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lunedì 5 settembre 2011

Il delitto avvenne nei pressi di Caiazzo nel 1960




Aurelio Tafuri medico di S. Maria C.V. fu condannato a 26 anni per omicidio e occultamento di cadavere – Uccise il rivale in amore – Gli diede un colpo alla testa, gli conficcò un punteruolo nel cuore, gli legò 2 mattoni ai piedi e lo getto nel Fiume Volturno dalla scafa di Caiazzo. - Un cast di avvocati di primo piano – Fu definito dai periti uno “schizofrenico”. Scrisse in carcere uno scottante memoriale accusando la madre di avergli negato di sposare una ballerina di cui era innamorato e di avergli proibito di fare il pittore invece che il medico . Era un uomo normale?- Dalla sua vicenda è stato tratto il libro “Il delitto di un uomo normale”… eticamente deviato da una passione ignominiosa”… Il movente? Gelosia? Il Mistero permane…



S. Maria C.V. – Il delitto del dottor Aurelio Tafuri, il medico sammaritano, che confessò di aver ucciso lo studente napoletano Gianni De Luca, che insidiava la sua amante, la ballerina del “Trocadero”, il locale notturno di Napoli, Anna Maria Novi, che ha riempito le prime pagine dei giornali, ci invita a parlare, ancora una volta, del tema, sempre avvincente, della “passionalità” del Sud”. Intendiamoci, il caso del medico di Santa Maria Capua Vetere, non è affatto un delitto passionale classico del Meridione, anzi esso nasconde, nel suo retroscena, moventi che sono perfettamente contrari a quelli che di solito armano la mano ai meridionali: è un delitto capovolto. Mentre l'uomo meridionale, di solito, uccide perché scopre un tradimento, una relazione della moglie al di fuori del matrimonio, qui, ha armato la mano del dottor Tafuri il risentimento che l'indossatrice e il giovane De Luca volessero portare la loro relazione al di fuori del rapporto che essi avevano con lui. Era un perfetto “mènage a trois” che si era improvvisamente frantumato? E’ stata questa la causa del delitto?

Se nel tenebroso caso Tafuri affiorano meccanismi inconsueti ed anomali, vi si rintraccia tuttavia il tratto comune al delitto passionale del Sud: la freddezza. Nelle terre del Mezzogiorno, niente più di un delitto passionale assomiglia ad un meccanismo scientifico, costruito pezzo per pezzo, preordinato nei minimi particolari, eseguito con precisione meticolosa: ciò che rivela un perfetto dominio, un'inesorabile manifestazione di quel controllo che di solito si attribuisce alla educazione nordica (non si usa forse la dizione inglese self control?). E che self control… Durante lo studio e la preparazione del delitto, che può durare dei mesi, se non degli anni, e fino all'istante dell'esecuzione, non un trasalimento, non un passo falso, non un riflesso, negli occhi impenetrabili, della frigida collera che si annida nel petto. Al Sud saranno approssimativi gli orari, gli impegni, gli appuntamenti, gli uffici tecnici, ma non i “delitti d'onore” , veri e propri congegni di precisione.

Il delitto di Aurelio Tafuri è solo l'ultimo d'una serie interminabile in cui balena la fiamma della passione fredda. Le confessioni dell'omicida, le scoperte degli investigatori, rivelano che l'uccisione del giovane Gianni De Luca fu ordita con una meticolosa premeditazione, che seppe nascondere lungamente nel segreto impenetrabile del suo cuore. Quando l'innamorato della sua donna abboccò alla trappola mortale, non ebbe alcun sospetto: si trovò dinanzi un uomo affabile, premuroso; come avrebbe immaginato che Tafuri portava nella macchina il bisturi con il filo di ferro, i mattoni, la sbarra ( era il bracciolo di una sedia che si era procurato un mese addietro da un vagone ferroviario ), l'arsenale della sua distruzione? Del resto il medico di Santa Maria, con un tratto dell'orgoglio spettrale, che spesso affiora in simili circostanze, non rivelò di aver architettato un “delitto perfetto”… non si costruiscono delitti perfetti se non si è lucidi, se non si controllano le passioni.

Nel 1963, a tre anni dal delitto, il processo ebbe inizio presso la Corte di Assise di S. Maria C. .V. Furono impegnati i più grandi avvocati dell’epoca. Per la famiglia Tafuri: Giuseppe Marrocco, Ciro Maffuccini, Alfonso Martucci, Enrico Altavilla e Giuseppe Garofalo. In appello Giovanni Leone. Per la parte civile Alfredo De Marsico, Guido Cortese, Luigi Bagnulo, Luigi Cariota Ferrara e Michele Verzillo. Fu un processo clamoroso. Inviati speciali da ogni dove. Un duello non solo di oratoria, ma anche psichiatrico, con i più importanti professori di psichiatria dell’epoca. Era un delitto dove aleggiava la follia…strano, con un movente singolare: un delitto altruistico.

Aurelio Tafuri, fu accusato d'avere ucciso con “crudeltà” e “premeditazione” , scagliandone il cadavere nel torbido Volturno, il giovanissimo Gianni De Luca, cui egli non poteva perdonare di avergli tolto la bruna e bella indossatrice Annamaria Novi, nota come “Nanà” nell'ambiente della “haute couture” napoletano.

In questo dramma uno dei personaggi principali è la madre del giovane professionista (Tafuri, che nel periodo del processo aveva 32 anni, commise l'atroce delitto a Caiazzo il 9 marzo del 1960), Maria Merola nativa di Curti. Lei – nel corso del processo - ha narrato la lotta combattuta per anni sperando di strappare il figlio a quella torbida passione. Il tutto comincia con un colloquio “nel cuore della notte”, quello della Pasqua 1959. “Ma mio figlio è stato sempre sordo ad ogni mia invocazione e preghiera. Mi diceva che la sua professione non aveva nulla a che vedere con quella donna e che l'amore redime ogni passato. Naturalmente mantenni fermo l'atteggiamento di ostilità assoluta al matrimonio”.

“Il 10 marzo del 1959 – continuò la madre dell’assassino - lo affrontai con energia perché quattro suoi clienti erano stati costretti ad andar via per la terza volta. Volevo richiamarlo all'osservanza dei suoi doveri professionali. E una sera lei, che avverte nel suo istinto come il figlio stia per sprofondare in un baratro in cui lo perderà per sempre, si decide, vincendo il suo pudore di donna, a rivelare al medico un geloso segreto: pochi anni dopo le nozze, quando era nella più ardente età, il marito ( Don Manlio Tafuri un onesto farmacista ) subì una malattia che la rese come vedova. Alludendo al sacrificio sopportato in silenzio, domanda al figlio se crede che un'altra donna potrebbe tenere simile condotta qualora a lui toccasse una disgrazia simile a quella di suo padre?”.

Ignorava, la poveretta, che il figlio soffriva di impotenza, era un voyer, gli piacevano più i ragazzi che le donne, gli piaceva farsi raccontare gli incontri amorosi della “sua”… donna, quella puttana di Annamaria Novi, ballerina a tempo perso della compagnia di Macario… e prostituta ed amante a tempo pieno. Un vero letamaio napoletano quello frequentato da Tafuri, pieno di lenoni, di ruffiani, di omosessuali e di strozzini. Ma lui era “particolare”, pittore di buona levatura, dermatologo affermato, un giorno, ad un suo cliente che si era recato presso il suo studio preoccupato di aver contratto una malattia essendosi fatto sodomizzare dal suo cane, dopo averlo assicurato sul contagio venereo gli disse: “Fai quello che più ti piace fare… tanto il cane non ti giudica”.

E la tragedia si concluse. E' il 10 marzo '60, la mattina dopo il delitto. Tormentata da quella vita, la madre ha uno scatto. ”Basta! Sono stanca! La vogliamo finire!. E lui: “Che sai tu... “. “So che sei pieno di debiti fino alla cima dei capelli”. Il figlio rispose: “Fosse solo questo... ed incalzò: “Pensa ad una cosa più orrenda”. Finché arriva la rivelazione. “Ho ucciso, ma pagherò. Già' questa mattina mi sono recato alle carceri per costituirmi e se il direttore fosse stato libero glielo avrei detto subito”. Infatti il direttore “incaricato”, Alfredo Grieco — che sostituiva il titolare Enrico Matano - credendo che il Tafuri - sanitario della prigione, dovesse parlargli per motivi di servizio, gli aveva chiesto di ritornare.. e lui ritornò e si costituì. .

Le cronache dell’epoca raccontano che “poco prima che fosse annunciata la Corte, l'imputato era stato trasferito nella gabbia. I familiari gli avevano mandato degli abiti stirati di fresco ed egli, con un “completo” grigio azzurro e una cravatta granata, appariva particolarmente elegante. Calmo, ingrassato, con un viso roseo e uno sguardo lievemente ironico mascherato appena dagli occhiali, il dott. Tafuri sembrava del tutto indifferente a quanto si svolgeva intorno a lui. Ignaro che di li a poco sarebbero stati sviscerati fatti scabrosi della sua vita e della sua famiglia. Sarebbe riaffiorato il tentato suicidio della madre, il suo mancato avvelenamento di un altro amante della ballerina, lo sperpero di denaro (si parla di centinaia di milioni degli anni Sessanta ) che buttò sul lastrico la famiglia che fu costretta a cedere l’avviata farmacia di Piazza Mazzini.

La Corte avrebbe dovuto essere presieduta dal consigliere Giovanni Cammarota, dopo la rinuncia fatta dall'abituale presidente Prisco Palmieri, amico della famiglia Tafuri. Ma a causa di un grave lutto del dottor Cammarota, che perse la madre, il processo fu diretto da Giuseppe Sant'Elia. Le funzioni di pubblico ministero non furono svolte — come di regola — da uno dei ”sostituti” della locale Procura, ma da un alto magistrato, Federico Putaturo. Aleggiava lo spettro della legittima suspicione data la notorietà della famiglia Tafuri.

Si aprì il sipario del “Teatro di Giustizia” e il presidente ordinò a “don Peppino” Girardi, il vecchio ufficiale giudiziario, di far venire avanti tutti i 28 testimoni citati dal P.M. Erano assenti il padre del medico, Manlio (il vecchio farmacista) e la madre Maria ed il fratello Mario. Quasi tutti presenti gli altri, fra cui i genitori della vittima, due degli ex amanti di Nanà (l'ing. Egano Lambertini e il direttore di una elegante boutique di fiori, Antonio Delle Cave), due domestici di casa Tafuri, Vincenzina Califano e Lucia Testa, e l'ex amante del medico Anna Maria Novi.



Un grave incidente accadde quando l'ex amante del medico uscì dal palazzo di giustizia. La folla commossa dallo strazio, sia dei genitori della vittima, che di quelli del medico, dal crollo fisico del padre del Tafuri e dalla volontaria clausura di sua madre - la signora Maria Merola Tafuri non usciva più di casa da oltre tre anni - esasperarono la gente contro Nanà. La vettura della “mannequin” venne circondata da una massa che urlava e l'insultava. Il pronto intervento dei carabinieri scongiurò un grave pericolo per la giovane salvandola da un vero tentativo di linciaggio, l'indossatrice salì impassibile su un'auto che si allontanò velocissimamente… La giornata che vide cominciare il processo al medico omicida fu grigia, piovosa, invernale, eppure infuocata per l'ansia con cui la cittadinanza di Santa Maria Capua Vetere visse l'inizio di questa tormentosa vicenda giudiziaria, in cui tutto lo scontro degli avvocati della difesa e della “parte civile” si impernia su un unico punto essenziale: Aurelio Tafuri è un criminale che ha ucciso per passione o un malato di mente travolto da un’antica tara?

Le perizie psichiatriche furono quattro. La prima, ”di ufficio” fu svolta dai professori Cesare Gerin, Mario Gozzano e Lucio Bini, il primo direttore dell'Istituto di medicina legole, il secondo della clinica di malattie mentali c nervose e il terzo primario neurologo degli Ospedali riuniti: tutti della capitale. Essi, analogamente ad altri due professori universitari, Rinaldo Pellegrino da Roma c Pasquale Penta da Napoli (consulenti della “parte civile”) conclusero per la “perfetta capacità di intendere e di volere” del Tafuri. I due consulenti chiamati dalla difesa (Benigno di Tullio e Annibale Puca) lo definirono invece uno ”schizofrenico incapsulato”.

In una “memoria”, che è un “classico” nei processi penali, il Prof. Avv. Enrico Altavilla ( uno dei difensore di Aurelio Tafuri), ricostruì, con la sua eccezionale esperienza nel campo dell'antropologia e della psicopatologia forense, attraverso un'indagine nella parentela, i precedenti ereditari dell'imputato. Nel ramo materno un fratello del bisnonno (Vincenzo Salzillo) e una cugina, Giuseppina Carla De Lconardis, erano morti negli ospedali psichiatrici di Aversa e di Torino. Nel ramo paterno si trovavano altri infermi di mente come gli zii Gaetano e Maria e la cugina Livia. La zia Maria, vivente all’epoca dei fatti, vedova di un possidente di Portici, Andrea Martone, soffriva di cleptomania. Una volta ritirò da una cassetta di sicurezza della banca presso cui erano custoditi dei titoli e dell'argenteria di sua proprietà e fattone un pacco li calò con una corda in un pozzo. Al marito disse che erano stati rubati. Il Martone fece una denunzia ma la banca rivelò che fu la signora a prendere quei valori e venne così scoperta la verità.

Se Aurelio Tafuri ha ucciso e due famiglie ora piangono per due vite distrutte, una fisicamente e l'altra moralmente, ciò lo si deve anche alla ottusa, tenace, colpevole ignoranza ed alla benda di pregiudizi con cui ci si vuol fasciare gli occhi innanzi alla realtà anziché vederla con coraggio morale, battendosi per migliorarla. Il confronto dunque fra la fatale mannequin dai dolcissimi, micidiali occhi e il medico ha questo primo scopo: tentare di stabilire se Aurelio Tafuri è o no sessualmente normale. Perché? Perché una delle tre causali, quella del delitto sessuale (le altre sono l'infermità di mente, totale o parziale, e la gelosia, ipotesi quest'ultima decisamente demolita da una onesta valutazione dei risultati istruttori, pienamente confermati dalle testimonianze di questa prima parte del processo) può essere la chiave della tragedia.

Nelle ultime udienze Aurelio Tafuri preferì rimanersene tranquillo in carcere, curando Gelsomino, un micetto bianco come la neve. “Fra il mìo processo ed il mio gatto preferisco pensare a quest'ultimo”, mandò a dire alla madre tramite l'avv. Giuseppe Marrocco. Un tipo strano, quantomeno singolare… oppure uno “normale”?... come ho scritto nel mio libro: ”Il delitto di un uomo normale”…eticamente deviato da una passione ignominiosa! Questo resterà sempre un mistero che Tafuri porterà nella tomba.

Basterà uno sguardo al fascio delle sue lettere inviate ai familiari dalle varie carceri dove va compiendo quello che egli dice “il giro dell'Italia galeotta” per capire il suo carattere. Oppure leggere i suoi memoriali, per capire la sua “versione” dei fatti e farsi un’idea della sua contorta personalità. E' un diario epistolare del più vivo interesse anche perché offre un quadro profondo e umano dell'ambiente delle nostre prigioni. In una del 10 giugno I960 alla zia Marta, vedova Martone (abita a Portico, nella provincia di Caserta) scriveva: “Anche a te ripeto la solita predica che sto ripetendo da tre mesi: non vi preoccupate, non esagerate, non vi date pensiero, non fate scene-madri, non vi muovete, non vi affannate Sto bene, sono tranquillissimo, vengo trattato bene, la mia salute è ottima, non mi manca niente. Mangio, bevo, leggo e dipingo. Meglio di cosi non si può stare in carcere”. 7 luglio (dello stesso anno), rivolgendosi ai genitori e al fratello: “In effetti, ho esaurito da qualche giorno alcuni tubetti di colore ma non ve li avevo richiesti pensando ad imminenti sviluppi della "la posizione nell'Istruttoria. Sennonché, avendo qualche lavoretto avviato, penso che avrò forse il tempo di terminarlo e vi chiedo un paio di tubetti anzi più di un palo e precisamente uno di bianco zinco, uno di verde smeraldo, un terzo di blu oltremare, un quarto di giallo cromo e un quinto di verde veronese. Niente altro”.

E ancora da Rebibbia (13 aprile '61): “Rebibbia, quarta tappa del mio giro d'Italia galeotta. Cambiamento In meglio: vita semilibera. La perìzia sì farà qui. Niente dì nuovo”. Ancora da Rebibbia (8 dicembre '61): ”Converrete con me, ripensando al motivo per cui sono In carcere, che è giusto che io sia in carcere. Circa poi il periodo di tempo che dovrò rimanervi non vedo proprio come voi possiate preoccuparvi tanto di fronte alla prospettiva che so sia lungo o lunghissimo o senza fine. Per farvi capire meglio con un esempio vi dirò che voi mi sembrate come un pilota che precipita da un aereo ad altissima quota e, nel precipitare si domanda ansiosamente: “Sto precipitando da 5000 o da 2000 metri?”. A me pare una domanda priva di senso perché per quel pilota è sempre lo stesso, che precipiti da dieci mila metri oppure da cento... Io vi dico semplicemente che voi state guardando la mia vicenda da un angolo visuale errato, cioè dall'angolo di chi è trascinato dalla forza tenace del vincolo di sangue e non sente altre ragioni che queste. Viceversa io che mi trovo in una specie di congelamento psico-affettivo sono in grado di guardare la mia storia dall'alto e di valutare bene le dimensioni e le prospettive del tutto, senza che la mia vista venga appannata dalla nebbia degli interessi personali... Perciò: attesa ragionata e fredda. Lasciate che il fiume se ne vada al mare”…

Il medico Aurelio Tafuri raccontò alle Assise di Santa Maria Capua Vetere come egli, la notte del 9 marzo I960, attirò in un tranello il giovanissimo rivale in amore Gianni De Luca, e Io uccise, ponendone poi il corpo nel portabagagli e tenendolo nella vettura finché, dopo aver attraversato città e paesi addormentati nelle province di Napoli e Caserta, lo lanciò nel fiume Volturno, Nell'aula, i volti più pallidi per l'angoscia erano quelli di Vittorio e Guglielma De Luca, i genitori della vittima. Per la prima volta, essi udivano, con particolari finora sconosciuti alla stessa magistratura, come il loro figlio diciottenne venne assassinato. Cominciò dall'appuntamento con Gianni De Luca al bar delle Luci, in piazza Medaglie d'oro, a Napoli. “Malgrado la sua idea di voler sposare Nanà, la mia amica, i nostri rapporti erano ottimi, tanto è vero che egli aderì all'incontro e al viaggio in auto, di sera e in campagna”. E osserva con voce gelida: “Non sospettò nulla”.

“Il motivo apparente della gita - continuò il medico - era di procurare al De Luca a Santa Maria Capua Vetere un appartamentino di cui il giovane aveva urgente bisogno per stabilirvisi con Nana, quando fossero divenuti marito e moglie”. Il dott. Tafuri spiegò che una volta giunti in un posto solitario, egli riuscì a far scendere il De Luca con il pretesto di riparare una gomma. “E' stato detto che era quella destra anteriore. Si trattava invece della posteriore. Quando egli abbassò il capo, essendo sceso anch'io, gli vibrai subito un formidabile colpo al cranio e poi altri due ed altri ancora, con una sbarra di ferro che avevo tenuto pronta per quello scopo, come i mattoni e il filo di ferro già messi nell'auto”. La perizia anatomica chiarì che aveva fatto anche uso di un punteruolo, e che tutte le ferite al torace vennero inflitte dopo gli altri colpi.

“Infatti quando mi accostai al corpo di Gianni per sollevarlo vidi che egli respirava ancora. Fu allora che afferrai il punteruolo e lo colpii. Ma solo per accelerarne la fine. Mi si è rimproverato perché, come medico, avrei dovuto rendermi conto di un fatto: egli aveva già riportato lesioni mortali, con le tempie fracassate. Con quale scopo - mi si è chiesto - insistetti nel pugnalarlo ancora? Ma io agii proprio perché come medico mi rendevo perfettamente conto che le ferite al capo possono determinare una sopravvivenza per un tempo piuttosto notevole. Perché dunque farlo soffrire ancora?”.

Nel silenzio sgomento, l'imputato rievoca la sua corsa in auto con il morto. Si fermò presso il cimitero di Santa Maria Capua Vetere. Là stette un poco innanzi al cancello, guardando le tombe di marmo bianche sotto la luna, nascosto nel cono d'ombra di un cipresso. Poi udì delle voci di soldati da una vicina polveriera e andò via. Passò per Casaluce e si fermò una seconda volta, presso un cantiere edile fra Sant'Antimo ed Aversa. Quindi pensò di liberarsi del cadavere lasciandolo tra i castagneti sulla collina dei Camaldoli, in una stradicciola frequentata da coppiette. Ma non si sentì abbastanza sicuro e abbandonò soltanto la sbarra, che in seguito verrà ritrovata dai carabinieri in una pozzanghera, su sua indicazione.

Durante il ritorno, passando per il quadrivio di Secondigliano, il Tafuri venne fermato dalla polizia stradale. Gli agenti proiettarono i fari delle torce elettriche sul viso del medico e dentro la sua “Giulietta”. Mentre attendeva, pallido, essi gli dissero: ”Lei ha una gomma a terra”. Tafuri ringraziò e assicurò che l'avrebbe fatta riparare subito, all'officina più vicina. Non si accorsero del cadavere di De Luca nel bagagliaio.

Dopo aver confermato la autenticità di un diario che scrisse nel carcere di Poggioreale e in quello di Rebibbia, il dott Tafuri affermò: “Insisto nel dire che Annamaria Novi è estranea alla attuazione e alla premeditazione del delitto. Non gliene parlai mai”. Il Presidente a questo punto chiese “E' vero quello che la Novi ha. détto circa i rapporti avuti con lei? ( la donna aveva dichiarato che Tafuri era un guardone e che non si era mai accoppiato con lei… ma si era solo più volte masturbato, guardando nello specchio il suo culo ). Lui rispose: “Essa mentì nel definirmi solo un protettore. Ne fui anch'io l'amante. Ritengo solo di doverle attribuire in certo modo la responsabilità morale di quanto io ho commesso. Ciò perché tutti i fatti, cioè il suo comportamento, mi convinsero che volesse liberarsi del De Luca. Se invece avesse parlato diversamente, se mi avesse espresso un proposito contrario, ebbene io non avrei compiuto il delitto”.

I periti d'ufficio affermarono che il medico era del tutto normale. Quelli della difesa sostennero il contrario e lo definirono uno “schizofrenico”. Uno di essi, il direttore del manicomio civile di Aversa, disse: “L'imputato non ha mai avuto rapporti con una donna. Per paura di apparire ridicolo, si era inventato due amanti, oltre Nanà”.

La requisitoria del pubblico ministero fu spietata: Ergastolo senza pietà. “Egli – disse tra l’ltro – Tafuri è una specie di ”dottor Jekyll”, un uomo dai due volti e dalle due vite che è vissuto in un ambiente familiare strano, con un padre “abulico, indifferente, chiuso alle confidenze del figlio”, ed una madre “imperiosa”. Secondo il P. M., il responsabile del crimine non fu travolto dalla fatalità, ma volle quello che gli accadde. A questo punto, l'accusatore lesse un breve squarcio del diario in cui il Tafuri, dopo il delitto, ricorda il primo fatale incontro con Nanà: “Tutto era scritto, tutto. Sono stato sempre un fatalista, ma ora sono solo un fatalista. Quella sera, qualcuno, già conscio, avrebbe potuto dirmi: “Ti piace la cenetta? ti piacciono gli amici? ti piace la ragazza? Bene, mangia pure e bevi e corteggia la donna e canta insieme ai posteggiatori'. Vuoi sapere come andrà a finire? Fra due anni, nella squallida stanza di una procura della Repubblica, uno scocciato impiegato riempirà, a macchina, un modulo:“Tafuri Aurelio, imputato di omicidio volontario premeditato aggravato per motivi abietti e per occultamento del cadavere".

Ebbe 4 processi. La Cassazione rinviò alla Corte di Appello di Napoli il quarto giudizio. Difeso da Giovanni Leone fu definitivamente condannato a 22 anni, ma ne scontò meno di 14. Vive a S. Maria ed ha 82 anni. Nonostante la sua cagionevole salute ( una affezione agli occhi) è ancora il più stimato dermatologo della Provincia, con una invidiabile clientela che continua a visitare senza percepire onorari… ma, purtroppo non può più dipingere.





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