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2 agosto 2012 - ore 06:59
Bordin line
Quel titolo di Paese Sera che spiega bene il senso di una grande battaglia civile
Antonio Polcaro era un avellinese trentaquattrenne, vissuto fra il nord Italia e la Svizzera alternando, non per sua scelta, periodi di lavoro a periodi di disoccupazione. Sempre più lunghi questi ultimi. Fino a che Polcaro si ridusse a vivere alla stazione Termini di Roma, dormendo nei treni in sosta. Un giorno le guardie lo videro mentre rubava i gettoni da un telefono pubblico e lo portarono al carcere di Rebibbia. Fu messo in isolamento in attesa del processo per “direttissima”. Ma i superlativi non si addicono alla giustizia italiana e dopo due giorni di isolamento Polcaro si impiccò, utilizzando il suo maglione come cappio. Era il maggio del 1973 e Paese Sera, popolare quotidiano di proprietà del Partito comunista, quel pomeriggio uscì con un titolo a nove colonne: “Rubava gettoni. Si impicca a Rebibbia”.
Ho letto questa storia in un libro recentemente edito da Einaudi “L’aspra stagione” che ricostruisce la vita e la prematura morte di Carlo Rivolta, giornalista bravo e impaziente che tanto non sopportava le ingiustizie da arrivare letteralmente a morirne. E in quell’estate del 1973 scrisse sulle proteste dei familiari dei detenuti di Rebibbia e di Regina Coeli, e sugli scioperi e le rivolte che si svolsero nelle due carceri romane.
Oggi le cabine telefoniche sono modernariato e dei gettoni s’è perso anche il ricordo. Ma i suicidi nelle carceri sono ancora una costante, come le mobilitazioni contro una situazione inaccettabile da parte dei detenuti e dei loro familiari. Invece le rivolte sono confinate nei ricordi, e speriamo che lì restino. La protesta è maturata in denuncia civile, abbandonando gli stilemi degli “anni ribelli” e la pericolosa paccottiglia che si portavano dietro. Al contrario le istituzioni sono rimaste immobili. I rappresentanti del nostro sistema politico continuano a guardare alla questione carceraria con infastidita immobilità, al massimo i migliori fra loro lo fanno con dolente accidia. “Non ci sono le condizioni politiche”, ha ribadito recentemente il migliore e più autorevole fra loro.
Sono passati quarant’anni da quel titolo di Paese Sera e un altro aspetto della questione sembra non essere cambiato. Nel libro che ho citato all’inizio si racconta come quegli articoli del giovane Rivolta non piacquero molto al partito-editore. Non si guadagna in popolarità a occuparsi dei detenuti, questo pensava in fondo il grande partito, osservano i due autori. E raccontano come il giornale comunista della sera coabitasse nello stesso palazzo non solo con l’organo ufficiale del Pci ma con la sua segreteria romana, che per farsi sentire non aveva che da prendere l’ascensore. E naturalmente lo prese. La questione carceraria, già allora esplosa come tema civile, non isolabile emergenza umanitaria perché prodotta da un sistema giudiziario malato, si ridusse così a luogo di confronto fra ribellione violenta e battaglia radicale e non violenta in nome dell’applicazione dello stato di diritto piuttosto che della pratica del diritto alla rivolta. In mezzo, poco altro.
I radicali quella battaglia politica l’hanno vinta ma il risultato è stato, a parte qualche momento, il ritrovarsi soli o poco accompagnati. Ma continuano a pensare che non è detto che occuparsi di carceri non sia popolare. Pensano piuttosto che venga fatta mancare la verifica. Se “Radio carcere” di Radio Radicale raccoglie in dieci giorni trentamila adesioni a uno sciopero della fame, come sarebbe andata se quel programma fosse stato nel palinsesto di Rai Uno? E in ogni caso, anche il peggiore, pensano che potranno dire che, almeno, quel che potevano fare l’hanno fatto. Al contrario di molti altri.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Massimo Bordin
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