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domenica 9 settembre 2012


Accadde a Valle   di Maddaloni il 19 novembre 1958

UN PAZZO DICHIARATO GUARITO TORNATO LIBERO UCCISE UN FARMACISTA DI CASERTA  CON 30 COLPI DI PUGNALE – FU CONDANNATO A VARI ANNI DI MANICOMIO CRIMINALE

     Un pazzo dichiarato guarito tornato libero commise un delitto. Due mesi dopo aver lasciato il manicomio uccise con trenta pugnalate un farmacista di Caserta.  Il medico “dei pazzi”, accusato di omicidio colposo, era già stato assolto, ma dopo l’appello della Sezione Istruttoria dovette subire un altro processo. Cominciamo proprio da questo processo per arrivare poi all’assurdo delitto del pazzo.- Si trattò del  noto psichiatra., il prof. Generoso Colucci,  imputato di omicidio colposo,  perché il 13 settembre 1958 rimise in libertà,  dopo due mesi di ricovero nella sua clinica,  il  giovane  agricoltore, Pasquale Rega, che, trascorsi altri due mesi - precisamente il 19 novembre - uccise con trenta pugnalate il farmacista di Valle di Maddaloni,  il dott. Francesco Pagliaro, che aveva 31 anni e lasciava la moglie Filomena con tre bambini, che  era stato, tra l’altro il suo benefattore,  perché, sollecitato dai genitori e da altri parenti del Rega, aveva provveduto, tramite la mutua dell'associazione dei coltivatori diretti, a far internare il giovane infermo di mente, non in uno dei tanti manicomi,  ma in una clinica della migliore reputazione.
      Il Rega però, come era logico, non gli fu mai grato per questo genere di premura e, nel suo cervello sconvolto dalla mania di persecuzione, e da altre forme morbose, entrò  invece e si ingigantì il convincimento di attribuire  al farmacista tutti i suoi mali. La prova precisa che l'agricoltore era del tutto ammalato fu  data attraverso un particolare rivelato dal perito psichiatrico prof. Carlo Romano, nominato dalla magistratura per un'indagine.
     Si accertò, infatti, che il  giovane soffriva di vari disturbi anche gastrici e per questo motivo gli fu prescritta una cura di iniezioni endovenose che si faceva  praticare  da una suora capo-infermiera nell'ospedale di Maddaloni. A poco a poco il Rega si convinse che la suora, praticandogli le punture, gli avesse iniettato nel sangue un sortilegio o, come si dice qui da noi una “fattura”. Poco dopo però il Rega aggredì senza ragione uno  studente,  tale Ernesto De Lorenzo. Fu allora, in seguito a quell'ennesimo campanello di allarme, che i suoi genitori, Alfonsina e Felice, si rivolsero al farmacista Pagliaro.
     Pasquale Rega entrò nella clinica diretta dal prof. Colucci, uscendone dopo 60 giorni di cure. La diagnosi del dispensario d'igiene mentale di Caserta parlava di “paranoidismo e delirio di nocumento”. Nel dimetterlo, il prof. Colucci dichiarò che il giovane appariva “poco modificato”, rispetto a quando era entrato c doveva essere affidato ai familiari (i parenti della vittima, costituitisi parte civile si chiedevano, infatti,  se appariva “poco modificato” in  rispetto alle condizioni che ne richiesero il ricovero, perché il prof. Colucci lo rilasciò?”.  
     Poco dopo accadde, infatti, la tragedia. Verso l'una di notte del 19 novembre il Rega si recò alla  farmacia, bussò e quando il dottore venne  ad aprirlo gli porse una carta col nome, d'un medicinale: era un pretesto. Mentre l'altro si voltava, egli con un pugnale a lama fissa gli vibrò una tempesta di colpi. Il farmacista cercò di fuggire e uscì sulla via. Per quasi mezzo chilometro durò il tragico inseguimento e durante la corsa con il pazzo alle spalle il farmacista continuò a ricevere pugnalato su pugnalate finché cadde sotto una siepe, ove fu poi ritrovato cadavere.
     La prima sentenza del Giudice Istruttore ordinò il ricovero del Rcga, riconosciuto totalmente infermo di mente, per un minimo di dieci anni in un manicomio giudiziario e assolse con formula piena il prof. Generoso Colucci c i genitori del Rega, che avrebbero forse potuto esercitare su di lui un maggiore controllo. Ma la sezione istruttoria della Corte d'Appello, pur riconfermando la sentenza per il giovane e per i suoi genitori, rinviò a giudizio il clinico difeso dall'avvocato Francesco Saverio Siniscalchi.
     Un anno dopo fu ripreso il processo a carico del prof. Colucci.  L’accusa addebitava al medico la responsabilità per aver dimesso dalla clinica uno che era ancora malato. La storia clinica del Rega cominciò quando, trovandosi in cura presso l'ospedale civile di Maddaloni, dove si recava per delle iniezioni, si convinse di un fatto esistente solo nella sua psiche sconvolta: la suora che quelle “punture” gli faceva - era la capo-infermiera - si era innamorata di lui ed anzi, per legarlo a sé, gli aveva fatto un sortilegio trasfondendogli il suo sangue perché non potasse fuggire più da lei.
     Di ciò parlò al parroco don Alfredo De Lucia e questi preoccupato, cominciò a pensare all'opportunità di avvisare i parenti del giovane perché lo facessero visitare da un psichiatra provvedendo anche ad un periodo di adeguate terapie in qualche casa privata di cura. Per dare  poi al Rega una prova della sua benevolenza nella speranza di calmarlo, il parroco gli fece anche da padrino di cresima. Fu un secondo episodio che convinse i parenti del Rega a provvedere all'internamento.
     Un giorno l'agricoltore, incontrato  casualmente  uno studente,  tale Raffaele Di Lorenzo, senza alcun motivo lo assalì, ferendolo gravemente. Catturato e ricoverato presso il Dispensario di Igiene Mentale di Caserta  fu sottoposto ad una prima diagnosi. Il responso, redatto dal Prof. Annibale Puca  parlava di  “parannidismo e delirio di nocumento”.
     Il padre del Rega, nonostante fosse un agiato possidente, sollecitò l'interessamento del farmacista, Francesco Pagliaro, perché essendo il farmacista “sindaco”, cioè revisore della contabilità della locale sezione della “Coltivatori diretti” - cui egli era iscritto - chiedesse alla Mutua di quell'associazione di assumersi le spese, almeno parziali, del ricovero. Il farmacista si interessò subito e bene della pratica (il che invece seminò un profondo rancore nell'animo del giovane) e cosi Pasquale Rega stette sessanta giorni nella clinica Colucci, in una ridente zona, San Giorgio a Cremano.
     All'atto del rilascio  - come è noto - il prof. Colucci disse che il Rega appariva “poco modificato”  e doveva essere affidato ai parenti. La domanda che  i famigliari della vittima, costituitisi “parte civile” e assistiti dall'avvocato Alfonso Martucci, facevano  ai giudici e allo psichiatra era  precisamente questa: Perché, se il Rega era “poco modificato”, e quindi ancora pericoloso,  perché il direttore della clinica psichiatrica lo rilasciò?”. 
 Il dramma accadde all'una di notte. Pasquale Rega bussò alla farmacia e il dottor Pagliaro gli aprì. L'altro spiegò di aver bisogno di un calmante per dei violenti dolori addominali. Il farmacista si girò per prendere da uno scaffale delle gocce. In quell'istante il pazzo, estratto  un pugnale, lungo diciotto centimetri e a lama fissa -  cioè con una lama che non si piega e quindi servendosi di un'arma che non poteva aver preso se non per quello scopo -  (non era un temperino o un coltello che possono esser tenuti in tasca anche, per esempio, per tagliare il pane o altri usi) - gli vibrò i primi sei colpi. Il farmacista riuscì a fuggire ma l'altro, furente, lo inseguì per oltre mezzo chilometro e ogni tanto, appena lo raggiungeva, lo colpiva con una nuova pugnalata. Ciò continuò finché il farmacista, crivellato di ferite, cadde senza più vita. Venne poi trovato in una cunetta in aperta campagna, lungo un podere appartenente al coltivatore Arturo Penìa.
     L'assassino, ritornato a casa, si cambiò, consegnò alla sorella Anna gl'indumenti madidi di sangue, si lavò e poi se ne sali sul tetto ove venne catturato.  Furono sentiti  dieci testimoni. Le perizie furono  quattro. Una psichiatrica, di ufficio, fu fatta dal prof. Carlo Romano, che definì il Rega “soggetto  socialmente pericoloso”. L'altra, pure psichiatrica, chiesta dai parenti del Rega, fu redatta dal  clinico Mario D'Arrigo. La terza, su incarico dei familiari del farmacista, fu del prof. Pasquale Murino. Queste due consulenze di parte volevano provare, l'una (quella del prof. Murino) che l'omicida non aveva la “totale incapacità di mente”, in modo da evitargli le conseguenze della sua irresponsabilità e trascinarlo in giudizio, e l'altra invece voleva provare l'opposto. La quarta perizia  fu redatta sul cadavere del farmacista.
     Il processo,  celebratosi innanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, vide alla sbarra il noto psichiatra, il professor Generoso Colucci, docente universitario nonché direttore e proprietario di una clinica  - dove esisteva anche uno speciale reparto autorizzato dalla Procura della Repubblica per il ricovero sotto il controllo della Magistratura di ammalati mentali in osservazione o per trascorrervi il cosiddetto periodo di “custodia e di cura”. 
    Gli atti giudiziari dicono che il prof. Generoso Colucci era  imputato  di non aver osservato le disposizioni di Legge manicomiali e  dimesso dalla clinica per infermi di mente Pasquale Rega, ancora bisognevole di cure e di custodia senza la prescritta autorizzazione del tribunale e, comunque, senza averne dato avviso al Procuratore della Repubblica, facendo sì che il predetto Rega, dopo la sua dimissione, essendo affetto dalla mania di persecuzione, avesse modo, una volta lasciato libero delle sue azioni senza alcun controllo, di uccidere il 19 novembre '58 il farmacista di Valle di Maddaloni, Francesco Pagliaro, con numerose coltellate.

 Con la sentenza del 15 luglio 1960, poiché erano stati imputati anche i genitori del Reca, Alfonsina e Felice (in quanto non avrebbero esercitato sul loro figlio  l'adeguato controllo), essi e il prof. Colucci furono prosciolti “con formula piena”.  All’omicida, riconosciuto del tutto infermo di mente, fu inflitto un periodo di ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario “non inferiore ai dieci anni”.
    Senonchè la pubblica accusa si appellò sul fatto che il Rega era stato dimesso  anche essendo ancora pericoloso. La perizia necroscopica, redatta  dal medico legale Achille Canfora accertò  che,  “le trenta coltellate furono prodotte da  persona non in ebbrezza alcoolica”.
    La sentenza,  emessa dalla   Sezione Presieduta dal Dr. Cesare Cammarota,   fu di assoluzione per lo  psichiatra accusato di omicidio colposo  per il delitto del  pazzo in libertà. Nel corso del dibattito, il Tribunale  ascoltò il parere di numerosi illustri periti, ricostruendo la personalità del folle omicida, al fine di stabilire quale responsabilità avrebbe potuto avere il direttore di un manicomio per eventuali gesti che possono essere compiuti dagli ex degenti. Il P.M., nella sua requisitoria, aveva chiesto la condanna del prof. Colucci a un anno di reclusione e al risarcimento dei danni alla famiglia del farmacista, costituitasi, parte civile.  Il Tribunale, accolse invece la tesi della difesa secondo cui il rilascio di un paziente affetto da sindrome paranoica, se accompagnato dagli opportuni avvisi alle autorità di polizia, non può costituire in alcun caso reato.   

Accadde a Caserta  il 17 maggio del 1958

UN DICIOTTENNE  DI CASAGIOVE UCCISE A PUGNALATE LA MADRE CHE  SORPRESE CON L'AMANTE – FERITO IL DRUDO ED UN GIOVANE DEL POSTO

    Uccise a pugnalate la madre che aveva  sorpreso con l'amante dopo averla   pedinata  sfondò l'uscio dell'appartamento dove i due si erano incontrati, furono  feriti anche l'uomo e un giovane che tentò di  disarmarlo. L'assassino fu subito arrestato. Si trattava di un  giovane di 18 anni, Benedetto De Blasi, che  uccise con sette pugnalate la madre, Emanuela Indino, quarantacinquenne, dopo averla sorpresa in compagnia dell'amante, il bracciante agricolo Antimo Moretti, della stessa età della donna.
      La famiglia De Blasi abitava  a  Casagiove, e si componeva  del padre Gaetano, cinquantasettenne, cantoniere dell'Anas, della moglie Emanuela, e di tre figli, Benedetto, Mario e Arturo, i quali due ultimi avevano  rispettivamente 14 e 10 anni. Anche il Moretti era  sposato e aveva  quattro figli.  In quell’anno, Benedetto De Blasi seppe da un amico che il Moretti corteggiava sua madre e che erano stati visti insieme a Caserta. Fu così che egli cominciò a sorvegliare la donna per accertare quanto vi fosse di vero nelle voci, che non erano però ancora giunte a conoscenza del padre. Quella mattina  Emanuela aveva detto al marito che si sarebbe recata a Caserta per fare delle compere al mercato che si tiene appunto ogni sabato in quella città. Così il figlio, senza farsene accorgere, l'aveva  pedinata e, nascostosi sotto un portone, l'aveva vista salire nel palazzo segnato col n. 132 di via San Carlo. Poco dopo, nello stesso stabile, era entrato il Moretti. Allora egli, informatosi, apprendeva che in quell'edificio vi era,  al secondo piano,  una affittacamere, tale  Maria De Caro. Dopo aver fatto passare una ventina di minuti saliva di sopra, ma trovava sull'uscio il figlio della proprietaria, Eligio De Caro. Questi, notatone l'atteggiamento sconvolto, gli chiedeva chi cercasse, ma egli, senza rispondergli, tentava di scostarlo e passare oltre. Se non ché l'altro, avendo intuito che qualcosa di grave stava per accadere, cercava di sbarrargli il passo. Ne nacque una colluttazione finché il De Blasi, non estrasse  un pugnale di cui si era armato, vibrando  alcuni colpi.  Il De Caro, ferito di striscio e terrorizzato, convinto che l'altro lo avrebbe ammazzato, si precipitava per le scale uscendo sulla via sanguinante, invocando aiuto. Prima però di lanciarsi giù aveva chiuso la porta. A questo punto il De Blasi, furente d'ira e dotato d'un fisico erculeo, con una sola spallata spaccava la serratura. Quindi, trovatosi in un corridoio semibuio, rimaneva per un attimo incerto. Udito finalmente un bisbiglio, come un fulmine si avvicinava a una camera e, spalancati con un calcio i battenti, scorgeva la madre e il Moretti in atteggiamento che non lasciava dubbi. Levando il pugno in cui luccicava l'arma, il giovane si avventava sulla donna tempestandola di colpi e, vistala cadere, si scagliava contro l'amante. Anche il Moretti, crivellato di pugnalate, si abbatteva sulle coltri ormai rosse di  sangue. A questo punto il De Blasio, convinto di averli finiti fuggiva, ma nel correre a precipizio cadeva e si feriva con lo stesso pugnale, che teneva sempre in mano pronto ad usarlo contro chi avesse tentato di fermarlo.
     Chiedeva soccorso ad un ragazzo che passava su d'una Lambretta facendosi accompagnare alla clinica ”San Luca”  per farsi medicare. E là, poco più tardi, lo trovò la “Volante” della Questura che fece scattare le manette ai suoi polsi. Nell’immediato interrogatorio da parte degli inquirenti alla ricerca del movente il De Blasio,  con molto sarcasmo,  dopo avere appreso che il Moretti non era morto, dichiarò di avere agito per vendicare il padre ignaro fatto   cornuto. Aggiunse poi,  di essere pienamente soddisfatto dell’uccisione della madre e dispiaciuto di non aver fatto fare la stessa fine all'uomo responsabile di avere rovinato la pace d'una famiglia.
     Sia il De Caro che il Moretti furono  ricoverali all'ospedale. Nei riguardi del secondo i medici, date le numerose e profonde ferite, si  riservarono ogni giudizio.
Accadde ad Aversa il 21 ottobre del 1955

UNA DOMESTICA SPARO’ AD UN GIORNALISTA  CHE VENTI ANNI PRIMA  L'AVEVA SEDOTTA  - UCCISO UN PASSANTE – DUE FERITI

Una domestica sparo’ all'ex principale,   un noto giornalista,   che venti anni prima  l'aveva sedotta.  Fu ucciso un passante, un altro moribondo.  L'uomo che aveva  56 anni fu ridotto  in fin di vita. La vicenda – non nuova nelle nostre zone - traeva origine dal fatto che  la donna era esasperata perché non riceveva aiuto per il figlio quattordicenne. Ecco la cronaca. Una sparatoria l’altra  sera – in pieno centro ad Aversa – seminò  il panico nel corso principale,  funestando i festeggiamenti in onore della Madonna di Casaluce, patrona della città, che vi sì stavano svolgendo con grande concorso di popolo.
     Protagonista del sanguinoso episodio fu una donna di 36 anni, Clotilde Finio, la quale, esasperata  affronto’, pistola in pugno, colui che tanti anni prima  l'aveva sedotta il  dott. Nicola De Angelis, pubblicista, di 56 anni -  sparandogli contro sei colpi di pistola. Uno solo, però,  dei proiettili  ferì il De Angelis che  stette per molti giorni tra  la vita e la morte nel locale ospedale. Nella folle sparatoria rimasero  colpiti due passanti, uno dei quali, Dionigio Saracella, di 54 anni, morì la mattina successiva   all'ospedale dei Pellegrini di Napoli. L'altro passante, Isidoro Perosi di 57 anni, versò  in condizioni disperate. Subito dopo l'aggressione l'ex domestica riuscì a fuggire mescolandosi tra la folla terrorizzata, ma nella notte fu  rintracciata dalla polizia e arrestata.
     Il dramma si trascinava da  circa venti anni prima allorquando  la Finio,  bella ed attraente,  che contava  appena 17 anni, andò a lavorare come domestica in casa del dott. De Angelis. Costui, ancora scapolo, non rimase indifferente alle grazie della ragazza: intrecciò con lei una relazione dalla quale nacque un bimbo. Il ragazzo al momento del delitto aveva 14   anni, si chiamava  Nicola e conviveva con la madre. Però a poco a poco i rapporti tra ì due andarono affievolendosi finché il De Angelis, che non aveva voluto riconoscere il bambino nato dall'illegale relazione, troncò completamente addirittura facendo  licenziare  la Finio e prendendo  moglie.
     La donna non si arrese e non lasciò mai cadere l'occasione di rivolgere minacce al professionista. Negli ultimi tempi, era giunta perfino a ricattarlo. Il De Angelis la denunciò per minacce: il processo, svoltosi qualche mese prima  alla Pretura di Aversa, si concluse con la condanna della Finio a quaranta giorni di reclusione. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e da quel momento la Finio meditò la disperata vendetta che  il giorno della Festa mise in attof.


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