1958,
in San Cipriano d’Aversa , per contrasto sul taglio dell’erba uccise il cognato
e ferì gravemente per “aberratio ictus” la propria sorella. La vittima rispose
al fuoco ma fu sopraffatta di Ferdinando
Terlizzi
Nelle prime ore
del pomeriggio del 7 aprile del 1958 in una zona periferica dell’abitato di San
Cipriano d’Aversa Giovanni Galeone
aveva cominciato a falciare l’erba in un piccolo fondo di due quarte donatogli
dalla madre Maria Raffaella Montefusco
circa tre mesi prima in occasione delle sue nozze con Gilda Verrone, tale fatto suscitò il risentimento di Nicola Montefusco, cognato del predetto per averne sposato cinque
anni prima la sorella Beatrice, il
quale, sospeso il lavoro di falciatura che stavo effettuando in altro
campicello limitrofe, affrontò il Galeone, ritenendo di avere qualche diritto
sull’erba raccolta da quest’ultimo per averla seminata prima che il terreno
fosse stato donato allo stesso. Ne
nacque una discussione nel corso della quale i due passarono ben presto e via
di fatto, azzuffandosi. Ciò vedendo, la madre del Galeone e la moglie del
Montefusco cominciarono a gridare per richiamare l’attenzione dei vicini e
fargli accorrere per separare i contendenti.
Beatrice Galeone si preoccupò di entrare i suoi bambini del luogo della
rissa accompagnandoli presso la vicina abitazione. Accorse sul posto dapprima Gabriele Pellegrino il quale riuscì a
separare i contendenti ma mentre cercava di fare allontanare il Montefusco il
Galeone estrasse una pistola incominciò a sparare un colpo verso terra che di
rimbalzo attinse alla natica Beatrice Galeone (intenta come si è detto a
portare via i figlioletti) cagionandole una ferita superficiale. Subito dopo
sopraggiunge Luigi Diana - il
quale insieme al Pellegrino -riuscì a
trascinare via il Montefusco. Senonchè questi percorsi circa 20 metri, con uno
strattone si svincolò dai due uomini e lo tenevano fermo per un braccio, e,
avendo scorto il Galeone che lo seguiva a pochi passi con la pistola in pugno,
estrasse a sua volta la pistola che teneva nella cintura dei pantaloni. Ma
l’altro con azione fulminea esplose immediatamente un colpo che attinse in
pieno torace il Montefusco, il quale, pur mortalmente ferito, prima di
abbattersi al suolo ebbe la forza di sparare un colpo contro l’avversario senza
peraltro attingerlo; al che il Galeone rispose con un altro colpo andato a
vuoto e poi si dette alla fuga. Costituitosi
ai carabinieri il 12 aprile il Galeone dichiarò che il cognato avendo visto che
egli stava provvedendo al taglio dell’erba sul proprio fondo gli si era
avventato addosso percuotendolo con schiaffi
e pugni ed aveva cercato di difendersi con la falce, ma l’altro era
riuscito a disarmarlo; inoltre era stato addentato alla natica dal cane del
Montefusco, ragione per cui aveva estratta la pistola e sparato un colpo contro
detto cane; successivamente aveva colpito al capo il cognato con il calcio
della pistola questi, mentre veniva trascinato verso casa del Pellegrino e dal Diana, si era improvvisamente voltato
gli aveva gridato con una bestemmia: “Ti
debbo uccidere“; esplodendo contro un colpo, al quale egli aveva risposto
sparando a sua volta un colpo che aveva raggiunto il Montefusco. I testi
Pellegrino e Diana sentiti in istruttoria, nel riportarsi alle dichiarazioni
rese i carabinieri aggiungevano che il Galeno mentre seguiva con la pistola in
pugno il Montefusco - che era trascinato verso casa aveva gridato: “Vatti ad armare che ti aspetto fuori”. L’autopsia accertò che il colpo mortale aveva
attraversato il polmone sinistro del ventricolo che aveva cagionato il decesso
del Montefusco. Rinviato al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua
Vetere per risponde del reato di omicidio volontario dichiarato colpevole e
condannato a 17 di reclusione in appello
chiese l’applicazione dell’esimente della legittima difesa, e in subordinato
l’eccesso colposo, la provocazione,
l’esclusione della volontà omicida e la
riduzione della pena al minimo.
“L’impugnata sentenza
- ragionarono i giudici di appello -
merita la conferma, ritenendo
infondati i motivi dell’appello proposto dall’imputato. Le risultanze processuali dimostrano
innanzitutto con chiara evidenza che nella fattispecie non sono ravvisabile le
condizioni istigatrici della legittima difesa in quanto fu proprio il Galeone a
porsi per primo su un piano di violenza ed a persistervi ostinatamente con un
atteggiamento di provocazione e di sfida; onde non si può invocare l’esimente
se, in conseguenza del proprio contegno aggressivo e provocatorio, venne a
trovarsi in una situazione di pericolo, esponendosi alla prevedibile reazione
del cognato. Invero,
l’episodio delittuoso ebbe ad articolarsi in varie fasi successive, tutte
caratterizzate dalla crescente animosità e da sempre più intenso spirito
aggressivo il Galeone ebbe a rilevare in modo tangibile e concreto. Ciò appare
manifesto sin dalla prima fase dell’incontro fra i due cognati. Il Galeone aveva iniziato il taglio dell’erba
sul terreno donatogli di tre mesi prima
dalla madre – quando il Montefusco - che
quell’erba aveva seminato a sue spese prima della donazione col consenso della Maria Raffaella Montefusco, allora
proprietario del fondo - gli si avvicinò per chiedergli conto di quanto stava
facendo. Vai
subito rilevato che, agendo in tal modo il Montefusco esercitava una propria
facoltà legittima inerente alla sua proprietà dell’erba, onde il suo
comportamento non poteva assumere il tono di una provocazione per il cognato,
tanto più che da nove anni, cioè da quando si era fidanzato con Beatrice Galeone, sorella
dell’imputato, il predetto Montefusco aveva assunto la direzione dei lavori
agricoli, tenendo nell’ambito della famiglia un ruolo preminente per la sua
maggiore esperienza e capacità. Sintomatica
per la sua arroganza fu la risposta del Galeone: “La terra è mia”…, al che l’altro replicò: “Il pascone è mio” … dopo di che i due si afferrarono. I giudici
ritennero inveritiere le affermazioni
del Galeone sulla provocazione con la falce e il morso del cane.
Quattro processi con buna pena definitiva di 15 anni di reclusione – Due famiglie finite in una tregenda immane
La Corte di assise
di Santa Maria Capua Vetere (Prisco
Palmiero, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere,
consigliere; Vincenzo Caladonato, Vincenzo Cinquegrani, Marina Vitelli, Giovanni Bosco, Francesca
Della Tartaglia e Angela Letizia,
giudici popolari) con sentenza del 3 febbraio del 1962 condannò il Galeone ad
anni 17 di reclusione per omicidio volontario.
Seguì il primo processo di appello e la Corte di assise di appello di
Napoli, ( Duilio Grassini,
presidente; Francesco Saverio De Simone,
consigliere; Fedele Reali, sostituto
procuratore generale della repubblica) con decisione del 27 dicembre 1963,
confermando la sentenza di primo grado chiarì che…”La pena inflitta dai primi giudici appare perfettamente rispondente
alla entità oggettiva e soggettiva del fatto. in particolare non può
accogliersi la richiesta di ridurre di un terzo la pena base in conseguenza
della concessione delle attenuanti generiche, così come richiesto dalla difesa,
perché, oltre alla giovane età ed ai precedenti relativamente buoni
dell’imputato occorre considerare la modalità di esecuzione del fatto:
caratterizzate, come detto, dal contegno aggressivo e provocatorio del galeone
e la capacità a delinquere dell’imputato medesimo rese evidente dal suo
carattere maturato in un ambiente quello dei “Mazzoni” dove, per malinteso prestigio e per esagerato
orgoglio, si è soliti risolvere con le armi (di cui perciò si è appunto muniti
come nella specie), ogni insignificante dissidio”. Insorse la difesa…”La
sentenza dei giudici di appello doveva ravvisare sul comportamento
dell’imputato gli estremi della difesa legittima. L’imputato si determinò a
sparare solo quando la vittima estrasse la pistola con l’evidente scopo di
offendere. La legge non può negare la esimente della legittima difesa allorché
si è costretti a commettere un fatto per fugare il pericolo attuale di una
grande offesa. Il Galeone prevenne di qualche istante reazione della vittima
che, estratta la pistola, stava per sparare contro di lui. Tanto ciò è vero che
il Montefusco, sebbene colpito, pur esplose un colpo di pistola contro
l’imputato. Né può accertarsi dell’assunto dei giudici di merito i quali pur
riconoscendo che il Galeone si trovò in una situazione di pericolo alla quale
poteva far fronte solo con estrema decisione fulminea, negarono allo stesso la concessione della scriminante per
il suo comportamento provocatorio ed aggressivo osservato prima del fatto. Ed
invero la stessa sentenza riconoscere che l’evento finale si verificò solo in
un secondo momento, quando ormai le fasi precedenti della lite si erano
concluse. Il Galeone si limitò a controllare i movimenti della vittima della
quale temeva una reazione, che infatti si verificò, ed allora sparò quando si accorse che era quello l’unico modo
per sopravvivere. La sentenza motiva in modo arbitrario e contraddittorio sulla
successione della volontà omicida. Per giustificare il primo colpo sparato in
basso, afferma che il proposito omicida non s’era ancora concretizzato; il
secondo colpo invece, solo per il fatto che attinse la vittima, diventa sufficiente per affermare che trae proposito,
a distanza di pochi istanti (Sic!) si è perfezionato nell’animo dell’agente.
Quindi il terzo colpo, che pure andò a vuoto, non fu esploso contro la vittima,
continua la sentenza, perché… era superfluo! Per questa sentenza fu fatto il
ricorso per Cassazione adombrando il mancato accoglimento della esimente della
legittima difesa. La Suprema Corte nel 1965 in accoglimento del motivo aggiunto
del ricorso annullò la sentenza “per mancanza di motivazione sulla circostanza
attenuante della ingiusta provocazione sulla misura della riduzione della pena
per le attenuanti generiche”. Rinviando il giudizio ad altra sezione della
stessa corte di Appello.
Nel 1966 la Corte
di Appello ridusse la pena ad anni 15 di reclusione. La pena definitiva dopo 4 processi fu di anni
15 di reclusione. Nei 4 processi che ne seguirono tra Corte di assise e Corte
di Appello e Cassazione furono impegnati gli avvocati: Carlo Cipullo, Guido Cortese,
Giuseppe Garofalo e Vittorio Botti.
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