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martedì 9 febbraio 2010

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ARRIVATO NELLA LATRINA D’ITALIA: POGGIOREALE
FUI SCAMBIATO PER UN BOSS E LEGATO CON CATENA E SCHIAVETTONI DI FERRO (ARRUGINITO ) AI POLSI


A questo episodio è legato anche un’altra drammatica esperienza che in breve vi racconto. Di ritorno dal carcere di Secondigliano, arrivai nei corridoi del carcere di Poggioreale verso le ore 14. Non capisco se lo fanno apposta, o è una disposizione ministeriale: ti lasciano ammanettato, per ore, in un cubicolo, dove non c’è nè il cesso ( come loro! ) né un finestrino per l’aria. Solo, stanco, deluso, - col passare delle ore - chiuso in quello stanzino, fui preso dallo scoramento e mi risuonarono alla mente le parole di Enzo Tortora che conoscevo a memoria: ”Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voci che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira indifferente a questa infamia”.

Mi venne di pensare: ”Vuoi vedere che io sono una di quelle pietre?”. Intanto, proprio di fronte a me, sull’unica parete pulita, ( che non fosse imbrattata con frasi oltraggiose contro secondini e magistrati... e tralascio la descrizione dettagliata ), faceva bella mostra di sè un cartello - quasi un aiuto per il carcerato ed un monito per il secondino: “Alla privazione della libertà dell’individuo non deve corrispondere alcuna limitazione della dignità dell’essere umano”. Erano parole. Parole come le pietre di Enzo Tortora.

Divenni nervosissimo, stanchissimo, irritabilissimo, avevo sete e fame, (badate che eravamo nel mese di luglio e che a Secondigliano, appena dopo essere stato interrogato, avevo chiesto dell’acqua, ma quello stronzo del secondino mi aveva risposto che lì l’acqua non era potabile, e che io non ero ospite di un “Grand Hotel” ), dopo aver atteso per un certo tempo incominciai a lagnarmi. Prima sommessamente: “Appuntà.. appuntà…”. Poi, col protrarsi dell’attesa, andai in escandescenze: “Mall’aneme e chivemmuorto”… “Sti grandi figlie è puttane”… “Sti disgraziate… “St’uommene e mmerda”...!”.

Questo è quello che mi ricordo ma penso che mi sfuggì qualcosa di più pesante! Passò ancora un’ora. Nei sotterranei nessuno ti sente. Dalle 14 si erano fatte le 15,30. Continuai a gridare e finalmente venne un insignificante e rozzo secondino ( cafone e analfabeta ) al quale chiesi, in attesa di essere trasferito in cella, almeno la liberazione dei polsi perché gli schiavettoni pesavano e mi facevano male. Sulle prime il secondino non mi degnò neppure di una risposta, ma alla mia insistenza nel puntualizzare: “Ma posso mai scappare se mi togliete gli schiavettoni?”. Ma lo sapete quella faccia di cazzo che cosa mi rispose: ”Perché, quei due, non sono scappati dall’aula bunker?”. Mall’anema dello stronzo, mi paragonò a due boss: Geppino Autorino e Ferdinando Cesarano, scappati dall’aula bunker della Corte di Assise di Salerno, qualche mese prima del mio arresto. Questo perchè nelle carceri e nei tribunali si tende sempre ad appiattire, a generalizzare; un galantuomo o un criminale sono la stessa cosa per tanta gente di merda che lavora nelle carceri e nei tribunali. Si tende sempre, insomma, a fare di tutta l’erba un fascio.

In proposito ha detto bene Enrico Covane nel suo libro - “La mia esperienza di magistrato e avvocato”: “Più singolare appare la determinazione della pena detentiva calcolata fino alle minime frazioni di tempo, alle singole giornate affiancate alle decine di anni, quale ostentata prova di una bilancia infallibile, capace di calibrare anche le sfumature, mentre omette l’intero esame dell’uomo, che ne è il soggetto passivo”.

Molti ricorderanno che per quella clamorosa evasione, ( scavarono una galleria all’interno della gabbia riservata agli imputati che portava direttamente sull’autostrada Napoli-Pompei-Salerno ), ci rimise le penne il questore dell’epoca che era, tra l’altro, un valoroso funzionario di Caserta, il dottor Ermanno Zanforlino. Gigi Di Fiore, nel suo “La camorra e le sue storie”, così descrive la fuga dei due boss: “Era il clan Alfieri, in grado di controllare l’intera area vesuviana e l’entroterra a confine delle province di Salerno e di Avellino, l’organizzazione più estesa. In grado, anche attraverso solide alleanze e feroci gruppi di fuoco, di intrecciare rapporti con politici ed imprenditori. Le collaborazioni con la giustizia di molti esponenti di rilievo di quel clan, di fatto, contribuirono a smantellarlo. Ma, proprio quando quella realtà sembrava diventare recente passato, argomento per analisi storiche, arrivò, nel giugno del 1998, ( un mese prima che io fossi condotto a Poggioreale N.d.A.), la notizia della clamorosa evasione di due pericolosi esponenti del clan Alfieri, finiti in carcere anche per effetto delle dichiarazioni dei pentiti: Geppino Autorino e Ferdinando Cesarano.



( In galera, in galera – 4 Continua )

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