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domenica 24 luglio 2011

LA PREFAZIONE DEL LIBRO "IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE" A CURA DEL CRIMONOLOGO CARMELO LAVORINO

PREFAZIONE


Ferdinando Terlizzi ci racconta un fatto di cronaca nera e il suo iter giudiziario del 1960, una storia criminale di alto effetto emotivo, drammatica e inquietante. “È una materia saggistica che - come diceva Leonardo Sciascia - assume i modi del racconto”.
“Non ci interessano i bei delitti, ma i “casi” i cui moventi restano misteriosi, casi che sfuggono alla psicologia tradizionale e non ci importa quasi nulla dei 1.500 delitti che si consumano ogni anno in Italia - ha spiegato Vittorino Andreoli - ma siamo spaventosamente
attratti da quei 5-6 che sembrano un romanzo. Quelli cioè che ci permettono di giocare con le nostre più segrete paure”. Un “caso”, appunto, quello descritto in questo libro, il cui vero movente resta ancora un mistero, nonostante quattro processi. Un delitto cruento ed eccezionale per il comportamento criminale dell’assassino, privo di pietà e deumanizzante la vittima, con l’esecutore materiale del delitto affranto dal pentimento e schiacciato dalla volontà di espiazione dopo l’azione omicidiaria
e di occultamento del cadavere.
Un caso criminale e giudiziario dai contorni ancora misteriosi, commesso in modo premeditato da un uomo buono e normale, così buono e normale che come lavoro faceva il medico del carcere e lo specialista in malattie della pelle e veneree. Un uomo conosciuto come onesto, probo, di buona famiglia e timorato di Dio, che un giorno decide di oltrepassare il Rubicone della normalità e del confine bene-male. Oggi lo descriverebbero come “il buon vicino
della porta accanto” dalla doppia vita e dalla doppia personalità, che nasconde le depravazioni e il crimine dietro la classica facciata di bigotteria e falso perbenismo, oppure che si è scatenato dopo il classico corto circuito del “raptus” omicida. Quando il suo cervello ha fatto click!
Il medico dona la vita perché la salva, perché la tutela, perché ne cura i nemici naturali: invece, nel libro di Terlizzi, il medico, da uomo normale, si trasforma, d’improvviso, spinto da più motivi, a donatore di morte, eseguendo un progetto criminoso ben definito e organizzato: attira la vittima in un tranello con la scusa di avergli procurato un posto di lavoro, la invita a controllare la ruota della macchina, la colpisce con una sbarra alla testa, gli conficca il punteruolo nel cuore, poi, lo stringe al collo col filo di ferro e  gli lega due mattoni ai piedi, infine lo scaraventa nelle limacciose acque del fiume Volturno, dal Ponte “Annibale”, in agro di Caizzo, nella provincia di Caserta.
La vittima è uno studente di 18 anni, Gianni De Luca, napoletano, che faceva l’indossatore per l’Alta moda. L’assassino reo confesso è “l’uomo normale”
Aurelio Tafuri, 32enne di Santa Capua Vetere. Il movente è sicuramente del tipo passionale, a sfondo sessuale, di gelosia e invidia, di autotutela, punitivo e di vendetta. Ma c’è di più, c’è un “quid” misterioso e invisibile che Terlizzi insegue e alla fine individua.
Sicuramente il movente dell’omicidio è collegato al fatto che vittima e assassino erano ambedue amanti di Anna Maria Novi, una ballerina napoletana di 22 anni, entraîneuse, donna avvenente e spregiudicata, avvezza a giochi erotici, oltre che perdutamente innamorata della bella vita e dei soldi altrui, tanto che era riuscita a spillare ad Aurelio Tafuri fior di milioni. Ma ridurre il tutto al classico delitto del triangolo sessuale è riduttivo, banale ed antistorico: Terlizzi nel suo libro approfondisce anche questo aspetto.
Il movente omicidiario senza ombra di dubbio ha un’altra componente, quella del disturbo mentale, sia esso la schizofrenia incapsulata, come hanno ritenuto gli psichiatri che periziarono l’imputato e assassino reo confesso, sia un disturbo narcisistico di personalità, oppure un disturbo del tipo istrionico o del tipo borderline, o qualcos’altro. Ci sono delitti di passione e delitti di
logica. Il confine che li separa è incerto. È quel confine che Terlizzi definisce “la frontiera invisibile”. Ma si tratta di una follia sfuggente, fredda, lucida, intelligente, organizzata e... logica, perché ogni azione e comportamento dell’assassino può avere diverse spiegazioni, non solo quello di un assassino compulsivo e ossessionato, ma anche quelle del killer pianificatore, dominatore,
che poi diviene preda di altri dominatori e delinquenti. Certamente
l’assassino era capace di intendere e di volere, anche se la capacità volitiva poteva essere stata ottundata dall’odio, dal senso di morte e dalle traversie sessuali-passionali di Aurelio Tafuri; certamente l’assassino ha dimostrato le cosiddette capacità cognitive, organizzative, previsionali, decisionali ed esecutive... ma, come giustamente ipotizza l’autore, non è stata tutta farina del
sacco di Tafuri. Infatti, in molti casi, le costruzioni deliranti degli assassini si reggono su un’evanescente parvenza di logica. Nel libro di Terlizzi si legge e si sospetta molto di più!
Ci sono contorni ancora misteriosi e interrogativi mai risolti: se l’assassino abbia agito da solo o con altri; se abbia caricato sulla propria vita l’enorme peso di responsabilità, complicità e spinte altrui per proteggere i propri complici e/o mandanti; se alle spalle delle attività ammaliatrici della bella Anna Maria Novi possa esserci qualche invisibile suggeritore, spregiudicato regista e diabolico profittatore; se le mani che hanno fracassato la testa del povero De Luca, che gli hanno trafitto il cuore, che gli hanno stretto il collo col filo di ferro, siano state sempre e solo quelle di Tafuri, oppure ce ne siano anche altre!
Come si vede, l’enigma resta tuttora aperto grazie a due persone:
1) Aurelio Tafuri, che si è fatto carico di espiare per tutti, come se volesse appropriarsi di tutti i messaggi d’odio pratico e simbolico scatenatisi contro il corpo della vittima, fracassata al cranio, colpita al cuore, strangolata e annegata;
2) Ferdinando Terlizzi, che ha esplorato tutte le piste, ha proposto ed enunciato un’opera colossale e riproposto il problema di come siano realmente le cose: compito dello storico, del cronista giudiziario e del giornalista investigativo.
“Tutti gli omicidi sono delle autentiche tragedie. Drammi - ha scritto Marino Niola (insegna antropologia culturale all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli) che suscitano un’attenzione morbosa. Non solo perché ci sono delle vittime ma per l’assurda efferatezza del crimine. Per il valore simbolico che certe vicende assumono nell’immaginario collettivo. Per la loro capacità di far balenare dei grumi oscuri dell’essere trasformando un episodio di cronaca nera in una cartina di tornasole che ci rivela inaspettatamente qualcosa di noi. Qualcosa che ci riguarda come individui e soprattutto come società.
È questo lampo improvviso che fa d’un semplice fatto di sangue un dramma collettivo, una rappresentazione pubblica che richiama in questione i fondamenti stessi della vita sociale. E soprattutto li investe in una luce pietosa che ce li fa vedere fino in fondo, nei loro particolari più spaventosi. Proprio quel che faceva lo spettacolo tragico nell’antica Grecia mescolando atrocità e fiction, orrore e mitologia splatter e morale per mostrare alla collettività il suo lato
oscuro. In questo senso oggi l’opinione pubblica si appassiona ai grandi casi giudiziari come gli Ateniesi dell’età di Pericle si interessavano alle sanguinose vicende di Edipo, alla inesorabile crudeltà di Medea, alla interminabile catena di vendette incrociate che decima la stirpe degli Atridi. Infanticidi, parricidi, matricidi, incesti, squartamenti, stupri, cannibalismo. La mitologia antica è
un catalogo completo di archetipi dell’atrocità. Soffrendo, commuovendosi, interrogandosi immedesimandosi in quelle terribili storie, i cittadini della polis cercavano un filo che li aiutasse a orientarsi nelle tenebre dell’essere, a trovare ragioni per ciò che non ha ragione. Per liberarsi da quella quota di male che
è in tutti gli uomini proiettandola sui protagonisti di quelle terribili finzioni che davano un nome e un volto a un’oscurità destinata altrimenti a restare senza nome”.
Ferdinando Terlizzi, infatti, nel suo lavoro evidenzia proprio l’aspetto di cui parla Niola... “Questa è la storia, truce e aberrante, di un delitto che ha coinvolto uno di noi. Uno “normale”, almeno dall’apparenza, travolto, però, da una passione ignominiosa. Un professionista. Una storia nella quale l’assassino avrei potuto essere io, e finire in manette a “S. Francesco”. Oppure uno di voi, la vittima, gettata nei fondali del
Volturno, con il cuore trafitto da un punteruolo, con due mattoni legati ai piedi”.
Certamente Tafuri è un assassino che, nelle sue contraddizioni, menzogne, confessioni e mille verità, ha nascosto i cinque grandi elementi che costituiscono - a livello criminologico e d’investigazione criminale - la struttura interna e segreta del crimine, quei cinque elementi che invece, se ben definiti e collegati, aiutano a comprendere la realtà delle cose:
1) il vero e totale movente dell’uccisione del povero Gianni De Luca, la cui morte, oltre a gratificare psicologicamente Aurelio Tafuri, ha gratificato qualcun altro e sotto altri aspetti;
2) l’obbiettivo principale della sua morte, se solo del tipo emozionale, basato su sentimenti personali, oppure per motivi economici, di gerarchie all’interno d’un gruppo di pervertiti, con qualche collegamento ad attività malavitose di vario genere;
3) se trattasi di un contesto di omicidio di gruppo, oppure in seguito a litigio e scontro fisico, se per motivazioni che vanno oltre il sesso e la fissazione amorosa;
4) come, quando e da chi sia stata organizzata l’intera azione criminosa, anche a livello logistico;
5) il ruolo avuto da diversi personaggi della vicenda che orbitavano tutti attorno alla pietra dello scandalo (Anna Maria Novi): il sarto omosessuale Carlo D’Agostino, il primo amante fisso Egano Lambertini, l’industriale floricoltore Antonio Delle Cave, il noto Dongiovanni e cugino di Aurelio, Giovanni Tafuri: non proprio un convento di educande e chierichetti, dove l’assassino Tafuri era il vaso di coccio fra i vasi di ferro.
Ferdinando Terlizzi, nel sistemare al punto giusto i tasselli dell’intero mosaico della vicenda, si riporta agli atti del processo, all’intera documentazione storica e giornalistica, agli atti d’indagine, poi, da buon giornalista investigativo scava, ipotizza, ricerca, deduce, conclude e pone ulteriori interrogativi.
Scava nei propri ricordi e nel vissuto personale, scatena un’attività di segugio e di ricostruzione degli eventi, dei sentimenti, delle emozioni, dei clamori e del sentito dire.
Lo fa perché è sempre stato un giornalista “ficcanaso” e d’assalto, oltre che attento osservatore dei costumi e del divenire sociale. Lo fa perché è nato a Santa Maria Capua Vetere ed è un profondo conoscitore del territorio, dei luoghi della vicenda e delle relative problematiche processuali e criminali.
Lo fa perché l’omicidio di Gianni De Luca avviene a pochi chilometri dalla sua città, perché l’assassino è di Santa Maria. Lo fa perché conosce gli uffici giudiziari di Santa Maria, i protagonisti legali, gli avvocati, gli investigatori, il tessuto sociale, culturale e giudiziario. Anzi, lui stesso è stato travolto dal “tritacarne” della giustizia, per vicende che lo hanno visto arrestato, processato
e poi assolto!
Addirittura, Terlizzi conosceva l’assassino, il fratello Mario, la madre, il padre, il farmacista Manlio Tafuri. Terlizzi ricorda che quando era giovinetto andava a trovare il proprio padre Raffaele, noto come “Don Raffaele”, proprietario di un negozio di riparazioni radio e televisioni, un negozio che era situato quasi vicino alla farmacia di Don Manlio Tafuri, padre di Aurelio, il futuro protagonista del suo libro. Quelle volte che gli sguardi di Tafuri e Terlizzi si sono incrociati, mai poteva esserci il minimo sospetto, da parte di entrambi, di essere, il primo il futuro protagonista di un crimine e di questo libro, il secondo  l’acuto affabulatore e critico della storia criminale dell’altro.


Quattro sono gli aspetti dell’opera di Terlizzi che mi piace sottolineare:
1) l’abnormità della normalità e la logica illogicità del vissuto e della storia;
2) gli aspetti criminologici e giudiziari affrontati da Terlizzi in chiave moderna, nonostante sia una storia di circa mezzo secolo fa;
3) il fatto che, se all’epoca fossero esistite le indagini difensive e un processo moderno, molto probabilmente sarebbero venuti allo scoperto gli eventuali mandanti e fiancheggiatori del capro espiatorio Aurelio Tafuri;
4) la figura, il comportamento e la personalità di Tafuri.
Primo aspetto. Nel crimine tutto è normale se si parte dal presupposto che siamo fuori dalla normalità, che sono state oltrepassate le soglie della morale comune, delle regole, del vivere sociale, del confine bene-male, delle norme giuridiche. Nella normalità c’è una logica, ma tutto trova una spiegazione logica anche fuori di essa, nel campo della follia, della violenza, dell’aggressività, dell’omicidio, delle perversioni sessuali e del comportamento criminale: il criminale, quando ha deciso di uccidere, si organizza, vive, respira e fantastica solo per l’esecuzione del progetto di morte. La criminologia omicidiaria
è la scienza che studia la codificazione, la disciplina e la classificazione del più grave delitto dell’uomo contro l’uomo, per individuare il colpevole. Per fare questo normalizza, congela, disgela, seziona, analizza, e poi classifica, crea categorie, collegamenti. Laddove Terlizzi ci pone per titolo un paradosso,
cioè, “Il delitto di un uomo normale”, ci ricorda che il crimine è la regola del comportamento umano, e che il buon comportamento invece, rappresenta l’eccezione che domina istinti, passione e pulsioni distruttive; Terlizzi ci ricorda che quando si perdono i freni inibitori, il controllo degli impulsi, il senso della misura dei comportamenti, l’essere umano, “normalmente”, può commettere atti fuori dalle norme giuridiche, etiche e morali, sino ad arrivare
all’omicidio. Anche Lucio Dalla nella sua canzone “Disperato erotico stoung” ci racconta e ci canta “normalmente ho incontrato una puttana... ottimista e di sinistra”, laddove di normale non c’è nulla, tranne che la povertà e il sesso mercenario.
Secondo aspetto. Terlizzi, vecchia volpe del giornalismo investigativo e studioso della criminologia investigativa, interpreta il delitto di 50 anni fa sotto gli aspetti che noi oggi chiamiamo “indicatori del crimine”. Ecco che l’accanimento dell’assassino sulla vittima, prima colpi fracassanti di sbarra alla testa, poi
colpi di certezza omicida, inferti tramite un punteruolo, sino alla cinzione col filo di ferro, divengono “over killing”, cioè, oltre la morte. Un tipo speciale di accanimento verso la vittima con l’intima speranza della distruzione totale, della non resurrezione. C’è un “ma”! Perché Tafuri non ha inferto alcuni colpi di odio e di disprezzo verso i genitali del suo “concorrente”? Perché non ne ha vilipeso il cadavere? I colpi alla testa con la sbarra li ha veramente
inferti lui? Non è che ci siano stati due colpitori, uno per la testa (aggressione proditoria con abilità e coraggio delinquenziali) e l’altro per il cuore (aggressione scientifica)?
Altro indicatore del crimine è la firma dell’assassino nei confronti della vittima: annichilimento, cancellazione e distruzione totali... salvo poi fare i conti con la propria coscienza, confessare ed espiare.
Terzo aspetto. Terlizzi mette il dito sulla piaga, mostrandoci il bicchiere mezzo pieno, pieno dell’oratoria dei dodici difensori dell’imputato e della parte offesa. Ma mezzo vuoto, perché privo delle indagini difensive che, bene o male, di dritto o di rovescio, le parti potevano ben fare, visto che non le fecero gli inquirenti. Su questo preferisco stendere un velo pietoso, perché sono stato contrario, ancora prima di nascere, agli avvocati che basavano tutto sulla famosa arringa fiume, saccente e totalizzante, dimenticando il fatto e le sue componenti logiche e investigative.
Quarto aspetto. Tafuri è il protagonista, nel bene e nel male, del libro di Terlizzi e della vicenda giudiziaria. È stato ed è oggetto di studio e di discussione per le modalità preparatorie, esecutive e post crimine dell’omicidio, per i contorni criminali e per l’humus di perversioni, reati e deviazioni che lo hanno cullato, prodotto e fagocitato. Dalle indagini è emerso che Tafuri non penetrava sessualmente Anna Maria Novi, non certamente per impotenza
erigendi o coeundi, ma solo perché amava masturbarsi, ammirare la sua amata, eccitarsi, guardandola e guardando le sue performances sessuali con altri uomini. Tafuri era sicuramente affetto da voyeurismo, una parafilia che nel suo caso era strumentalmente speculare alle perversioni altrui di essere guardati, mentre si esibivano sessualmente. Tafuri, sicuramente, si era invaghito di una donna “dai facili costumi” che in tutto poteva eccellere, tranne che in fedeltà e attaccamento ai valori etici e
sociali cui egli era stato allevato. Tafuri è stato periziato, sezionato e rivoltato: il lettore, seguendo il cammino proposto nel libro, potrà comprendere lentamente, coordinando le emergenze processuali e scientifiche con le considerazioni di Terlizzi, la personalità di Tafuri, potrà comprendere che realmente l’uomo vive sospeso su un abisso chiamato “altissima probabilità di ammazzare un altro essere umano”, basta che se ne presentino la circostanza e la motivazione pulsionale.
Il libro di Terlizzi è sicuramente uno strumento di studio, di riflessione e di insegnamento per i giovani e per i meno giovani. Propone un caso d’omicidio che si presenta immediatamente per ciò che appare (violenza gratuita, slatentizzazione dell’aggressività maligna e distruttiva, sesso, soldi, depravazioni e perversioni, imbrogli, millanterie, passioni umane, il solito triangolo che poi aumenta di lati, sino a divenire un pentagono), per poi aprire la seconda porta, quella delle verità nascoste, delle vicende processuali, della scienza che investiga, che spiega, che pone quesiti.
Quello che è accaduto a Terlizzi è un classico. Dopo anni di articoli dimenticati (gli articoli esistono per essere dimenticati, tanto che Dostoevskij è rimasto per “I fratelli Karamazov”, non per gli articoli pubblicati su “Epocha” o “Vremja”), il giornalista diventa scrittore e sforna il suo libro con la speranza che almeno quello resti.
L’Autore vuole “lasciare” una tangibile testimonianza con la sua “opera”, vuole, che il suo lavoro serva a istruire i giovani e principalmente a trarre dal succo una morale di vita. Tanto è vero che Terlizzi, a un certo punto, chiosa: “Ritengo doverosa questa pubblicazione, non fosse altro che per lasciare ai giovani uno strumento di studio, di riflessione, di insegnamento. Per trarre,
se possibile, dall’intera vicenda, una morale di vita”. Molti scrittori però si limitano a raccontare la superficialità delle cose, a non approfondire, a non appesantire con le documentazioni processuali. Terlizzi invece, va oltre le apparenze di comodo, va a sbucciare le bucce mai sbucciate, perché ha voluto imparare dalla vita e ha voluto anche ricordarci una preziosa verità e famosa massima di Socrate: “Io so di non sapere”.
A cura di Carmelo Lavorino
Criminologo e Investigatore criminale






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