1957, Frignano. Tentò di uccidere con numerosi colpi di pistola il cognato per paura che gli sottraesse la casa già donata alla moglie in nuda proprietà di Ferdinando Terlizzi

A giugno del 1957 Giuseppe Ceneri di anni 33 da Frignano, fu accusato di tentato omicidio perché aveva tentato di cagionare la morte del cognato Luigi Manno esplodendogli  contro vari colpi di pistola senza raggiungere l’intento per cause indipendenti dalla sua volontà e già l’11 settembre dello stesso anno Giuseppe Garofalo, suo difensore di fiducia, inviava una missiva al giudice istruttore chiarendo che “dall’istruzione compiuta da vostra signoria è certamente emerso che il Ceneri dell’esplodere i colpi di pistola, non era animato da intenzione omicida. La distanza ravvicinata e il numero dei colpi, qualora vi fosse stata tale intenzione, avrebbero reso inevitabile che le pallottole raggiungessero qualcuno. Il fatto stesso che sui muri vicini non si sia trovata traccia alcuna di proiettili, sta a significare che l’imputato esplose i colpi in aria o a terra, al solo scopo intimidatorio. Prego, pertanto, vostra signoria, perché degradi l’imputazione, e voglia scarcerare l’imputato o quantomeno concedergli il beneficio della libertà provvisoria”.

 

Ma per capire meglio il movente del mancato omicidio, i risvolti della vicenda, le incomprensioni che armarono la mente e la mano del mancato omicida è obbligatorio fare un passo indietro e andare al lontano 27 giugno del 1957 alle 5 di mattina mentre albeggiava nella terra dei fuochi, in Frignano, in località San Nicola allorquando i  carabinieri di Frignano furono avvertiti che poco prima, tale Giuseppe Ceneri aveva esploso numerosi colpi di pistola contro il cognato Luigi Manno. Accorsi  immediatamente sul posto, essi non rinvennero né il Manno né il Ceneri resisi  entrambi irreperibili, ma tuttavia non tardarono ad accertare le modalità dell’accaduto.

Immacolata Loffredo e suo figlio Luigi Bellopede riferirono infatti alle ore 4:00 circa, mentre erano nel loro cortile  – privo di portone sito in via San Nicola a preparare il carretto con cui recarsi al lavoro in campagna – avevano visto passare per la strada Luigi Manno che portava sulle spalle una rete da letto. All’altezza del loro cortile il Manno era stato affrontato dal Ceneri il quale gli chiese dove portassi la rete. Il Manno avevo risposto che portava la rete a casa della propria madre ed allora il Ceneri aveva estratto dalla tasca una pistola automatica ed alla distanza di 4, 5 metri aveva cominciato a sparare. Alla vista della pistola in Mann era fuggito nel cortile e,  gettata a terra la rete aveva tentato di ripararsi dietro essa Loffredo, mentre il Ceneri continuava a far fuoco. I due testimoni precisarono che erano infine fuggiti nella loro casa e dopodiché la sparatoria aveva avuto termini e sia il Ceneri che il Manno si erano allontanati.

Risultò inoltre che certo Vincenzo Mastroianni e lo spazzino comunale Gennaro Bove, accorsi sul posto subito dopo gli spari, avevano trovato 13 bossoli ed una pallottola per pistola calibro 7,65 –in uno spazio di pochi metri quadrati, nel cortile.

In data 29 giugno il Manno che si era rifugiato in Napoli, fece ritorno in famiglia e, interrogato dei carabinieri, dichiarò che il 26 giugno il suo padrone di casa gli aveva intimato di lasciargli l’abitazione da lui occupata e pertanto, non avendo trovato altro alloggio egli aveva pregato la propria madre  Ersilia Purgato di ospitarlo presso di sé per qualche tempo. La madre aveva acconsentito. Se non che il Ceneri, temendo che egli volesse stabilirsi definitivamente nell’abitazione della genitrice (che costei aveva già donato la nuda proprietà alla propria figlia, moglie di esso Ceneri ), lo aveva  affrontato mentre effettuava il trasporto delle masserizie e fatto segno ai colpi di pistola, fortunatamente andati a vuoto, nelle circostanze già riferite dalla Loffredo e dal Bellopede. Precisò il Manno che forse il Ceneri – che egli aveva visto con entrambe le mani ingombrate, aveva fatto fuoco con due pistole e che inoltre egli si era rifugiato a Napoli in quanto temeva ulteriori aggressioni da parte del cognato.

Risultò, inoltre,  che nella sparatoria era rimasto colpito un cane della Loffredo; ma non fu possibile constatare ove erano andate a finire le altre pallottole dei colpi esplosi nel cortile della Loffredo, che è ampio circa metri 10 × 10 ed era in gran parte incomprato di legna e di attrezzi agricoli. Iniziata l’istruttoria  formale, veniva contestata dal Ceneri, con mandato di cattura, il delitto di tentato omicidio in persona del Manno e della Loffredo. Tratto in arresto e in data 13 luglio 1957, il Ceneri confermava i precedenti del fatto riferiti dal Manno e confermava che in casa della suocera, che si compone di appena due stanze, abitavano già, oltre al suocera,  lui, la moglie ed i loro 6 bambini. Dichiarava ancora che la mattina del 27 giugno, egli si limitò a chiedere al cognato, che trasportava la branda in casa della madre, cosa intendesse fare, ma il Manno subito estrasse una pistola ed incominciò a sparare. Pertanto anche egli aveva estratta la propria pistola ed aveva  fatto fuoco sette volte.

L’avvocato Giuseppe Garofalo

Manno subito estrasse una pistola ed incominciò a sparare. Pertanto anche egli aveva estratta la propria pistola ed aveva  fatto fuoco sette volte.

La parte lesa ed i testi già sentiti dai carabinieri ripetevano in buona sostanza quanto già dichiarato nel corso dell’istruttoria e veniva espletata l’ispezione della località, nonché una perizia balistica, la quale accertava che i 13 bossoli repertati erano stati sparati da due distinte pistole automatiche, cioè sei bossoli da un’arma ed i rimanenti sette dall’altra e che inoltre la pallottola repertata, risultava lanciata da una pistola automatica del tipo Beretta e proveniva dalla stessa ditta fabbricante Fiocchi dei 13 bossoli repertati.  Infine, il giudice istruttore, ritenendo che fossero venuti meno gli indizi relativi alla sussistenza del delitto di tentato omicidio, con sentenza del 18 novembre del 1957 rinviava l’imputato al giudizio del Pretore di Trentola per rispondere di minacce gravi in danno del Manno, così modificata l’imputazione di tentato omicidio; dichiarava, poi, non doversi procedere per il tentato omicidio in persona della Loffredo perché il fatto non sussiste.  Il Pretore di Trentola, con ordinanza in data 23 marzo 58 sollevava conflitto di competenza sul presupposto che valutando le medesime risultanze istruttorie, il Ceneri dovesse essere chiamato a rispondere non già del delitto di minaccia con arma bensì  del delitto di violenza privata aggravata di competenza del tribunale. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 4 dicembre 58,  opinando che al Ceneri fosse addirittura da ascriversi il delitto di tentato omicidio in persona del Manno – di  competenza della Corte di assise  – annullava la sentenza di rinvio e rimetteva gli atti al G.I. per nuova deliberazione. Il giudice istruttore, con nuova sentenza del 27 novembre 59 in conformità del deliberato della Suprema Corte, rinviava il Ceneri innanzi alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di tentato omicidio in danno del Manno ed ordinava la cattura dell’imputato. “È fuor di dubbio  – scrissero i magistrati nella motivazione della loro sentenza – che l’episodio per cui è processo trova spiegazione nel vivo disappunto del Ceneri dovuto al fatto che il Manno, fratello di sua moglie, rimasto privo di abitazione, intendeva trasferirsi nella casa che si apparteneva in usufrutto alla madre e la nuda proprietà alla sorella e che era già abitata dalla predetta e dai suoi sei figli. Infatti la mattina del 27 giugno del 1957 il Manno, ottenuto dalla madre il consenso a trasferirsi presso di lei, si accinse ad effettuare il trasloco, e mentre si avvicinava alla casa della madre, con una rete da letto sulle spalle, venne affrontato dal Ceneri il quale prima gli chiese cosa intendesse fare  e poi sparò numerosi colpi di pistola. L’imputato assume che dei colpi esplosi ( che furono ben 13 giacchè nel cortile, ove il Manno si rifugiò ed avvenne la sparatoria, si rinvennero 13 bossoli), solo sette furono sparati da lui. A suo dire gli altri colpi  vennero superati dal Manno che fu anzi il primo di aprire il fuoco”.

Il processo la condanna ad anni uno e mesi otto di reclusione per violenza privata – La mancanza di volontà omicida

“Ma tale assunto per respinto. E’ vero che la perizia balistica ha accertato che i colpi furono sparati con due pistole diverse; ma deve ritenersi che le due pistole le avesse entrambe il Ceneri, giacché, a prescindere dal fatto che il Manno, pur dopo essersi riconciliato con il cognato, insiste nell’escludere di essere stato anche lui armato, sta di fatto che i testi Loffredo e Bellopede, sulla cui attendibilità non è stata avanzata alcun sospetto e che furono certamente in condizioni di conservare bene la scena dato che il Manno si rifugiò nel cortile e tentò di farsi scudo di uno di essi, hanno sempre affermato di aver visto solo il Ceneri armato”.

“Passando all’indagine circa la qualificazione giuridica da darsi al fatto, va osservato che è da escludere senz’altro che ricorrono gli estremi del tentato omicidio. E’ pur vero che il prevenuto insistette nell’azione, inseguendo il Manno nel cortile della Loffredo  esplodendo numerosissimi colpi, ma è da tener presente che tale circostanza induce proprio a ritenere che egli non avesse fatto intenzione di attingere il Manno –  in quanto il fatto si svolse in un cortile quanto mai ristretto (ampio metri 10 × 10 ma in parte ingombro) ed è chiaro che solo non volendo egli potevano non colpire neppure con uno dei tanti colpi esplosi a bravissima distanza l’avversario, che fu alla sua mercè almeno prima e dopo che si facesse scudo della Loffredo. Egli loro in realtà sparò a terra – come dimostra il ferimento di una cagnetta della Loffredo ad una zampa –  e quindi non con altro scopo che quello di fare una minaccia”.

“A tale conclusione deve pervenirsi anche valutando la causale dell’azione: l’imputato compì l’aggressione per vietare al cognato di entrare nella casa, e tale fine era facilmente raggiungibile (ed infatti fu raggiunto, almeno per il momento), mediante una semplice intimidazione, senza spargimento di sangue. Poiché la minaccia fu diretta ad imporre al Manno di astenersi dall’occupare la casa materna e conseguì tale scopo nel fatto vanno ravvisati gli elementi “subiettivi e obiettivi” del delitto di violenza privata consumata, aggravata per l’uso dell’arma, ed è in ordine a tale reato che va pronunciata la condanna. Al Ceneri possono concedersi le attenuanti generiche, in considerazione dei suoi incensurati precedenti e delle sue misere condizioni di vita; nonché   l’attenuante di cui all’articolo 62 (l’attenuante del particolare valore morale e sociale N.d.R) avendo egli risarcito il danno alla parte lesa. Tali attenuanti dato il loro numeri e la loro consistenza, vanno ritenute equivalenti alla aggravante dell’arma.  Non può invece trovare applicazione l’attenuante della provocazione, giacchè  il comportamento del Manno –  che suscitò l’ira del prevenuto – non può dirsi  ingiusto, il Manno intanto si accinse a trasferissi nella casa contesa in quanto era rimasto senza alloggio ed era stato peraltro a ciò autorizzato dalla madre, usufruttuario dell’immobile. Tenuto conto dei criteri tutti la pena per violenza privata può fissarsi in un anno e mesi otto di reclusione”.