Giustizia: processi da chiudere in sei anni, altrimenti scattano gli indennizzi della Legge Pinto |
Condividi di Antonio Ciccia e Cristina Bartelli Italia Oggi, 27 maggio 2012 Sei anni di tempo per finire i processi, compresa la cassazione. L’accelerazione alle cause è disposta dalla bozza di decreto sulla crescita (in dirittura nei prossimi giorni), che fissa le scadenze dei singoli gradi: tre anni per il primo, due per il secondo e uno per la cassazione. Il decreto legge introduce, dunque, il processo breve ai fini del riconoscimento dell’equo compenso da processi lumaca (indennizzi della cosiddetta legge Pinto). Ma per accelerare i processi il provvedimento prevede anche un filtro agli appelli civili. Solo se il giudice ritiene che ci siano chance di accoglimento il secondo grado può andare avanti. In caso contrario il processo di appello non entra nel merito, perché il giudice di appello si limiterà a pronunciare l’inammissibilità dell’impugnazione. Vediamo nel dettaglio le novità. L’obiettivo è di accelerare il entro il quale una sentenza civile diventa definitiva e anche di deflazionare gli uffici giudiziari. Lo strumento scelto dovrebbe disincentivare dal proporre impugnazioni pretestuose e portate avanti solo per perdere tempo. Tecnicamente si aggiunge una valutazione di ammissibilità dell’appello. Non solo il giudice di secondo grado deve vagliare se l’appello è ammissibile o procedibile (si pensi alla verifica se sia stato rispettato il termine per la proposizione dell’appello); dovrà anche fare una prognosi di accoglibilità dell’appello. Se la prognosi sarà favorevole il processo va avanti; se, invece, il giudice valuterà che l’appellante non abbia chance di vincere non si passerà a valutare il merito dell’impugnazione. Quindi, come dice il nuovo articolo 348-bis (ammissibilità all’appello) del codice di procedura civile, l’impugnazione è ammessa dal giudice competente soltanto quando ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Non è previsto, però, alcun filtro in alcune ipotesi: quando l’appello riguarda le cause matrimoniali, di separazione dei coniugi e nelle cause riguardanti lo stato e le capacità delle persone (oltre che nei giudizi in cui è previsto l’intervento del pubblico ministero); nei processi sommari di cognizione. Tra l’altro la mancata ammissione è succintamente motivata ed è ricorribile in cassazione solo in alcuni limitati casi. Il decreto fissa il processo breve ai fini del riconoscimento dell’equo compenso da processi lumaca. Si fissa un limite di durata complessivo del giudizio e si fissano limiti interni. Il calendario è il seguente: tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Insomma il processo deve chiudersi in sei anni. Altrimenti scatta l’indennizzo. Termini specifici sono previsti per il processo di esecuzione (tre anni) e per i fallimenti (sei anni). Il decreto specifica che si considera, comunque, rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Attenzione, però, perché il decreto prevede alcune esclusioni dall’indennizzo a danno di chi abusa delle possibilità che le regole processuali danno di allungare i tempi o per chi ha perso la causa. Tra l’altro nel processo penale l’imputato deve depositare un apposito atto di sollecito, se non vuole perdere il diritto all’indennizzo. Il decreto interviene a fissare la misura dell’indennizzo: da 500 euro a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, eccedenti il termine ragionevole di durata del processo. C’è anche un massimale: l’indennizzo non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice. Infine quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, l’interessato potrà essere condannato al pagamento di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000. Quanto al procedimento è previsto che il provvedimento finale sarà adottato dal presidente della corte d’appello, o un magistrato designato (e non dal collegio). |
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