innocente e il suo legale aveva chiesto la sua scarcerazione immediata. Il giorno dell’incidente, ha raccontato al giudice, sarebbe stato avvertito alle 12.09, pochi istanti dopo il disastro, proprio da una chiamata di Tadini: “Enrico, la fune è a terra. È giù dalla scarpata. La vettura aveva i ceppi”. L’ingegnere, pagato dalla Leitner, percepiva per l’incarico presso la funivia “2mila euro l’anno”: “Non avevo interesse a farlo funzionare sapendo che esistevano delle avarie. Per me un impianto fermo è un impianto sicuro”.

 

Ad accusarlo, però, c’è un testimone che i carabinieri di Verbania hanno riascoltato venerdì pomeriggio: si chiama Fabrizio Coppi, ed è un operatore che domenica 23 maggio stava lavorando sulla funivia. Coppi conferma la versione del suo capo, Tadini, secondo cui Perocchio era a conoscenza di tutto. Tra le persone sentite c’è un altro testimone, che va in direzione opposta: Davide Marchetti, dipendente della Rvs, la ditta esterna intervenuta su impulso della Leitner ad aprile. Tadini, racconta Marchetti, non gli segnalò nessun “rumore alla centralina”, né la “perdita di pressione al sistema frenante”. Ossia, quei brutti segnali ignorati il giorno della strage. Chi era informato, dunque, dei problemi alla funivia?

 

Quanto a Luigi Nerini, il proprietario della Funivie del Mottarone srl, la sua versione è che non spettava a lui occuparsi degli aspetti tecnici: “La mia competenza era sulla gestione economica e amministrativa”. “La sicurezza non era affare suo – ha spiegato il suo avvocato Pasquale Pantano – smettetela di dire che il mio cliente ha risparmiato sulla sicurezza”. Rimane solo, dunque, Gabriele Tadini. L’uomo che martedì scorso, dopo oltre dieci ore di interrogatorio, si è prima autoaccusato (“domenica mattina ho inserito i forchettoni, è stata una decisione che ho preso senza consultare nessuno”) e poi ha coinvolto anche i suoi superiori: “Lo sapevano tutti”. “Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse”, ha aggiunto. Il suo legale, Marcello Perillo, ha chiesto per lui i domiciliari. Su Tadini sono emersi alcuni dettagli inediti. La Ferrovie del Mottarone srl, riferiscono alcuni testimoni, ne avrebbe assunto la moglie, il figlio e anche due cugini. Inoltre, lo storico capo del servizio era stato sollevato dall’incarico dalla Leitner. Era tornato al vecchio ruolo dopo che il sostituto, un paio d’anni fa, era andato in pensione.

 

 

 

FONTE: di Marco Grasso | 30 MAGGIO 2021/ Il Fatto Quotidiano 

 

 

 

 

Così la fune sfilacciata può “salvare” Leitner e inguaiare il gestore

 

Usura ai raggi x

 

 

L’uso dei “forchettoni bloccafreni” potrebbe avere un collegamento anche con l’altro mistero di questa vicenda: la rottura della fune traente, evento rarissimo nella casistica delle funivie. È l’ipotesi che si sta facendo largo tra gli inquirenti dopo le prime analisi visive effettuate dal consulente della Procura Giorgio Chiandussi, docente del Politecnico di Torino. Un sopralluogo effettuato negli ultimi due giorni durante il quale è stato ritrovato il punto di rottura: si tratta della parte terminale del cavo traente, il punto in cui la fune viene saldata alla stazione.

Il cavo non è stato tranciato. Di questo gli investigatori sono ragionevolmente certi. Il punto di distacco è stato trovato sulla sommità, in un tratto particolarmente vulnerabile, nel linguaggio tecnico è conosciuto come “testa fusa”. Ma perché è importante questa scoperta?

Facciamo un passo indietro. A novembre del 2020 l’impianto era stato oggetto di un controllo approfondito da parte della Leitner: società di Vipiteno che aveva effettuato un importante intervento di revamping, fra il 2014 e il 2016, ristrutturando, in parte con soldi pubblici, la funivia, considerata “a fine vita” (i lavori ammontavano a 4,5 milioni di euro); la stessa Leitner ha poi avuto in appalto, per circa 150mila euro l’anno, la manutenzione dal gestore, la Ferrovie del Mottarone srl, fino alla scadenza della concessione, nel 2028. “Secondo la relazione del novembre 2020 – precisa l’avvocato Marcello Perillo, legale di Gabriele Tadini, capotecnico della Ferrovie del Mottarone srl – il cavo era sano”. Ma in cosa consisteva l’ispezione? I tecnici avevano eseguito un “controllo magnetoscopico”, per semplificare una sorta di radiografia del cavo. E in effetti, l’ipotesi che sta emergendo sembra non gettare ombre sulla verifica: la fune, come detto, non si è spezzata, dunque il problema non era il deterioramento, mascherato da controlli che non rispondevano allo stato di fatto. Il fatto è che i rilievi magnetoscopici sono inefficaci per valutare la testa fusa, quella giuntura così delicata. Proprio per questo la legge prevede monitoraggi visivi quotidiani della sua salute, accertamenti demandati a chi gestisce l’impianto (dunque non alla Leitner, ma ancora una volta agli operatori della Ferrovie del Mottarone). E anche che ogni cinque anni, a prescindere, si proceda al taglio del pezzo finale della fune e della sua saldatura. Un appuntamento programmato a cui, il giorno dell’incidente, mancavano sei mesi.

 

Che ne è stato delle ispezioni visive? Non va dimenticato che l’interrogatorio di Gabriele Tadini, l’uomo che ha ammesso di aver disattivato il sistema frenante, ha aperto la strada per la prima volta all’ipotesi di falsificazioni: sul libro giornale non si fa cenno infatti degli strani rumori sentiti salendo a bordo la mattina di domenica 23 maggio, “anomalia” che spinge Tadini a disattivare il sistema frenante, che entrava in funzione “ogni 2-3 minuti”. “Non c’è connessione fra l’inserimento dei forchettoni e la rottura del cavo”, sostiene ancora Perillo. Questa possibilità, invece, non viene esclusa dagli inquirenti. Il dubbio è proprio che la disattivazione dei freni e la sollecitazione continua del cavo della funivia (che si è poi staccato nel punto di saldatura con la stazione) abbia avuto un ruolo nella rottura. E che l’accensione del freno, tutt’altro che malfunzionante, fosse la spia del problema, ignorato fino a trasformarsi in un disastro.



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