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martedì 26 giugno 2012

Quei colloqui in sale troppo affollate Condividi Il Mattino di Padova, 26 giugno 2012


Quei colloqui in sale troppo affollate

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Il Mattino di Padova, 26 giugno 2012

Uno degli elementi basilari della rieducazione in carcere è l'agevolazione dei rapporti con la famiglia. I contatti tra detenuti e familiari si fanno attraverso i colloqui visivi in sale affollate, dove mediamente stanno 12 - 15 detenuti e i loro familiari (al massimo tre per volta).
Il tutto si svolge sotto lo sguardo degli agenti. Il numero delle ore complessive mensili è di sei per i detenuti imputati o condannati per reati comuni. Ma quelle sei ore in tanti non riescono a farle tutte, perché può capitare che il detenuto sia trasferito, magari in un carcere lontano da casa. Eppure la legge dice che chi commette reati dovrebbe essere recluso in un carcere vicino a dove vive la sua famiglia, ma la testimonianza di Antonio, che ha la famiglia in Sardegna ma è detenuto a Padova, e quella di sua sorella ci raccontano un'altra realtà.

Visite in carcere sempre un sacrificio

La legge penitenziaria testualmente recita: "Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari". Ma anche se la norma dice così, non sempre ci sono le circostanze favorevoli affinché i detenuti riescano ad incontrare le loro famiglie sei ore al mese. In pratica tutti i colloqui previsti riescono a farli solo quei detenuti che sono ristretti in carceri vicine al luogo dove abita la loro famiglia. Per i familiari venire a fare colloqui è sempre comunque un sacrificio e non da poco, anche per quelli che abitano vicini. Bisogna alzarsi la mattina prestissimo per cucinare qualcosa da portare dentro, poi mettersi in viaggio per arrivare al carcere e una volta lì non è che subito ti fanno entrare, bisogna aspettare che si liberino le sale. Succede in tanti posti che i familiari si presentino davanti al carcere alle quattro del mattino e riescano a entrare nella sala del colloquio alle due o alle tre del pomeriggio.
Al carcere di Napoli Poggioreale, ad esempio, questa è ordinaria amministrazione, perché tutti sperando di fare in fretta arrivano pressappoco alla stessa ora, ma solo una minima parte può entrare ai primi turni, mentre gli altri devono aspettare fino a quando non vengono chiamati. Se i problemi per quelli che abitano vicini sono questi, per quelli che abitano lontano ce ne sono anche altri. Io ho la mia famiglia in Sardegna e ho fatto fino a oggi 22 anni di carcere, buona parte dei quali in istituti fuori della Sardegna, principalmente in Toscana, Campania e qui in Veneto.
Per venire a colloquio i miei familiari devono fare 150 chilometri di strada per andare all'aeroporto, prendere l'aereo e arrivare nell'aeroporto più vicino al carcere. Poi prendere il treno che porta alla città dove c'è il carcere. Arrivati lì bisogna cercare un albergo dove passare la notte e poi il giorno dopo prendere un taxi che li porta al carcere e una volta lì affrontare tutti i problemi di attese snervanti sopra descritti. Infine dopo un'ora o due di colloquio rifare tutta la strada del ritorno. Ogni volta è un sacrificio enorme che porta via almeno due giornate di tempo, senza contare le corse affannose da una parte all'altra e le spese.
L'Ordinamento Penitenziario dice che nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia, in base al principio della "territorialità della pena", il che vuol dire che i condannati dovrebbero espiare la pena nella loro regione, o nella regione più vicina e comunque a non oltre 300 chilometri di distanza dalla residenza della famiglia. Ma in realtà per un grandissimo numero di detenuti questo criterio non viene rispettato. E chi ne fa le spese non siamo solo noi detenuti che qualche colpa sicuramente ce l'abbiamo, ma sono i nostri familiari, che colpe non ne hanno, a pagare il prezzo più alto.

Antonio Floris

La prima volta da mio fratello

La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere, mio fratello aveva 29 anni. Una vita normale da studente universitario, il sogno di diventare veterinario, lo sport sua grande ragione di vita, la montagna, la pesca, gli amici di chiassose serate. Una famiglia semplice come tante. Poi ad un certo punto la strada sbagliata, dalla quale è impossibile tornare indietro e nella quale quell'intelligenza mostrata fin da bambino diventa il peggior nemico.
La nostra prima esperienza col carcere è avvenuta a Badu e Carros a Nuoro. Ma il peggio doveva ancora avvenire: il trasferimento al continente (così noi sardi chiamiamo il resto d'Italia) fu la disperazione per tutti noi. Era già difficile alzarsi all'alba per raggiungere le località della terraferma, figuriamoci varcare il mare! Il nostro paese si trova all'interno e per raggiungere qualsiasi porto si devono fare tre ore di viaggio.
E si è solo al porto di partenza. Tutta la notte su una nave e poi l'intera mattina su un treno che puzza di fumo e sudore, alla fine la corsa in taxi fino al parcheggio del carcere di turno. Una lunghissima attesa, prima che da un posto di guardia leggano il nostro cognome. Dimentichi di aver fame e sete, freddo d'inverno e caldo d'estate, ma conta solo essere arrivati in tempo per il colloquio. Mentre i cancelli si chiudono dietro di noi, tutto diventa reale: le perquisizioni con i metal detector e i guanti usa e getta, le stupide discussioni per quel pane tipico che non vogliono far entrare, il formaggio, e poi c'è qualche etto in più che non si sa proprio da dove si deve togliere.
L'ultimo cancello che ci separa dal resto del mondo si apre, e come in un film appaiono i primi detenuti, pallidi e in fila indiana, e tra essi noti finalmente il viso caro che ti sorride. Il muro che ci separa è alto un metro circa, e non ci permette di scambiarci un vero abbraccio. Sembra quasi normale trovarsi a parlare del più e del meno, a portare i saluti degli amici che sono rimasti, notizie sulla salute dei genitori che invecchiano e dei bambini che crescono. La voce stridula di un agente ripete il nostro cognome e capisci che il tempo è scaduto.
Quel tempo, per il quale hai speso mezzo stipendio e due giorni di viaggio, è terminato. Quante volte avrei voluto piangere e urlare che non costava niente stare lì a chiacchierare ancora; ma quel tempo non era più nostro. Bisognava alzarsi e andare via senza voltarsi indietro per nascondere la sofferenza. Il viaggio di ritorno è il più doloroso. Le valigie vuote, leggere; il cuore troppo pesante anche per ammirare i luoghi bellissimi che di volta in volta attraversi. E così viaggio dopo viaggio il tempo passa e alle volte mi ritrovo a pensare se quella vita l'ho vissuta realmente o me l'hanno solo raccontata. Poi finalmente una mattina di primavera, una telefonata, e quella voce allegra che avevi dimenticato: "Sono fuori... ci hanno portato in gita scolastica...".
La speranza mai perduta torna a galla. Ora potrebbero esserci i primi permessi premio, le prime uscite dal carcere. Prego Dio che qualche persona di buona volontà si interessi a quella vita dimenticata. Quella persona esiste... è caparbia e convincente, tanto da permettere la realizzazione di un diritto, che a me però, piace chiamare "sogno".
La prima volta che ho abbracciato Antonio all'aria aperta, è stato all'Oasi dei Padri Mercedari di Padova, un posto splendido, accogliente e pulito proprio come le persone che lo gestiscono. Dopo tanto tempo, mi sono sentita una sorella normale come tutte le sorelle del mondo, sarà forse per il fatto che lì dentro le persone vengono chiamate per nome e nessuno giudica nessuno.
Antonio ha sette anni più di me. Per tutti questi anni però io sono stata più vecchia di lui per il solo fatto che la mia vita ha continuato a scorrere e la sua ha rallentato la corsa. Sarà stupido, lo so, ma per me lui ha sempre 29 anni. Mi piace pensare che non sia mai invecchiato. Sono pronta a dimenticare tutto il dolore, tutto il tempo inutile passato aspettando una svolta e ora che questo tempo è dietro la porta, lo voglio vivere tutto.

Giovanna, sorella di Antonio

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