È il 6 febbraio quando nelle redazioni circola la notizia della pubblicazione di un blog post a firma di Sundar Pichai, il Ceo di Alphabet e Google. Una delle Over The Top della tecnologia sente il bisogno di far sapere, anche con un certo trasporto quasi fosse un inedito, che l’azienda ha entusiasmanti novità sull’Intelligenza Artificiale (il progetto si chiama “Bard”), che ci sta lavorando e anzi è addirittura una sua “priorità” a cui si dedicherà – attenzione alle parole – con “audacia e responsabilità”.
La comunicazione e i toni sono in parte prova dell’ansia da prestazione sull’Intelligenza Artificiale e i suoi sviluppi che da qualche settimana sembra aver assalito Big Tech. L’arrivo di Chat Gpt, uno strumento di elaborazione del linguaggio naturale (o Natural Language Processing) che utilizza algoritmi avanzati di apprendimento automatico per generare risposte del tutto simili e assimilabili a quelle umane all’interno di un discorso, ha scompigliato i programmi e gli equilibri interni delle multinazionali tecnologiche che, all’improvviso, sembrano dover arrancare.
A ben vedere, non è – come accade sempre più spesso – un problema di tecnologia, bensì di reputazione. Tre mesi prima del debutto di Chat Gpt, come racconta anche il Washington Post, Meta – la società madre di Facebook – aveva rilasciato un chat bot simile, ma in pochi se ne sono accorti. “Blenderbot”, era il suo nome, è stato presto travolto da polemiche per aver dato delle risposte considerate razziste e addirittura controproducenti per Meta stessa come “Trovo Zuckerberg troppo inquietante e manipolatore” oppure “Da quando ho scoperto che Facebook vende dati personali senza autorizzazione ho cancellato il mio profilo”, per finire con “L’azienda di Zuckerberg sfrutta le persone per soldi e a lui non importa”.
Joelle Pineau, l’amministratore delegato di Fundamental AI Research di Meta, aveva provato a spiegare cosa stesse succedendo: “Quando abbiamo lanciato BlenderBot3 qualche giorno fa – ha detto ad agosto – abbiamo parlato ampiamente delle promesse e delle sfide che derivano da una tale ‘demo’ pubblica, inclusa la possibilità che possa sfociare in un linguaggio problematico o offensivo. Sebbene sia doloroso vedere alcune di queste risposte offensive, demo pubbliche come questa sono importanti per costruire sistemi di intelligenza artificiale conversazionale veramente robusti e colmare l’evidente divario che esiste oggi prima che tali sistemi possano essere messi in produzione”.
Dal feedback fornito dal 25% degli utilizzatori su 260mila messaggi bot, lo 0,11 per cento delle risposte di BlenderBot è stato contrassegnato come inappropriato, l’1,36 come privo di senso e l’1 per cento come fuori tema. Ciononostante c’è stato poco da fare: la reputazione della demo è crollata sotto gli attacchi mediatici e la stessa sorte è toccata al successore “Galactica” dopo pochi giorni di critiche sui suoi riassunti definiti “imprecisi” e “talvolta distorti” della ricerca scientifica. Ancora una volta, è lo stesso capo scienziato dell’AI di Meta a ipotizzare che il problema fosse il fatto che queste “demo” fossero noiose: troppi legacci, a partire dalla moderazione dei contenuti eccessivi (ad esempio il chatbot cambiava argomento se un utente faceva domande a tema religioso) che pure non gli ha evitato polemiche. Qui, spiegano gli esperti, starebbe la grossa differenza tra Big Tech e ChatGpt. Le aziende più grandi e quotate – rispetto a una startup focalizzata sulla ricerca, l’open source e almeno inizialmente il non profit – hanno molti più paletti da rispettare sui temi etici e più in generale sul politicamente corretto. Troppe cautele che pare abbiano irritato pure gli sviluppatori e i dipendenti di Google: hanno chiesto alla loro azienda di accelerare il processo di approvazione delle loro tecnologie di intelligenza artificiale per evitare di tenere in soffitta applicativi che potrebbero già competere o battere ChatGpt, che spopola nonostante sia stato lanciato quando non era ancora considerato del tutto pronto. Google, ha scritto il NYT, adesso ha previsto una sorta di “codice rosso” (urgenza) per il lancio dei prodotti di intelligenza artificiale e una “corsia verde” per abbreviare il processo di valutazione e mitigazione dei potenziali danni.
Chat Gpt non è una assoluta innovazione tecnologica ma in poco, pochissimo tempo, è diventata mainstream proprio perché aperta al grande pubblico e sostanzialmente priva di filtri. La eco mediatica è stata alimentata proprio dalle polemiche e dalla sua imperfezione, incastrata in una verosimiglianza di linguaggio tale da renderla un ibrido tra un motore di ricerca (altra enorme minaccia commerciale per Google, ma pure per il pensiero critico se un giorno si dovesse prendere per buono tutto ciò che ChatGpt risponde) e una sorta di consulente: giornali e tv si sono nutriti delle sue repliche giocando con imprecisioni, assurdità, scorrettezze. I giornalisti si sono divertiti a intervistarla, i ragazzi l’hanno usata per i compiti a scuola, i curiosi l’hanno provocata. Ogni risposta, quasi fosse una trovata che seguiva una precisa strategia di marketing, ha avuto visibilità e amplificazione senza alcun capro espiatorio da attaccare se non la tecnologia stessa.
ChatGpt ha così riportato l’intelligenza artificiale sul tavolo del dibattito: Microsoft ha investito miliardi per integrarla nei suoi servizi e nel settore è ricominciata la corsa. Oltre a Google e Meta, il gigante tecnologico cinese Baidu ha annunciato l’intenzione di integrare il suo chatbot “AI Ernie” nei servizi del suo motore di ricerca a partire da marzo. Altri colossi cinesi – tra cui Alibaba, JD.com e Tencent – hanno dichiarato di star lavorando su prodotti simili, anche se i dettagli tecnici e di tempo sono scarsi. Apple, che finora è stata apparentemente assente dalla corsa, pare invece si stia muovendo così come Amazon, che ha da poco annunciato una partnership con Hugging Face, che sviluppa un rivale di ChatGpt.
L’impatto di questa frenesia sull’economia tech è al momento incerto. Secondo esperti e alcune società fintech, nel 2023 ci sarà una nuova ondata di interesse per l’intelligenza artificiale. “Il catalizzatore dell’euforia è stato un chatbot AI, ChatGpt, creato da OpenAI in collaborazione con Microsoft, che ha iniziato a investire molto nella società a partire dal 2019”.
Spiega un report di XTB, grossa fintech internazionale, che – grazie a 10 miliardi di dollari di finanziamento – il colosso fondato da Bill Gates “intende saturare il proprio browser Bing con l’intelligenza artificiale, aumentando potenzialmente la propria quota di mercato in particolare rispetto ad Alphabet”, che poi sarebbe Google. Gli investitori sembrano essersi convinti che le cose stiano “diventando serie” intorno all’intelligenza artificiale proprio perché Microsoft, nel mezzo di licenziamenti e tagli di costi in tutto il settore, intende spendere una fortuna per il suo sviluppo.
Secondo ResearchAndMarkets, il mercato globale dell’AI dovrebbe raggiungere i 309,6 miliardi di dollari entro il 2026 con un tasso di crescita annuo medio del 39,7% nel periodo 2021-2026. La cosa curiosa è però che lo sviluppo dell’AI potrebbe non arricchire tanto l’azienda che la svilupperà di più o al meglio, bensì chi utilizzerà gli applicativi o – ancor di più – chi si occuperà di declinarla e adattarla agli usi particolati per cui sarà necessaria. La vera guerra sui dati, sulla trasparenza della loro provenienza e la creazione di database profilati in base alle esigenze è alle porte. L’implementazione dell’intelligenza artificiale ne è solo il primo, più semplice, capitolo.
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