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sabato 23 marzo 2024





RUSSIA SOTTO ATTACCO

Attentato Isis a Mosca, sangue a casa Putin: massacro prima del concerto, caccia ai terroristi caucasici

CRISI INTERNAZIONALE - Nella Capitale, gli estremisti islamici rivendicano l’assalto della cellula jihadista che ha provocato decine di morti. A fuoco il tetto dell’edificio

DI MICHELA A. G. IACCARINO
23 MARZO 2024

LEGGI – Attentato Isis a Mosca: alert Usa e Uk sul rischio islamista il 7 marzo. Mosca: “Notizie solo parziali”

Intorno alle otto di sera, nell’enorme sala del Crocus, gli spettatori sono in attesa che salgano sul palco i Piknik. Quando sentono dei boati, non capiscono subito. Qualche secondo dopo li raggiungono urla, tremende e ripetute, delle vittime che cinque uomini armati si lasciano alle spalle. “La sala brucia”, “dei banditi sparano”: tutti corrono verso un sipario che non si alzerà mai per lo spettacolo. È rosso porpora come il sangue che comincia a scorrere. Poi ancora spari e la morte che colpisce a caso tra la folla. Ad aprire il fuoco contro i cittadini russi attentatori non identificati, alcuni in passamontagna, quasi tutti in mimetica. Il bilancio dei morti, circa 40, e dei feriti, oltre 100, ieri sera sanno tutti che è provvisorio: sarà già peggiorato nella notte passata, quando vigili ed elicotteri riusciranno a spegnere le fiamme che avvolgono una delle sale per eventi più grandi di Mosca. In tarda serata arriva la rivendicazione dell’Isis su Telegram.

Un terakt, un attacco terroristico, come in un déjà vu tremendo degli anni 90. Sotto l’insegna luminosa del city hall gli assalitori hanno mitragliato a bruciapelo contro le persone accovacciate sul pavimento, accanto ai metal detector dei tornelli d’ingresso, circondati da una scia di cadaveri. Per granate e bombe che tirano, il Crocus va a fuoco e il tetto collassa. I primi testimoni raccontano in video, che presto diventano virali, che all’entrata i custodi del centro eventi non avevano armi da fuoco, ma solo pistole stordenti. Chi è riuscito a fuggire in tempo ha riferito che gli uomini armati avevano “barbe”, “capelli chiari”, “giubbotti antiproiettili”, “mimetiche”, “fucili d’assalto e automatici”. Ci sono corpi, “molti corpi” nel Crocus, dice chi riesce a venire fuori. Mentre si scappa via si calpestano cadaveri; solo alcuni vengono avvolti in enormi sacchi di plastica neri dalle forze di sicurezza russe dispiegate. Mentre il fuoco avvolge l’edificio, una colonna di fumo nero si leva tra una pioggia di scintille: sotto c’è un tappeto di luci blu, della polizia e delle 70 ambulanze spedite sul posto.

Secondo il canale Baza gli attentatori sono fuggiti con un’auto bianca, in tute verdi, prima dell’assalto degli spetsnaz, forze speciali russe. Rinvenuta anche un’altra auto del commando nel parcheggio dalla Rosgvardia: all’interno c’era esplosivo. Sul posto il governatore della regione Andrey Vorobyov. Già aperta un’inchiesta per terrorismo. Gli 007 di Mosca sarebbero alla ricerca di un gruppo di ingusci, cittadini della repubblica russa del Caucaso settentrionale, dove a inizio marzo le forze di sicurezza russe hanno ucciso sei membri dell’Isis nella città di Karabulak.

Il concerto dei Piknik, un famoso gruppo rock russo, era quasi sold out. A Mosca, i ragazzini, ci volevano andare tutti, anche Lisa B. I suoi amici sono lì dentro: “Da ore non rispondono, i cellulari sono staccati”. È caos: a sentire i Piknik c’erano almeno seimila persone, i biglietti erano quasi esauriti. Mosca è ko e annulla tutto: il sindaco Sergey Sabyanin la blinda, aumenta controlli in stazioni e aeroporti, vieta ogni altro tipo evento, sportivo o culturale, in programma nei prossimi giorni. È allarme in tutti i grandi centri: silenzio nelle sale anche a San Pietroburgo, cancella tutto anche Lipetzk. Nelle prossime ore forse prenderanno la stessa decisione in altre città: lo ha già fatto Minsk, Bielorussia. In Serbia il presidente Vucic convoca invece un consiglio d’emergenza.

L’Onu condanna l’attacco contro i civili. Rvc, il Corpo dei volontari russi che combattono al fianco degli ucraini contro l’Armata rossa, ha negato ogni coinvolgimento. Nega anche Washington: “Al momento non c’è segno del coinvolgimento dell’Ucraina”. Smentisce ogni coinvolgimento anche Kiev che accusa Mosca dell’attentato a Mosca: “Una provocazione del regime di Putin e dei suoi servizi speciali”, “il tiranno del Cremlino ha iniziato la sua carriera così”.

L’ex presidente Medvedev promette “morte per morte” se si scoprirà che sono stati “i terroristi di Kiev”. La portavoce del ministero degli Esteri Zakharova assicura che tutti i responsabili verranno identificati e poi tuona contro gli Usa. Ripete lo stesso messaggio che diffondono i blogger nelle loro chat: “Gli americani sapevano qualcosa, ma non hanno condiviso le informazioni con Mosca”. Poi, in tarda serata, appunto, la firma dell’Isis, il nemico comune di Occidente e Russia.

LEGGI – Attentato a Mosca: dal Dubrovka a Beslan, la spin





22 MARZO 2024 ATTENTATO A MOSCA I TERRORISTICO SONO IN FUGA 




Mosca
di Anna Zafesova
La Stampa
Beslan, Dubrovka, il settembre nero del 1999 a Mosca. Le riprese terribili dall’interno del centro Krokus-City fanno ricordare i momenti più neri della recente storia russa. Il ritorno del terrorismo, nel cuore della Russia, pochi giorni dopo la proclamazione di Vladimir Putin come non solo vincitore delle "elezioni" presidenziali, ma anche come dell’unico politico russo, che governa un Paese di esecutori e sottoposti, fa esplodere quella immagine di controllo totale che il Cremlino aveva proposto come una delle sue principali conquiste. Un complesso commerciale e una sala concerti che erano diventati un monumento alla nuova Mosca moderna e ricca (il Krokus-City aveva ospitato, tra l’altro, il concorso Miss Universo patrocinato da Donald Trump, che aveva avuto trattative di affari con il suo proprietario Emin Agalarov) è stato ridotto in cenere, la capitale russa è stata di nuovo ferita al cuore, le sue certezze trasformate in paure, la sua sicurezza in frantumi. Cancellati spettacoli teatrali, chiusi i cinema, rinviate le lezioni nelle università, fatti evacuare i centri commerciali, non solo a Mosca: all’improvviso, la Russia si sente in guerra.
Una guerra lontana che diventa vicina, come era accaduto anche nelle ondate di terrorismo precedenti, a opera di estremisti islamisti prevalentemente originari del Caucaso russo. Beslan nel 2004 e Dubrovka, nel 2002, e ancora prima, negli anni ’90, Budennovsk e Pervomayskoe, erano stati atti drammatici della guerra in Cecenia, prese di ostaggi di massa in un tentativo della guerriglia cecena di costringere il Cremlino a cessare i bombardamenti e trattare. Dopo che Beslan era finita in una strage degli innocenti, era arrivata una stagione di atti terroristici in senso stretto, commessi non per trattare, ma per uccidere: attentati, bombe, terroristi e terroriste kamikaze, attacchi molto simili a quelli che avevano scosso l’Europa e il Medio Oriente, in quella offensiva dell’islamismo contro un Occidente del quale anche la Russia sembrava far parte, in una causa comune contro gli jihadisti.
La scenografia della strage di Krokus ricorda tanto Beslan e soprattutto Dubrovka, la presa di ostaggi nel teatro, un altro attacco alla Mosca benestante e indifferente a una tragedia lontana. Ma a vedere le immagini dei commandos che sparano contro le guardie e il pubblico, senza – almeno da quello che si sa per ora – nessuna minaccia, rivendicazione o richiesta – viene in mente semmai la strage del Bataclan. Gli uomini entrati al Krokus non volevano negoziare o mostrare il proprio messaggio, volevano uccidere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile, fare terrorismo nel senso più stretto della parola, seminare terrore, totalmente indifferenti a chi sarebbero state le loro vittime. Più che Beslan, o Dubrovka, l’attacco di ieri sera ricorda il raid di Hamas contro Israele, in una festa della violenza.
Resta da capire se Vladimir Putin vorrà trasformare la strage di Krokus nel suo 7 ottobre. Inevitabile la discussione sul cui prodest. I turbo-putiniani hanno già lanciato accuse all’Ucraina e agli Usa – l’«oligarca ortodosso» Konstantin Malofeev ha addirittura invocato un attacco atomico contro le città ucraine – e la polizia di Mosca sembrava convinta che i terroristi avessero usato un pullmino con la targa ucraina (che poi si è rivelata bielorussa). I servizi segreti di Kyiv, e i volontari russi che combattono a fianco degli ucraini, hanno immediatamente accusato le trame dell’Fsb, ricordando che «il terrore contro i civili è il vecchio metodo amato da Putin». Che il presidente russo sia diventato una star della politica promettendo di «ammazzare i terroristi nel cesso» dopo gli attentati che avevano fatto circa 300 morti a Mosca e in altre città russe è vero, così come è vero che aveva approfittato dello shock degli atti terroristici per implementare il suo programma politico, come quando nel 2004 aveva usato il dolore di Beslan per abolire l’eleggibilità dei governatori regionali. Oggi, una strage a Mosca, se attribuita agli ucraini o a dei «partigiani» russi – e che il commando del Krokus era fatto di professionisti lo si è visto dalla sua mostruosa efficacia - può sicuramente far nascere nei russi una rabbia vera, che potrebbe giustificare una nuova chiamata alle armi che molti temono come imminente. Sarebbe però anche un colpo grave all’immagine del regime, che si propone come l’unico in grado di difendere i russi dalle minacce esterne e interne, e che si fa sfuggire, in una città piena di telecamere e poliziotti, un commando armato fino ai denti che riesce a dileguarsi nel nulla. È sintomatico che ieri sera i canali tv russi abbiano a lungo trasmesso film e spettacoli, invece di dare la notizia della tragedia al Krokus, e che i portavoce ufficiali dei servizi e del governo siano stati molto prudenti, in attesa di sapere a chi avrebbe attribuito la colpa Putin.
Anna Zafesova
Mosca
di Giovanni Pigni
La Stampa
Ex consigliere di Vladimir Putin e suo fervente sostenitore, Sergey Markov è un politologo ben connesso con i vertici del potere di Mosca.
Chi pensa ci sia dietro all’attentato di ieri?
«Quegli individui avevano le sembianze di islamisti. Ma bisogna dire che ora la Russia non è in conflitto con nessun gruppo musulmano, ha delle ottime relazioni con tutti i Paesi musulmani. Questo fa sospettare che l’attentato potrebbe essere stato organizzato da Kyiv, da Zelensky, con l’obiettivo di garantire forniture di armi in grandi quantità all’Ucraina. Il piano era organizzare un’azione terroristica utilizzando persone che appaiono come terroristi islamici, come caucasici con le barbe nere».
Ma la Russia ha ancora nemici nel mondo musulmano. Basta ricordare il sostegno di Putin alla guerra contro l’Isis in Siria. E l’Isis ha rivendicato.
«Ha ragione. Ma ora la guerra contro l’Isis non è in una fase attiva, non c’è un conflitto su grande scala in corso con questi gruppi terroristici».
Che vantaggio trarrebbe il governo ucraino da un simile attentato terroristico?
«L’obiettivo è rovinare le relazioni della Russia con i Paesi musulmani. Ma in primo luogo fare in modo che la Russia risponda in maniera molto dura a questo attentato, con attacchi diretti contro la popolazione civile delle grandi città ucraine come Kyiv e Kharkiv, fare in modo che si sollevi un’ondata di indignazione nei Paesi occidentali, garantire così i finanziamenti e forse anche l’invio di truppe Nato in Ucraina: ecco l’obiettivo principale.
Non pensa che organizzando un attentato simile, l’Ucraina rischierebbe di ottenere l’effetto opposto, ovvero spingere l’Occidente ad abbandonarla?
«No, non ci sarà una reazione opposta nei confronti di Kyiv, in quanto i responsabili appaiono come degli islamisti».
Qualche settimana fa l’ambasciata americana a Mosca aveva avvertito i suoi cittadini di possibili attacchi terroristici, dissuadendoli dal visitare luoghi affollati...
«Questo avvalora la mia teoria: i servizi americani sapevano che si stava preparando l’attacco. Sappiamo tutti che i servizi ucraini sono controllati dagli americani. E questi ultimi evidentemente avevano qualche informazione sulla preparazione dell’attacco e dunque hanno avvisato i loro cittadini di non visitare luoghi affollati».
Non pensa che se gli americani fossero stati veramente al corrente di un piano simile lo avrebbero impedito?
«Non sa che i servizi degli Stati Uniti hanno fatto esplodere il Nord Stream 2? Che non possono non aver sostenuto attentati terroristici come quello contro Vladlen Tatarsky e Daria Dugina? I servizi americani sostengono questi attentati terroristici».
Quale pensa sarà la reazione di Putin?
«Di sicuro non risponderà vendicandosi contro i civili ucraini: sono futuri cittadini russi».
Giovanni Pigni
Mosca
di Daniele Raineri
la Repubblica
Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco a Mosca nel giro di poche ore: «I combattenti dello Stato islamico hanno attaccato un grande raduno di cristiani nella città di Krasnogorsk, alla periferia della capitale russa, Mosca, uccidendo e ferendo centinaia di persone e causando grande distruzione nel luogo e poi si sono ritirati sani e salvi nelle loro basi». Ma la firma dello Stato islamico era già di fatto nei video che ieri sera arrivavano dall’atrio del teatro Crocus: una squadra di almeno cinque uomini con fucili d’assalto e zaini carichi di munizioni che si muove con rapidità e abbatte civili man mano che li incontra, come in una sequenza infinita di esecuzioni sul posto.
Una classica operazione d’assalto contro passanti inermi fatta da volontari inghimasi, una parola araba che indica i miliziani che si lanciano in una missione e accettano la possibilità di morire, e diventare martiri, ma che non danno per scontato di finire uccisi, almeno non subito. E infatti talvolta riescono a far perdere le proprie tracce, come è successo ieri, e a tornare ai loro nascondigli – da dove ripartiranno per altre operazioni terroristiche fino a quando presto o tardi saranno abbattuti.
È una tattica che si differenzia da quella solita, quella degli attentatori che trasportano esplosivi e si fanno saltare in aria, perché chi la adotta vuole infliggere il più alto numero di perdite possibili in luoghi diversi e così alzare ancora di più il livello di caos e di paura. Vengono in mente il grande attacco a Mumbai del novembre 2008, fatto da squadre di un gruppo pachistano affine per ideologia allo Stato islamico, e gli attacchi multipli a Parigi del novembre 2015 – incluso quello alla sala da concerti Bataclan.
Sul “perché adesso” c’è da fare attenzione. Quando lo Stato islamico a gennaio aveva mandato a farsi esplodere due attentatori a Kerman, in Iran, in mezzo alla folla che celebrava il quarto anniversario dell’uccisione del generale Qassem Suleimani, c’era stata la tentazione immediata di collegare quella strage – morirono 94 persone – alla guerra nella Striscia di Gaza e alla tensione in Medio oriente. Ma il gruppo estremista agisce e ragiona per tempi e categorie suoi, e colpisce per opportunismo: attacca quando può. È da molti anni che lo Stato islamico minaccia Mosca e quando finalmente ha individuato un modo per far arrivare cinque o sei volontari suicidi armati con fucili e munizioni nella capitale russa lo ha sfruttato, senza riguardi per tutto lo scenario attorno, l’invasione in Ucraina, le elezioni russe appena concluse, quelle presidenziali americane a novembre e altro: il jihad si combatte pensando ai decenni, non ai mesi.
Sul “chi”, c’è da notare che il 7 marzo l’Fsb, i servizi di sicurezza russi, avevano ucciso due kazaki del cosiddetto Wilayat Khorasan, la divisione afgana dello Stato islamico conosciuta anche con la sigla inglese Iskp, in un villaggio della regione di Kaluga, poco a Sud di Mosca, perché stavano pianificando un attentato contro una sinagoga. Il giorno stesso l’ambasciata americana e quella britannica avevano emesso comunicati di allerta sulla possibilità di attentati commessi da estremisti a Mosca, anche in sale da concerti: di solito questi avvertimenti nascono da intercettazioni.
È possibile che dopo l’uccisione dei due uomini lo Stato islamico afgano avesse comunicato con un’altra cellula nascosta in Russia e fosse stato ascoltato dai servizi segreti americani. Ieri fonti d’intelligence hanno detto alla rete Cnn che c’erano informazioni «abbastanza specifiche» sin da novembre sul fatto che lo Stato islamico, in particolare la sezione afgana, stesse preparando un attentato contro la Russia. Il Wilayat Khorasan pesca in un vasto serbatoio di reclute che possono viaggiare in territorio russo con facilità. Un canale Telegram vicino ai servizi russi fornisce tre nomi di sospettati provenienti dall’Inguscezia: Gurajev Amirkhan nato nel 1989, Adam Ozdoev del 1987 e Tsuroev Zelimkhan del 2000.
Daniele Raineri
Mosca
di Alberto Simoni
La Stampa
La Casa Bianca subito precisa: non incoraggiamo né diamo le capacità agli ucraini per colpire dentro la Russia. Quando il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale John Kirby precisa «che non ci sono indicazioni che dietro l’attentato ci siano gli ucraini», tocca uno dei tanti nervi scoperti di Mosca. E infatti dal ministero degli Esteri russi giunge subito sia la richiesta di chiarire il perché di tanta sicurezza nel sollevare Kiev da ogni addebito sia quella di condividere le informazioni di intelligence.
Non è una mossa banale, ma ha radici ben connesse con l’allarme diramato il 7 marzo scorso dagli Usa circa possibili attentati in Russia. L’intelligence aveva messo insieme i pezzi di un rompicapo e dettagliato potenziali minacce. In realtà il report in base a cui il Dipartimento di Stato aveva dato l’allerta e invitato gli americani delle sue sedi consolari a stare attenti, era molto dettagliato, parlava «di estremisti in azione e attacchi quasi imminenti per colpire grandi luoghi di ritrovo, inclusi i concerti». Una segnalazione che sembra presagire proprio quanto accaduto nei sobborghi nord occidentali della capitale russa, al Crocus City Hall di Krasnogorsk. Allora le agenzie di intelligence Usa avevano indicato anche in 48 ore l’imminenza di un blitz. E le autorità russe si erano parecchio risentite. Sia la propaganda vicina al Cremlino, sia Putin stesso – in questo caso il 19 marzo – avevano parlato di «ricatto» e di «tentativi americani per destabilizzare la società». Eppure gli Usa avevano avvertito i russi anche sulla natura del pericolo di attacchi da parte dell’Isis-K, ha riferito la Cnn citando fonti informate.
Non è però la prima volta che l’intelligence Usa dipinge con un grado di raffinatezza e precisione cosa accade in Russia. Nelle settimane prima dell’invasione, Washington aveva deciso di pubblicare parte del materiale segreto proprio nel tentativo di smascherare le operazioni russe. E già nel novembre del 2021, quindi tre mesi prima dell’attacco del 24 febbraio, Janet Yellen, forte della convinzione degli 007, aveva comunicato agli alleati del G7 il piano incrementale per l’imposizione delle sanzioni.
La frenata Usa sul ruolo degli ucraini potrebbe quindi poggiare proprio sui report dell’intelligence e avere nella parola «estremisti in azione» – di matrice islamista - la chiave per scagionare eventuali coinvolgimenti di Kiev.
E qui, ragiona un analista vicino al dossier ucraino e veterano della Cia, entriamo in un campo in cui nulla si può escludere in base ad alcuni precedenti anche se la gravità e la dinamica dell’attacco sono proprie di organizzazioni terroristiche della galassia jihadista.
La fiducia Usa nell’Ucraina è alta, tuttavia in due occasioni Washington ha alzato la voce con Kiev.
Il primo riguarda il sabotaggio del Nord Stream 2, il gasdotto che collega la Russia con la Germania attraverso il Baltico. Osteggiato da tutti i leader Usa, con Biden che aveva da subito minacciato – in un incontro con Olaf Scholz a poche settimane dallo scoppio del conflitto in Ucraina i toni erano stati perentori – di «farlo chiudere per sempre», il Nord Stream è stato sabotato da un’azione che si ritiene ormai non orchestrata dal Cremlino; il secondo caso invece è la morte di Darja Dugina, figlia del filosofo e ideologo vicino a Putin, Alexandr Dugin. Fu uccisa in un attentato il 20 agosto del 2022 alle porte di Mosca. L’auto sulla quale doveva salire il padre venne fatta esplodere. A bordo, anziché il bersaglio vero, c’era la figlia. È emerso che erano stati elementi dell’intelligence ucraina a pianificare e portare a termine il raid. Due operazioni su cui, negli ambienti della Cia, ancora si ritiene che Zelensky fosse all’oscuro.
Nel nome di quel mantra – «sostenere Kiev ma evitare l’escalation» – che è stato sinora la cifra della politica di Biden verso il conflitto in Ucraina, Washington ha sempre negato ad esempio armamenti che potevano essere usati per colpire il suolo russo. Come missili a lungo raggio di cui ancora – pur in un momento in cui i fondi sono congelati al Congresso – si discute. Per non parlare degli F16 che Biden andrà al massimo a centellinare.
Quanto scritto ieri dal Financial Times circa il monito Usa a Kiev di non colpire le raffinerie russe, sembra rientrare in questa logica di tentare di mantenere il conflitto circoscritto il più possibile. Anche perché, canali di dialogo a diverso livello, esistono sull’asse Washington-Mosca. E anche se nessuno al momento a Washington pubblicamente parla di vie negoziali o di sbocchi alla crisi prima di vedere i 60 miliardi di aiuti fluire in Ucraina, la convinzione che il conflitto non avrà il netto vincitore sul campo di battaglia è piuttosto radicata. Ora però l’irruzione dell’Isis nella contesa complica gli scenari.
Alberto Simoni
Mosca
di Marco Imarisio
Corriere della Sera
Da una scintilla, l’immane incendio. Nei sussidiari di tanti anni fa, l’immagine di Gavrilo Princip che spara all’arciduca erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando, facendo precipitare il mondo sul piano inclinato che portò alla Prima guerra mondiale, era questa.
Difficile non pensare a quella scintilla guardando le immagini che arrivavano ieri sera da Mosca, con gli attentatori che scelgono come primo bersaglio i senzatetto che dormivano all’addiaccio nella piazza del centro commerciale Crocus, e poi vanno avanti, sparando all’impazzata.
Viviamo tempi orribili, con addosso la sensazione che qualcosa di ancora più brutto possa ben presto accadere. In cuor nostro speriamo che non sia così, operiamo censure su noi stessi, ci illudiamo di non essere davvero sul baratro di un nuovo conflitto globale. Poche settimane fa, dovendo per ragioni di spazio accorciare l’intervista a Grigorij Yavlinski, vecchio navigatore della politica russa, furono tagliate le ultime righe, perché sembravano le meno importanti. Alla domanda su come immaginava il suo Paese dopo le elezioni presidenziali dall’esito scontato, il presidente e fondatore del partito liberale e pacifista Yabloko rispose che nel futuro prossimo temeva tensioni e persino attentati dovuti a motivi religiosi oppure etnici.
Durante quel colloquio, Yavlinski invitò a non sottovalutare un episodio in apparenza minore, nel disastro quotidiano di quest’epoca. Faceva riferimento all’assalto antisemita avvenuto lo scorso 29 ottobre in Daghestan, quando una sessantina di facinorosi tentò di impedire l’atterraggio di un aereo proveniente da Israele. Nel Caucaso sempre più islamico, secondo lui qualcosa si stava risvegliando. Appariva esagerata, la cupezza di quella profezia, soprattutto alla luce della pace interna imposta e mantenuta da Vladimir Putin, che sulla sensazione di tranquillità del suo popolo ci ha costruito la sua ascesa personalistica e autoritaria.
Pochi giorni dopo, arrivarono i dispacci dei Servizi segreti inglesi, che lanciavano un deciso avvertimento sulla eventualità di attentati dopo le elezioni presidenziali. Lo scorso 7 marzo, l’ambasciata americana a Mosca si spinse un passo più avanti, invitando i propri concittadini a lasciare il Paese, e nel caso non potessero farlo, a stare lontani dai grandi assembramenti di folla, come i concerti. Le intelligence straniere avevano intuito che qualcosa di molto brutto poteva accadere. Ma la distanza che divide la Russia dal mondo occidentale si misura anche con un evento terribile come questo. Poco dopo la sua rielezione, Vladimir Putin aveva irriso l’allarme lanciato dagli Usa, definendolo come «un ricatto» e un tentativo dell’Occidente di «intimidire e destabilizzare la nostra società». Il muro della diffidenza e dei sospetti reciproci non è mai stato così alto.
Inutile immaginare chi si celi dietro questo attentato. Se confermata, la rivendicazione dell’Isis sembra quasi il male minore. A questo siamo ridotti. Perché da due anni per la Russia esiste ormai il perfetto capro espiatorio di ogni nefandezza. Non a caso l’Ucraina è stata veloce nel dire che non c’entra nulla. Kiev ha in effetti ben poco da guadagnare da una simile strage. La simpatia e l’appoggio del mondo intero non si guadagnano certo ammazzando vittime innocenti.
Per Putin, si tratta di un duro colpo alla propria immagine. La sua recente campagna elettorale si era basata sulla sicurezza. Io sono l’unica persona che vi può proteggere: è sempre stato questo il suo principale messaggio alla popolazione. Il presidente russo edificò la propria ascesa sulle macerie dei palazzi distrutti dagli attentati alla dinamite che nel settembre del 1999 uccisero 293 persone. Era stato nominato da poco primo ministro. Quelle bombe, della cui paternità si discute ancora oggi, furono ufficialmente attribuite ai ribelli daghestani e ceceni. «Andremo ad ammazzare i terroristi anche al cesso» disse il futuro presidente. Quella frase fece impennare la popolarità di un personaggio politico all’epoca sconosciuto alla maggioranza dei russi, e formò la sua immagine di «uomo forte» alla quale fu fedele anche nei quattro drammatici giorni dell’ottobre 2002, durante il sequestro collettivo al teatro Dubrovka di Mosca. I media russi, a quel tempo ancora liberi di avere una opinione propria, chiedevano una soluzione non cruenta della vicenda. Putin non li ascoltò. Non poteva tradire l’immagine di leader spietato con i nemici che aveva offerto alla sua gente. I 41 guerriglieri del commando ceceno vennero uccisi. Morirono però anche 130 ostaggi, la maggioranza dei quali avvelenati dai gas usati dalle Forze speciali durante l’irruzione.
Purtroppo per lei, la Russia ha una recente tradizione di attentati sul proprio territorio. Anche in tempo di pace. I più recenti sono sempre stati opera di islamisti radicali. Il 29 marzo del 2010, a Mosca esplosero due bombe in altrettante stazioni della metropolitana. Morirono 39 persone. Il 21 agosto dello stesso anno, i servizi russi uccisero in Daghestan l’organizzatore dei due attentati, Magomedali Vagabov. Il 24 gennaio 2011, all’aeroporto Domodedovo, un terrorista dell’Inguscezia si fece esplodere facendo 38 vittime. L’atto venne rivendicato dalla sedicente repubblica islamica dell’Ichkeria (Cecenia e Inguscezia), in risposta alle «persecuzioni dei musulmani in tutto il mondo».
A ogni azione terroristica, è sempre seguita una reazione violenta da parte del Cremlino. Ma è come se l’eterna maledizione del Caucaso riportasse Putin alla casella di partenza della sua storia personale. Forse la guerra non avrà l’ulteriore espansione che il mondo intero teme. Ma non perderà certo di intensità, allontanando ancora di più ogni remota ipotesi di negoziato. Quando è in ambasce, il presidente russo conosce un solo modo per uscirne, e per rinsaldare la sua aura da zar invincibile.
Sangue chiama sempre sangue.
Marco Imarisio


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