IL MEGLIO E IL PEGGIO DAI GIORNALI DI OGGI A CURA
DELLA REDAZIONE
L’Analisi – Adesso rilanciamo l’app Immuni, con questi
numeri può funzionare
Da
10 settimane cala la curva dei contagi, la media dell’ultima settimana è la più
bassa dalla metà di ottobre. Gli ingressi in terapia intensiva sotto i 500
negli ultimi sette giorni, valore più basso da quando viene registrato il dato.
Calano anche i decessi, seppur ancora troppi, per la prima volta da ottobre
sotto i mille a settimana. Infine, il tasso di positività, il rapporto tra i
positivi e i tamponi effettuati, ormai stabilmente sotto al 2%. Nel frattempo
prosegue la campagna vaccinale, con 22,3 milioni di persone (43,6% dei
vaccinabili) con prima dose e 11,2 milioni (21,9%) con ciclo completo (82%
degli over 80, 33,4% di over 70, 26,2% degli over 60).
I
dati, dunque, lasciano intravedere un’estate serena, che dovrà però essere ben
diversa da quella precedente. È vero, oggi abbiamo l’arma in più dei vaccini,
ma sarebbe sbagliato affidarsi solo a loro viste le domande ancora senza
risposta sulla durata degli anticorpi e il proliferare di nuove varianti.
È
in tempo di pace che si pianifica la gestione delle emergenze. E allora è in
questa tregua estiva che dobbiamo cogliere l’occasione di riprendere in mano le
redini dell’epidemia attraverso la vecchia ma fondamentale regola delle 3T:
testare, tracciare, trattare.
Testare
significa continuare a monitorare l’andamento epidemiologico attraverso i
tamponi. Tracciare significa essere in grado di ricostruire la catena dei
contagi per anticipare le mosse del virus, cosa che non siamo più stati in
grado di fare dallo scorso autunno. Oggi, con il tasso di positività sotto al
3% e quasi tutte le regioni con un’incidenza inferiore ai 50 casi ogni 100.000
abitanti, abbiamo un’occasione unica di poter ricominciare il contact tracing e
di rilanciare, ad esempio, l’app Immuni. Infine c’è l’ultima T, quella per il
trattamento dei pazienti Covid, dove medici e scienziati continuano a ricercare
le cure più efficaci.
C’è
poi il capitolo varianti, il cui monitoraggio rimane fondamentale per testare
l’efficacia dei vaccini. Al momento le notizie sembrano rassicuranti, l’Oms ha
dichiarato efficaci tutti i vaccini contro le attuali varianti. Ma che il virus
continui a circolare in molte zone del pianeta dove le vaccinazioni procedono
estremamente a rilento, pone un enorme problema sanitario mondiale, oltre che
di uguaglianza. La pandemia potrà essere sconfitta solo attraverso un grande
impegno internazionale sulla distribuzione dei vaccini.
Fonte:
di Giorgio Sestili | 30 MAGGIO 2021/ Il Fatto Quotidiano
Come difendersi dai
“covidioti”
di Antonio
Padellaro | 30 MAGGIO 2021
“L’Oxford
Dictionary lo ha inserito tra le nuove parole di quest’anno: covidiot. In
italiano: covidiota. Appellativo che mette insieme due pezzi di parole diverse.
La prima in questo caso è il nome Covid, la seconda proprio l’appellativo
idiota, riservato a chi – non rispettando le regole – mostra di pensare solo a
se stesso e ai suoi interessi, ma in realtà mette a rischio la propria salute,
oltre a quella di tutti gli altri”.Stefania Salmaso, “L’Antidoto. Come
sconfiggere la pandemia facendo scelte consapevoli”, Mondadori
Come
numerosi altri virologi, epidemiologi, scienziati, ricercatori, abbiamo
imparato a conoscere Stefania Salmaso dai suoi interventi televisivi
(soprattutto a “Otto e Mezzo”). Mai con il protagonismo spettacolare di certi
suoi colleghi, sempre con il tono giusto dettato da conoscenza ed esperienza
(maturate in ruoli apicali presso l’Istituto superiore di Sanità). Armata
soprattutto di buon senso ogniqualvolta viene chiamata a spiegare a un vastissimo
pubblico, intimorito e spesso attonito, in cosa consista il reale pericolo del
Covid-19, e come combatterlo. La professoressa ci perdonerà se dalla preziosa
bussola che il suo libro ci fornisce per orientarci davanti a un nemico oggi
contenuto grazie ai vaccini, forse respinto ma non del tutto sconfitto, abbiamo
scelto una definizione tratta dal capitolo sul vocabolario delle nuove parole
create dalla pandemia. E se citeremo qui di seguito, a mo’ d’esempio, il
termine covidiota applicandolo ad alcuni comportamenti che, purtroppo, hanno
finito per creare ulteriori problemi a chi era impegnato sul campo di
battaglia. Sul podio ideale dei covidioti meritano naturalmente una menzione
coloro che, mentre il contagio si moltiplicava a livello esponenziale, non solo
giravano senza mascherina ma ne teorizzavano l’inutilità in pubblici convegni.
Senza contare le loro reazioni infastidite riguardo alle regole sui
distanziamenti, giudicate uno strumento quasi criminale per danneggiare
commercianti, negozianti e addetti alla ristorazione. Nelle olimpiadi dei
covidioti la medaglia d’oro spetta indubbiamente a quelli che sostenevano (e
sostengono) che il lockdown non soltanto non serve a niente ma costituisce un
arbitrio intollerabile, anzi un attentato alle libertà costituzionali. Sul
merito l’autrice scrive quanto segue: “La linea italiana è decisamente
interventista e molte nazioni seguiranno il nostro esempio, pur con diversi
gradi di rigore, che da noi invece nella primavera 2020, è totale. Un’analisi
delle conseguenze del lockdown indica un effetto positivo delle misure di
contenimento sulla diffusione del Covid-19 in tutti i Paesi studiati, e
dimostra che il miglioramento è stato maggiore in quelli che hanno implementato
il lockdown prima e in modo più restrittivo”.
Ps1.
Per evitare strumentalizzazioni politiche abbiamo evitato di ricordare quale è
stato il governo promotore di lockdown, obbligo delle mascherine e
distanziamento. Così come preferiamo omettere i nomi dei leader d’opposizione
(e dei giornali e giornalisti al seguito) fieramente avversi alle misure
succitate.
Ps2.
Quanto ai No-Vax, riteniamo che per essi la definizione di covidioti sia
ingiustamente restrittiva.
Destra, la “marcia su Roma” come un casting di Verdone
Candidati,
gaffe e tweet
Senza
voler mancare di rispetto a Enrico Michetti, l’avvocato-tribuno in gara per il
Campidoglio, che immagina il saluto romano come assai “più igienico” visti i
tempi (“se per qualcuno è rievocativo del fascismo e del nazismo è un problema
suo”, ha aggiunto spiegandosi anche meglio) perché non ritenere plausibile,
nella ricca rosa di papabili dalla quale il centrodestra sceglierà sicuramente
il nome più performante, anche quello di Armando Feroci, l’immortale candidato
di Carlo Verdone nel suo Gallo Cedrone? “Signori elettori – diceva comiziando
dal Gianicolo e dando le spalle al Tevere – ma sto’ fiume ve piace o nun ve
piace? Ci serve o non ci serve? Se non ci serve, levamolo, sotterriamolo,
prosciughiamolo”. Feroci immaginava una “lunga lingua d’asfalto, tre corsie
come a Los Angeles”. Traffico finalmente “scorevole” senza più il fiume e
soprattutto la città “senza più gabbiani: solo rondini”.
Ora
il centrodestra, senza nulla togliere ai caratteri dei personaggi di Verdone,
esibisce volti ciascuno dei quali raccoglie, tratteggia e soprattutto rimanda
alla ricchissima tribuna capitolina, al cartellone affollato di papabili dal
curriculum variabile per sedersi nel luogo del potere più grande e opaco che ci
sia in Italia: il Campidoglio. Se dunque Giorgia Meloni ha proposto l’avvocato
amministrativista, un po’ professore un po’ tribuno e un po’ imprenditore con
la sua srl che governa una Fondazione che macina consulti per gli enti
pubblici, Matteo Salvini ha tirato fuori, sembrerebbe più per non dargliela
subito vinta all’alleata, un altro petalo dalla rosa: la magistrata Simonetta
Matone, “che è stata Donna dell’anno del Lazio nel 2005”. I sedici anni che
separano oggi dal premio conquistato, la Matone li ha trascorsi al tribunale
dei minorenni, un po’ in quello televisivo di Bruno Vespa, per definire delitti
e pene di vicende efferate ma tanto appassionanti per il pubblico di Porta a
Porta, e un po’ ai ministeri. Prima con Mara Carfagna, quand’era alle Pari
Opportunità, poi a via Arenula, alla Giustizia, ai tempi di Paola Severino.
Salvini, già dentro la campagna elettorale, a margine di una sua incursione in
periferia ha dimostrato che da qui in avanti tanti e tanti altri potranno
essere della partita: “Michetti non lo conosco ma ne ho sentito parlar bene.
Matone non la conosco ma ne ho sentito parlar bene. Ho parlato con alcuni
architetti e alcuni medici di Roma di cui ho sentito parlar bene”. C’è da dire
che anche ingegneri, geologi, commercianti (palazzinari no?) potrebbero, in
teoria, entrare nel risiko romano perché, come si dice in casa Lega, “i
politici non tirano più”. Serve un “civico”. Ecco perché Maurizio Gasparri,
campione storico della destra romana, sempre fregato sulla linea del fuoco
capitolino, nel suo mezzo secolo di militanza missina e poi forzista, ministro
di Berlusconi per le tv, plurideputato e plurisenatore, oggi resta guardingo:
“Io sono naturalmente disponibile. Si vedano e decidano”. Purtroppo per Gasparri
è accaduto che gli ostacoli da superare, anche grazie alla sua penna, si sono
andati gonfiando, come la pancia delle rane. Perché le ostilità nei suoi
confronti si sono avviate per colpa della sua forsennata carica twittarola.
Gasparri, al pari di Calenda, anch’egli candidato a Roma, macina ore sul social
ma a differenza di Calenda deborda e si ribalta sotto i suoi stessi tweet. Ne
riproponiamo solo tre, ricomparsi durante queste ore calde del negoziato
conclusivo. Uno sulla virtù della famiglia naturale: “La famiglia VERA è quella
diversa da quella con “diversi”, cioè coppie di sesso uguale ma diverse dalle
altre coppie non diverse”. Un capolavoro del teatro del nonsense. Memorabile un
altro suo tweet nel quale scambia una nota rivista sul mondo digitale (Wired)
per un anonimo odiatore, un troll cioè: “WiredItalia non so chi sia, per viltà
come tanti si cela dietro l’anonimato, senza nome e cognome”. Nel trio dei
brevi capolavori gasparriani si rileva quello che scrisse a sostegno della
candidatura di Meloni per Roma: “E’ figlia della destra e proprio per quello a
suo tempo le chiesimo la disponibilità”.
Non
saranno certo gli infortuni su Twitter a fermare la candidatura del senatore,
come – ed è sicuro – non saranno né le inchieste della Corte dei conti sulla
sua Fondazione, né le sue valutazioni sui vaccini anti Covid a rendere
periglioso il cammino dell’avvocato Michetti, condottiero radiofonico. Certo,
volendo essere puntigliosi, c’è da segnalare il suo inno alla libertà: “Si
calpesta la libertà del cittadino che dev’essere posto al centro del Paese e
non suddito, subalterno, da vaccinare come una vacca contro la sua volontà e
somministrargli qualsiasi altra cosa come facevano alle atlete nel mondo
dell’Est”.
Detto
che poi Michetti ha avuto un ravvedimento operoso e ha offerto il suo braccio
ad AstraZeneca, quando il centrodestra si ritroverà domani e nei giorni a
seguire a valutare la miriade di candidature, non troverà solo il nome dello
speaker radiofonico, della magistrata, del senatore, e anche del medico e
dell’architetto conosciuti da Salvini nel suo tour di periferia, ma
nell’infinita lista compare, non sappiamo con quali fortune, anche Rita Dalla
Chiesa e, degna di nota, una sub candidatura. Vittorio Sgarbi, sempre presente
nell’arcobaleno di ogni campagna elettorale, fa un passo indietro e indica, da
quel che si legge, Achille Serra, ex prefetto ed ex parlamentare del Pd, come
suo sub candidato. Così è se vi pare.
Fonte:
di Antonello Caporale | 30 MAGGIO 2021/ da "Il Fatto
Quotidiano"
Sindrome di Stoccolma
Qualche
specialista prima o poi indagherà sulla sindrome di Stoccolma che ha colpito i
5Stelle alla caduta di Conte. La forma più acuta si riscontra in Di Maio, che
s’è scusato sul Foglio per aver avuto ragione sull’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti,
arrestato nel 2016 per aver truccato una gara d’appalto, minacciato l’ufficiale
della Finanza che indagava, cancellato email dal suo pc e infine confessato al
gup la turbativa d’asta (“a fin di bene”). Uggetti non si dimise perché glielo
chiedevano le opposizioni (M5S e Lega), ma perché nessuno può fare il sindaco
dal carcere: infatti, a norma di legge, fu sospeso dal prefetto e poi
condannato in primo grado. Ora è stato assolto in appello: la giustizia così
ridotta che assolve pure chi confessa. In pratica, il sant’uomo si credeva
colpevole e poi, con sua grande sorpresa, ha scoperto di essere innocente. A
sua insaputa. Resta da capire di cosa dovesse scusarsi Di Maio e che sia
saltato in mente a Conte di lodare il suo autodafé. La Appendino si può capire:
ha subìto due condanne in primo grado senz’aver fatto niente. Ma se non si
possono più chiedere le dimissioni neppure di un sindaco in galera, che si fa:
si riunisce la giunta nell’ora d’aria?
Già
che c’era, Di Maio ha pure fatto mea culpa per la campagna contro la ministra
Guidi, beccata a veicolare un emendamento pro petrolieri su richiesta dell’ex
fidanzato lobbista. Ma la Guidi, neppure indagata, lasciò il Mise non perché
glielo chiese Di Maio, ma il premier Renzi. Che ora la dipinge come una vittima
dei 5Stelle dopo averla cacciata lui. Il 31 marzo 2016 fece sapere alla stampa
che la riteneva “indifendibile”, era “furioso” (“È gravissimo che Federica non
ci avesse detto chi fosse e che cosa facesse il fidanzato”) e le aveva chiesto
di dimettersi. Cosa di cui si vantò al Tg2: “Il ministro Guidi ha fatto un
errore. Non c’è niente di illecito ma ha fatto un errore e ne va preso atto. In
Italia adesso chi sbaglia va a casa”. E nella sua newsletter: “Quando
l’emendamento è stato formalmente presentato, il ministro l’ha comunicato in
anticipo al suo compagno, che si è scoperto poi essere interessato al business.
Così facendo Federica Guidi ha compiuto un errore e giustamente ha deciso
subito di dare le dimissioni, per evidenti ragioni di opportunità”. Che avrebbe
dovuto fare un movimento legalitario di opposizione: difendere una ministra
cacciata dal premier? Se qualcuno, in altre occasioni, ha esagerato con toni
fuori luogo e parole fuori posto, ledendo la dignità personale di indagati o
arrestati, si scusi pure. Purché non dimentichi i fatti: l’unica bussola che
deve orientare un politico sulla questione morale (da non confondere con quella
penale).
Chi
è raggiunto da prove schiaccianti o convincenti su fatti gravi e incompatibili
con una carica pubblica (“disciplina e onore”) deve farsi da parte, sia che sia
indagato sia che non lo sia, e se quei fatti alla fine vengono confermati deve
lasciare la politica. Anche se viene assolto (o peggio ancora prescritto). Chi
invece è sottoposto a indagine o a giudizio per fatti controversi o compatibili
con la disciplina e l’onore, resta al suo posto fino al definitivo chiarimento.
Ma il “primato della politica” non è delegare le decisioni ai giudici (visto,
fra l’altro, come sono ridotti). Ogni leader deve esaminare i fatti, affidarsi
a un collegio di probiviri autorevoli, dotarsi di un codice etico rigoroso e
trasparente, prendere una decisione, assumersene la responsabilità e farla
giudicare dagli elettori. Ora però, viste le fregole dei giornaloni arrapati
per il mea culpa dimaiano, attendiamo a pie’ fermo le loro scuse a Virginia
Raggi, dipinta come ladra e mignotta a proposito di processi basati sul nulla e
finiti infatti nel nulla.
“Il
bivio di Raggi: ammettere la bugia col patteggiamento o rischiare il posto”,
“L’ultima spinta che avvicina di un’altra spanna la Raggi al suo abisso
giudiziario e politico…” (Carlo Bonini, Repubblica, 26.1.17). “La Raggi teme
l’arresto” (Giornale, 27.1.17). “La fatina e la menzogna”, “mesto déjà vu di
una stagione lontana, quella di Mani Pulite”, “la Raggi è inseguita dallo
schianto dell’ennesimo, miserabile segreto… una polizza sulla vita”, “Romeo ha
un legame privato, privatissimo con la Raggi”, “tesoretti segreti e ricatti”
(Rep, 3.2.17). “Spunta la pista dei fondi elettorali”, “Fondi coperti”,
“L’ombra dei voti comprati” (Messaggero, 3.2.17). “La pista che porta alla
compravendita di voti”, “Il sospetto di finanziamenti occulti giunti al M5S”
(Corriere, 3.2.17). “Come in House of Cards”, “L’accusa di corruzione è vicina”
(Stampa, 3.2.17). “Patata bollente. La sua storia ricorda l’epopea di
Berlusconi con le Olgettine” (Libero, 10.2.17). “L’affare s’ingrossa: ‘Romeo e
Virginia amanti’” (Libero, 12.2.17). “Berdini, nuovo audio: loro amanti”
(Stampa, 20.2.17). “Una Forrest Gump con la fama di mantide” (Verità, 31.3.17).
“Al Campidoglio il piacere dell’omertà” (Rep, 15.7.18). “La Raggi è riunita con
i suoi legali per l’ultimo disperato tentativo di salvarsi” (Sky Tg24,
10.11.18). “La condanna di Raggi”, “E se l’unico modo per sbarrare la strada
alla ricandidatura di Virginia Raggi fosse la condanna della sindaca nel
processo d’Appello?… Di fatto sarebbe l’unica scappatoia dei rossogialli per
togliersi di mezzo (forse) la grillina” (Simone Canettieri, Foglio, 2.9.20).
Chi comincia? Daje
FONTE:
di Marco Travaglio | 30 MAGGIO 2021/ DA "Il Fatto
Quotidiano"
PADRINI FONDATORI
di Marco Lillo e Marco
Travaglio15€
Funivia, tutti contro tutti. Il capo servizio ammette:
“Bloccai i freni altre volte”
Davanti
al gip. Tadini: “I forchettoni? La scelta fu condivisa”. Perocchio (società di
manutenzioni): “Non è vero, io all’oscuro”
Dopo
i primi interrogatori di garanzia è già tutti contro tutti. I tre indagati per
la strage della funivia Stresa-Mottarone, fermati nella notte fra martedì e
mercoledì scorso, hanno provato a scaricarsi la responsabilità l’un l’altro.
Ieri sono stati interrogati per tutto il giorno dal giudice per le indagini
preliminari Donatella Banci Bonamici, alla presenza del procuratore di Verbania
Olimpia Bossi. Un confronto in cui non sono mancati momenti anche molto tesi.
Il gip ha sciolto solo a tarda sera la decisione sulla nuova richiesta di
misure cautelari nei confronti dei tre indagati: Gabriele Tadini, capo del
servizio, Enrico Perocchio, responsabile tecnico dell’impianto, e Luigi Nerini,
amministratore e proprietario della concessionaria Ferrovie del Mottarone srl.
Perocchio ha negato di essere mai stato informato dell’uso dei “forchettoni”
bloccafreni. Nerini sostiene di non avere le competenze tecniche per fermare
l’impianto (accusando implicitamente Perocchio). Entrambi attaccano il
sottoposto che li ha tirati in ballo, Tadini, l’uomo che ha materialmente
disinnescato il sistema d’emergenza.
Perocchio,
ingegnere dipendente della società di manutenzione Leitner, sostiene di “non
essere mai stato informato dei malfunzionamenti” e, soprattutto, di “non aver
mai autorizzato” l’uso dei forchettoni. Lo riferisce il suo avvocato Andrea Da
Prato. “Solo un pazzo – ha detto sostanzialmente al giudice – sarebbe salito su
quell’impianto senza il sistema di sicurezza. Avevo fatto colorare di rosso i
dispositivi perché non accadesse mai che un operatore potesse dimenticarli
inseriti con passeggeri a bordo”. Perocchio si proclama innocente e il suo
legale aveva chiesto la sua scarcerazione immediata. Il giorno dell’incidente,
ha raccontato al giudice, sarebbe stato avvertito alle 12.09, pochi istanti
dopo il disastro, proprio da una chiamata di Tadini: “Enrico, la fune è a
terra. È giù dalla scarpata. La vettura aveva i ceppi”. L’ingegnere, pagato
dalla Leitner, percepiva per l’incarico presso la funivia “2mila euro l’anno”:
“Non avevo interesse a farlo funzionare sapendo che esistevano delle avarie.
Per me un impianto fermo è un impianto sicuro”.
Ad
accusarlo, però, c’è un testimone che i carabinieri di Verbania hanno
riascoltato venerdì pomeriggio: si chiama Fabrizio Coppi, ed è un operatore che
domenica 23 maggio stava lavorando sulla funivia. Coppi conferma la versione
del suo capo, Tadini, secondo cui Perocchio era a conoscenza di tutto. Tra le
persone sentite c’è un altro testimone, che va in direzione opposta: Davide
Marchetti, dipendente della Rvs, la ditta esterna intervenuta su impulso della
Leitner ad aprile. Tadini, racconta Marchetti, non gli segnalò nessun “rumore
alla centralina”, né la “perdita di pressione al sistema frenante”. Ossia, quei
brutti segnali ignorati il giorno della strage. Chi era informato, dunque, dei
problemi alla funivia?
Quanto
a Luigi Nerini, il proprietario della Funivie del Mottarone srl, la sua
versione è che non spettava a lui occuparsi degli aspetti tecnici: “La mia
competenza era sulla gestione economica e amministrativa”. “La sicurezza non
era affare suo – ha spiegato il suo avvocato Pasquale Pantano – smettetela di
dire che il mio cliente ha risparmiato sulla sicurezza”. Rimane solo, dunque,
Gabriele Tadini. L’uomo che martedì scorso, dopo oltre dieci ore di
interrogatorio, si è prima autoaccusato (“domenica mattina ho inserito i
forchettoni, è stata una decisione che ho preso senza consultare nessuno”) e
poi ha coinvolto anche i suoi superiori: “Lo sapevano tutti”. “Non sono un
delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune
si spezzasse”, ha aggiunto. Il suo legale, Marcello Perillo, ha chiesto per lui
i domiciliari. Su Tadini sono emersi alcuni dettagli inediti. La Ferrovie del
Mottarone srl, riferiscono alcuni testimoni, ne avrebbe assunto la moglie, il
figlio e anche due cugini. Inoltre, lo storico capo del servizio era stato
sollevato dall’incarico dalla Leitner. Era tornato al vecchio ruolo dopo che il
sostituto, un paio d’anni fa, era andato in pensione.
FONTE:
di Marco Grasso | 30 MAGGIO 2021/ Il Fatto Quotidiano
Così la fune sfilacciata può “salvare” Leitner e
inguaiare il gestore
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