Champagne firmato Davide Lacerenza della Gintoneria, ma è tutto ok per il Comité che tutela la denominazione? I dubbi degli esperti...

Lo champagne di Davide Lacerenza (che porta il suo nome) è già diventato un oggetto di culto per i fan dell’ex re delle notti milanesi. Ma non tutti sembrano essere particolarmente entusiasti di questa “trovata” del proprietario della Gintoneria, ora agli arresti domiciliari, accusato di sfruttamento della prostituzione e spaccio di droga. Su Dissapore la giornalista freelance Valentina Dirindin si è chiesta perché il Comitè Champagne, organismo che tutela il suo vino “come se fosse la cosa più preziosa che ha (perché in effetti lo è)” non abbia ancora detto nulla sullo champagne di Davide Lacerenza. “Il buon nome dello Champagne non si tocca, ed è certamente uno dei segreti del suo successo” ha scritto la giornalista, spiegando che gli italiani dovrebbero “prendere spunto” per tutelare le proprie produzioni. E invece? “Ogni tanto qualche soggetto pensa anche di mettere il piede in quelle altrui, come ha fatto Davide Lacerenza con il ‘suo’ champagne”.

Della bottiglia di champagne del proprietario della Gintoneria, con un prezzo che supera i trecento euro, ne abbiamo parlato anche noi di MOW, raccontando di come queste bottiglie siano diventate quasi un oggetto da collezione. E la giornalista si è chiesto: “ma al Comité andrà bene associare il buon nome dello Champagne a quello dell’ex di Stefania Nobile, finito agli arresti per un presunto giro di droga e prostituzione?”. Uno champagne “realizzato con una lunga conservazione sui lievi, periodicamente controllata e degustata” e “realizzato in poco più di mille bottiglie”. L’unica speranza, secondo Valentina Dirindin, “nostra e probabilmente anche del Comité, è che siano effettivamente andate esaurite in fretta”.


Non sapete chi sono gli incel? Benvenuti nella cloaca social tra pillole, emoji e odio per le donne. Il messia Andrew Tate, l'eroe Filippo Turetta e Fuori dal coro di Mario Giordano su Rete 4...

La Tv generalista, come Fuori dal coro stasera su Rete 4 condotto da Mario Giordano, si è finalmente accorta dell’esistenza degli incel, i celibi involontari che incolpano le donne di tutti i loro fallimenti (o almeno di quello più doloroso: la loro vita sessuale). Spoiler: parlarne ora è un po’ tardi, visto che infestano le bacheche altrui — e spesso anche quelle scolastiche — da anni. Altro che sottocultura online. Gli incel sono già qui. E fanno anche scritte sui muri. A Barletta, pochi giorni fa, è apparsa una scritta sul muro di una scuola: “Viva Turetta”. Settantacinque coltellate dedicate all’ex fidanzata, e secondo la magistratura era pure “inesperto”. Siamo messi così. Dopo il successo di Adolescence su Netflix, in cui il giovane protagonista seguiva pedissequamente i precetti incel (acronimo di involuntary celibate), anche la televisione — l’ultima delle sentinelle, la più boomer delle istituzioni — si è finalmente accorta dell’esistenza di questa inquietante sottocultura. La trovavamo nei meandri di Reddit, su 4chan, su Discord. Poi è arrivata nei meme a tema misoginia passivo-aggressiva. E infine si è sdoganato, ha esondato ovunque: su TikTok, nei gruppi WhatsApp e, soprattutto, nella cloaca a cielo aperto per eccellenza: Telegram.

Se mi chiedessero: “Vuoi stare chiusa in una stanza con venti spacciatori o venti incel?” Non avrei dubbi. Con lo spacciatore ci tratti. Con l’incel no. Lui, non sente ragioni. La cosa assurda è che non è nemmeno un fenomeno nato con cattive intenzioni, anzi. Il termine nasce negli anni ’90, coniato da una donna canadese, Alana, che voleva creare un forum di confronto per chi non riusciva a costruire relazioni affettive o sessuali. Era uno spazio di condivisione, non di odio. Poi è arrivato Internet. Quello brutto. Ma brutto per davvero. Il linguaggio si è inasprito, la frustrazione è fiorita, e il dolore ha cominciato a trasformarsi in disprezzo. Verso se stessi, certo. Ma soprattutto verso le donne. Oggi gli incel si definiscono “esclusi dal mercato sessuale” e leggono il mondo come una dinamica a due livelli: da una parte i Chad e le Stacy (gli attraenti e desiderati), dall’altra loro: i grandi incompresi. Nel frattempo l’odio viene impacchettato in formato verticale, imbellettato, e miracolosamente finisce sui feed dei tredicenni. Ovviamente, questo fenomeno esiste anche in Italia, e la narrazione è sempre la stessa: l’uomo manipolato, la donna burattinaia, quelli belli (il famoso 20 per cento) che le seducono tutte. E poi le femministe, le isteriche, il nemico. E il grande esempio? Inutile dirlo: Andrew Tate. Per chi non lo sapesse: ex kickboxer e influencer straordinariamente misogino, arrestato per tratta e sfruttamento della prostituzione. E nonostante un curriculum più da fascicolo penale che da Ted Talk, è diventato l’idolo occulto di migliaia di adolescenti. E non solo.

I suoi video girano sottotitolati, remixati, doppiati, spezzettati e largamente condivisi. Frasi tipo “non dire ti amo”, “le donne devono guadagnarsi il tuo rispetto”, “non devi mai farti mettere i piedi in testa” sono diventate cult. E se non è lui a dirle, ci pensano i suoi cloni italiani: ragazzi che ripetono a pappagallo le stesse cose, con lo stesso tono, spacciando come sempre l’odio travestito da “verità”. Quanta banalità. C’è poi il tema del linguaggio incel, fatto di simbologia nerd (ma non potevano lasciare in pace una nicchia già fin troppo emarginata?) ed emoticon, tipo:
Red Pill (pillola rossa con chiaro riferimento a Matrix): risveglio al “vero mondo”, dove le donne detengono tutto il potere. Ma quando mai?
Black Pill (pillola nera): simbolo di rassegnazione totale, convinzione che nulla si possa cambiare. Comodo per chi non ha voglia di mettersi minimamente in discussione.
100 emoji: per ricordare che l’80% delle donne desidera solo il 20% degli uomini.
Emoji del fagiolo: serve solo per riconoscersi tra “simili”.
È un lessico che si autoalimenta, dentro un ambiente dove la regola è semplice: chi non domina, fallisce. E se fallisci, è colpa loro. Degli altri. Meglio ancora: delle altre. Sempre. I contenuti incel sono ovunque. E giustamente parole come incel o misoginia vengono spesso bannate. Ma basta un hashtag furbo — #truth, #realman, #alphatips — per trovare lo stesso contenuto che ti ripete: “Alle donne importa solo dei soldi”, “se non sei bello o ricco, non hai speranza”,
“tutte ti tradiscono”. La rimozione dei contenuti arriva solo quando scoppia un caso. Altrimenti restano lì, indisturbati, a macinare like e diffondere il verbo del maschio risentito. Quello che non si fa domande, ma distribuisce risposte tossiche come fossero caramelle. Parlando di cose concrete e fuori dai denti, L’Italia ha un problema strutturale con la mascolinità. Un vuoto educativo che non è mai stato colmato, solo coperto da frasi fatte e divieti emozionali. Generazioni intere sono cresciute con la paura di sembrare deboli, il divieto di piangere e l’idea che il rispetto si imponga, non si conquisti. E in questo deserto emotivo, gli incel parlano. E milioni di ragazzini — facilmente condizionabili perché lasciati senza strumenti — li ascoltano, purtroppo.














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