TENTO’
DI UCCIDERE IL PADRE TAGLIANDOGLI
LA TESTA CON UNA MANNAIA PERCHÉ 15 ANNI
PRIMA AVEVA UCCISO LA MADRE
Accadde a Mondragone il 15 maggio del 1950
Giovanni Arrichiello,
di anni 21, da Mondragone, arrestato il 15 maggio del 1950 fu accusato di
tentato parricidio aggravato per avere
tentato con una affilata mannaia di uccidere il proprio padre Luigi tagliandogli la testa perché 18
anni prima aveva ucciso la madre Orsola
Pagano con un colpo di pistola mentre questa dormiva nel proprio letto.
Mondragone
–
Il giovane Giovanni Arrichiello, di
anni 21, da Mondragone, arrestato il 15 maggio del 1950, fu accusato di tentato parricidio aggravato, per avere tentato con una affilata mannaia di
uccidere il proprio padre Luigi, tagliandogli la testa perché, 18
anni prima, aveva ucciso la madre Orsola
Pagano con un colpo di pistola, mentre questa dormiva nel proprio letto.
Per detto uxoricidio il “sellaio” di
Mondragone aveva scontato 18 anni di carcere ed era ritornato dopo aver
scontato la pena nella sua città. Con rapporto del 16 maggio del 1950 i
carabinieri di Mondragone aveva segnalato al Procuratore della Repubblica di
Santa Maria Capua Vetere di aver tratto in arresto il giovane Giovanni
Arrichiello e di aver denunciato per tentato parricidio aggravato. I
rappresentanti della Fedelissima segnalavano che, nel pomeriggio del giorno
precedente, mentre il padre era immerso nel sonno aveva tentato di ucciderlo
mediante una affilata mannaia producendogli un squarcio al collo. Egli non
aveva potuto portare a termine il crimine – per sua diretta ammissione – perché
il genitore al contatto con la lama del
freddo arnese, si era svegliato di soprassalto ed aveva lanciato contro
il figlio che stava scappando l’aggeggio maledetto. Nel lanciare la mannaia,
che egli usava nella sua bottega di sellaio di
cavalli, il vecchio si era prodotto
una ferita alla mano. Poi il giovane si era dato a precipitosa fuga. Rintracciato,
però, la sera stessa presso la nonna materna Olimpia Andreozzi, e sottoposto ad interrogatorio aveva dichiarato
che era sua ferma intenzione tagliare la testa al padre per vendicare
l’uccisione della propria madre ad opera
del padre avvenuta 18 anni prima.
L’uxoricidio
che determinò il tentativo di parricidio
Il racconto del giovane,
presso la caserma dei carabinieri, alla presenza del Pretore di Carinola Dr. Vittorio Cameli, fu drammatico. Spesso
interrotto da pianto e disperazione. Suo padre, Luigi Arrichiello, era uscito
dal carcere nel 1949 – dopo aver scontato circa 17 anni di reclusione per aver
ucciso la moglie – e lo aveva più volte minacciato di morte accusandolo di
essere poco amante del lavoro. “Non
ricordo tanto bene – esordì il giovane – l’episodio della morte di mia madre, perché all’epoca ero piccolino, però, pare
fosse una questione di donne; avevano
avuto, nella serata, un violento alterco. Lui la uccise a tradimento, mentre
dormiva con un colpo di rivoltella nell’orecchio. Ha scontato per questo una
pena di circa 20 anni di reclusione. Ritornato a Mondragone dal 24 aprile del
1949 al 3 gennaio del 1951 è stato sottoposto a libertà vigilata per il delitto
di mia madre. Verso mio padre ho sempre nutrito un odio profondo ed ho sempre
progettato di ucciderlo per vendicare
mia madre. Verso le 14 di ieri ho
tentato di uccidere mio padre con una mannaia tagliente da sellaio che serviva
per tagliare il cuoio. Ciò l’ho fatto mentre mio padre dormiva nel suo lettino.
Però dovevo essere leggero perché mio padre al solo contatto con l’arnese – col
quale gli ho prodotto una ferita al collo – subito si è svegliato ed in seguito
a ci8ò mi sono dato alla fuga lasciando
nella stanza l’arnese feritore ma.. mentre tagliavo il collo a mio padre ho
avuto un momento di riflessione e di paura che mi ha costretto a gettare la
mannaia altrimenti gli avrei staccato il
collo. Mio padre non mi ha mai maltrattato ma,
ultimamente, mi ha minacciato di uccidere perché secondo lui io non
facevo si servizi per bene.
Mio figlio è scemo e la madre
meritava la morte
Ma il padre, interrogato, a sua
volta aveva recisamente negato di aver minacciato il proprio figlio ed anzi
aveva precisato che il figlio si era determinato nel commettere il gravissimo gesto
ma che non era normale di mente avendo sofferto da bambino sia il tifo che la
meningite durante il suo ricovero nell’Ospizio dei figli dei carcerati a
Pompei. Nel 1947, aveva precisato ancora il vecchio, il figlio era stato
dimesso dall’ospizio nel 1947 ed era andato a convivere con la nonna. Mio figlio è stato dimesso per “cattiva condotta” dal ricovero figli dei carcerati di Pompei
epoca in cui io ero ancora detenuto per scontare la pena del mio uxoricidio ed
il ragazzo fu affidato a mia madre di 73 anni, che fu da lui spesso malmenata.
Quando sono stato dimesso dal carcere ho impianto bottega a Mondragone
prendendo con me mio figlio per fargli apprendere un lavoro ma egli non aveva
alcuna capacità e disposizione. Di fronte ad un mio benevolo rimprovero per
farlo applicare al lavoro almeno come manovale per potergli far guadagnare
almeno qualcosa per il suo mantenimento. Ma non si è voluto mai piegare. Mai
mio figlio ha manifestato propositi aggressivi nei miei confronti. Solo una
volta, avendo rilevato che era tutto sporco ed avendolo richiamato e scosso per
una spalla egli fece per avventurarmisi contro. Mio figlio durante il ricovero
presso l’Istituto figlie dei carcerati ha sofferto, tra l’altro, di tifo e
meningite. Ritengo che egli sia del tutto incapace di intendere e di volere e
chiedo che si proceda agli opportuni
accertamenti in merito. Prendo visione
della lettera che egli mi ha scritto. La calligrafia è sua, ma il contenuto non è farina del suo sacco.
Chiedo che mio figlio sia ricoverato in un manicomio giudizio essendosi
dimostrato estremamente pericoloso”.
Nei successivi interrogatori -
alla presenza del magistrato inquirente – il giovane si riconobbe colpevole
confermando l’interrogatorio reso ai carabinieri ed al Pretore di Carinola e confermò, inoltre, di
essere deciso a sopprimere il padre, anche perché la sera aveva avuto al sensazione che il
padre fosse stato sul punto di colpirlo con una mannaia alle spalle. Però,
nell’imminenza del processo si era quasi pentito ed aveva fatto arrivare al
padre la lettera di scuse. “Caro Papà, il
carcere è brutto ed ora mi rendo conto di quello che voi avete passato nei 17
anni di carcere. Chiedo perdono per quello che ho fatto… la lettera è a vostro
carico perché non ho i soldi per i francobolli…e mi dovete scusare”. Era una idea ossessiva? Oppure il vecchio
aveva voluto tentato di sopprimere anche il figlio che non gli aveva perdonato
di aver ucciso la madre? Misteri che serrano la mente dei protagonisti.
Assassino
forse… malato di mente… certo
Sui dubbi avanzati dalla parte
lesa sulla sanità mentale dell’imputato,
i magistrati ordinarono una perizia psichiatrica per accertare Lo stato
mentale del giovane. Il responso del perito di ufficio fu che l’imputato era “un deficiente debole mentale in cui era
particolarmente atrofico il settore emotivo sentimentale e prossico”. Un’altra
perizia ordinata dall’autorità giudiziaria aveva accertato che Luigi
Arrichiello in seguito alle ferite riportate nel corso dell’aggre3ssione del
figlio con la mannaia da sellaio era rimasto semi-paralitico ed inabile al
lavoro questo fatto aggravava la posizione giudiziaria del giovane. Nella
perizia espletata dal Prof. Annibale Puca, psichiatra del manicomio
giudiziario di Aversa venne ribadito il
concetto che era “fuor di dubbio che il
ragazzo volesse recedere la testa al padre, tanto è vero che gli aveva
procuratore una lesione lunga sette centimetri e per poco non gli aveva
staccato la testa dal collo”. “Il corpo del reato – sequestrato e mostrato
in dibattimento precisò il prof. Puca - faceva paura solo a guardarlo. La
mannaia, affilatissima, veniva usata da Luigi
Arrichiello, che era nato ad Aversa ma si era trasferito, faceva
il sellaio con bottega alla VIA Vittorio
Emanuele, 336 - di Mondragone. Lui aveva ucciso la moglie Orsola Pagano – per presumibili tradimenti, che, però, non risultarono
nel processo – con un colpo di rivoltella mentre dormiva nel suo letto. Aveva
scontato una condanna a 18 anni che all’origine era stata di anni 26”.
La
condanna fu, con la diminuente del vizio
parziale di mente, alla pena di anni tre di reclusione. La Corte decise inoltre che a pena
espiata venisse ricoverato in una casa
di cura e di custodia per la durata non inferiore di mesi sei.
Chiusa la formale istruttoria,
il 20 luglio del 1951, la Sezione della
Corte di Appello di Napoli lo rinviò al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere per rispondere di tentato parricidio aggravato. Nel corso
del dibattimento vennero ascoltati come testi il padre Luigi Arrichiello, oltre al mar. dei carabinieri, Carmine Calabrese, all’appuntato Biagio Masullo, alla nonna, Olimpia Andreozzi e Raffaele Mele. La difesa fu assunta
dall’ avvocato Vincenzo Fusco, che si battette strenuamente per il
giovane imputato. Nel suo interrogatorio
– nel corso del processo però – l’imputato ritrattò totalmente le sue
precedenti deposizioni affermando questa volta che mai il padre l’aveva
minacciato di morte e che tutto ciò che aveva detto in istruttoria era frutto della sua fantasia malata.
Confermò, però, di aver divisato di staccare la testa al padre per vendicare la
morte della madre ed allorquando si introdusse
nella bottega – ci tenne a precisare -
avevo la ferma intenzione di ucciderlo nel sonno così come lui aveva
fatto con mia madre mentre dormiva nel suo letto con un colpo di pistola alla
testa. “Ma non è escluso – precisò
ancora il giovane – che fui fermato dal
fatto che mio padre si svegliò di soprassalto a contatto con la fredda lama
della mannaia… ma se avessi voluto ucciderlo avrei potuto colpendolo direttamente nel sonno”. Insistette,
infine, e volle rimarcarlo, che lui
“decise all’ultimo momento di non ucciderlo”.
La Corte di Assise (Presidente, Paolo
De Lise; giudice a latere, Victor Ugo de Donato; pubblico
ministero, Pasquale Allegretto; giudici popolari: Giuseppe De Rosa,Vincenzo
Paone, Giseppe Iovane, Gennaro Cervo, Pasquale Auriemma, Gaetano
Rossi e Luciano De Gennaro)
dichiarò Giovanni Arrichiello,
colpevole di lesioni volontarie gravi con arma (così modificando il capo
di accusa che originariamente era di tentato omicidio aggravato) in persona del padre e ritenuta la
equivalenza tra circostanze aggravanti ed attenuanti generiche, lo condannava,
con la diminuente del vizio parziale di mente alla pena di anni tre di
reclusione. Dichiarò, però, il giovane Giovanni Arrichiello, socialmente
pericoloso ed ordinò che – a pena
espiata – venisse ricoverato in una casa di cura e di custodia per la durata
non inferiore di mesi sei.
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