"Mi chiamavo Monia Delpero.
Avevo 19 anni. Una vita davanti.
La sera del 13 dicembre 1989 ho salutato mia mamma e le ho detto: “Torno presto”.
Non sono più tornata.
Ad aspettarmi c’era il mio ex fidanzato. Avevamo avuto una storia breve, sei mesi. Ma per lui non era finita.
Mi ha chiesto un incontro. Dovevo restituirgli delle foto.
Mi fidavo. Avevamo la stessa età. Pensavo che bastasse essere gentili per non morire.
Mi ha strangolata con le sue mani.
Poi mi ha messa in un sacco della spazzatura e mi ha buttata sotto un ponte, a Manerbio, vicino a casa.
Il mio corpo è stato ritrovato tre giorni dopo.
Tre giorni in cui lui partecipava alle ricerche. Faceva finta di preoccuparsi. Di piangere.
Ma sapeva già dov’ero.
Ha confessato. È stato condannato.
10 anni e 8 mesi, ma in carcere ci è rimasto poco più di cinque.
Il giorno del mio funerale era già ai domiciliari.
In carcere ha avuto il tempo di laurearsi.
Poi è uscito, si è sposato, ha avuto due figli. Un maschio e una femmina.
Chissà se un giorno le dirà: “Stai attenta agli uomini come me”.
Non ha mai chiesto scusa.
Nemmeno i suoi genitori, che vivono a pochi chilometri dalla mia mamma.
Mia madre si chiama Gigliola Bono.
Da 36 anni combatte perché la nostra famiglia sia riconosciuta come vittima dello Stato, come lo sono le famiglie delle vittime di mafia o terrorismo.
Ma nel 1989 non c’erano leggi. E oggi che le leggi ci sono, dicono che è “troppo tardi”.
Che la norma non è retroattiva.
Che Monia può aspettare.
Che sua madre può pagare 15 mila euro di spese legali, e aspettare altri 13 mesi perché la Cassazione “ha rinviato d’ufficio”.
Ma io non posso aspettare.
Io non posso più vivere.
E mia madre, da quel giorno, non vive più la sua vita. Vive quella che il mio assassino ha scelto per lei.
Mi chiamavo Monia Delpero
e aspetto giustizia
da 36 anni".
Questo post fa parte di un progetto che si chiama “Era mia figlia” ed è coperto da copyright. Si può condividere riportando il nome dell’autore.
Fonte e immagine di:Irene Vella
FONTE:
Nessun commento:
Posta un commento