Accadde a Valle di Maddaloni il
19 novembre 1958
UN PAZZO DICHIARATO
GUARITO TORNATO LIBERO UCCISE UN FARMACISTA DI CASERTA CON 30 COLPI DI PUGNALE – FU CONDANNATO A
VARI ANNI DI MANICOMIO CRIMINALE
Un pazzo dichiarato
guarito tornato libero commise un delitto. Due mesi dopo aver lasciato il
manicomio uccise con trenta pugnalate un farmacista di Caserta. Il medico “dei pazzi”, accusato di omicidio
colposo, era già stato assolto, ma dopo l’appello della Sezione Istruttoria dovette
subire un altro processo. Cominciamo proprio da questo processo per arrivare
poi all’assurdo delitto del pazzo.- Si trattò del noto psichiatra., il prof. Generoso Colucci, imputato di omicidio colposo, perché il 13 settembre 1958 rimise in libertà,
dopo due mesi di ricovero nella sua
clinica, il giovane agricoltore, Pasquale Rega, che, trascorsi altri due mesi - precisamente il 19
novembre - uccise con trenta pugnalate il farmacista di Valle di Maddaloni, il dott. Francesco
Pagliaro, che aveva 31 anni e lasciava la moglie Filomena con tre bambini, che era stato, tra l’altro il suo benefattore, perché, sollecitato dai genitori e da altri
parenti del Rega, aveva provveduto, tramite la mutua dell'associazione dei
coltivatori diretti, a far internare il giovane infermo di mente, non in uno
dei tanti manicomi, ma in una clinica
della migliore reputazione.
Il
Rega però, come era logico, non gli fu mai grato per questo genere di premura e,
nel suo cervello sconvolto dalla mania di persecuzione, e da altre forme
morbose, entrò invece e si ingigantì il
convincimento di attribuire al
farmacista tutti i suoi mali. La prova precisa che l'agricoltore era del tutto
ammalato fu data attraverso un
particolare rivelato dal perito psichiatrico prof. Carlo Romano, nominato dalla magistratura per un'indagine.
Si accertò, infatti, che il giovane soffriva di vari disturbi anche
gastrici e per questo motivo gli fu prescritta una cura di iniezioni endovenose
che si faceva praticare da una suora capo-infermiera nell'ospedale di
Maddaloni. A poco a poco il Rega si convinse che la suora, praticandogli le
punture, gli avesse iniettato nel sangue un sortilegio o, come si dice qui da
noi una “fattura”. Poco dopo però il Rega aggredì senza ragione uno studente, tale Ernesto
De Lorenzo. Fu allora, in seguito a quell'ennesimo campanello di allarme,
che i suoi genitori, Alfonsina e Felice, si rivolsero al farmacista
Pagliaro.
Pasquale Rega entrò nella clinica diretta
dal prof. Colucci, uscendone dopo 60 giorni di cure. La diagnosi del
dispensario d'igiene mentale di Caserta parlava di “paranoidismo e delirio di
nocumento”. Nel dimetterlo, il prof. Colucci dichiarò che il giovane appariva
“poco modificato”, rispetto a quando era entrato c doveva essere affidato ai
familiari (i parenti della vittima, costituitisi parte civile si chiedevano,
infatti, se appariva “poco modificato”
in rispetto alle condizioni che ne
richiesero il ricovero, perché il prof. Colucci lo rilasciò?”.
Poco dopo accadde, infatti, la tragedia.
Verso l'una di notte del 19 novembre il Rega si recò alla farmacia, bussò e quando il dottore venne ad aprirlo gli porse una carta col nome, d'un
medicinale: era un pretesto. Mentre l'altro si voltava, egli con un pugnale a
lama fissa gli vibrò una tempesta di colpi. Il farmacista cercò di fuggire e
uscì sulla via. Per quasi mezzo chilometro durò il tragico inseguimento e
durante la corsa con il pazzo alle spalle il farmacista continuò a ricevere
pugnalato su pugnalate finché cadde sotto una siepe, ove fu poi ritrovato
cadavere.
La prima sentenza del Giudice Istruttore
ordinò il ricovero del Rcga, riconosciuto totalmente infermo di mente, per un
minimo di dieci anni in un manicomio giudiziario e assolse con formula piena il
prof. Generoso Colucci c i genitori del Rega, che avrebbero forse potuto
esercitare su di lui un maggiore controllo. Ma la sezione istruttoria della
Corte d'Appello, pur riconfermando la sentenza per il giovane e per i suoi
genitori, rinviò a giudizio il clinico difeso dall'avvocato Francesco Saverio Siniscalchi.
Un anno dopo fu ripreso il processo a
carico del prof. Colucci. L’accusa addebitava al medico la
responsabilità per aver dimesso dalla clinica uno che era ancora malato. La
storia clinica del Rega cominciò quando, trovandosi in cura presso l'ospedale
civile di Maddaloni, dove si recava per delle iniezioni, si convinse di un
fatto esistente solo nella sua psiche sconvolta: la suora che quelle “punture”
gli faceva - era la capo-infermiera - si era innamorata di lui ed anzi, per
legarlo a sé, gli aveva fatto un sortilegio trasfondendogli il suo sangue
perché non potasse fuggire più da lei.
Di ciò parlò al parroco don Alfredo De Lucia e questi preoccupato,
cominciò a pensare all'opportunità di avvisare i parenti del giovane perché lo
facessero visitare da un psichiatra provvedendo anche ad un periodo di adeguate
terapie in qualche casa privata di cura. Per dare poi al Rega una prova della sua benevolenza
nella speranza di calmarlo, il parroco gli fece anche da padrino di cresima. Fu
un secondo episodio che convinse i parenti del Rega a provvedere
all'internamento.
Un giorno l'agricoltore,
incontrato casualmente uno studente, tale Raffaele
Di Lorenzo, senza alcun motivo lo assalì, ferendolo gravemente. Catturato e
ricoverato presso il Dispensario di Igiene Mentale di Caserta fu sottoposto ad una prima diagnosi. Il
responso, redatto dal Prof. Annibale
Puca parlava di “parannidismo e delirio di nocumento”.
Il padre del Rega, nonostante
fosse un agiato possidente, sollecitò l'interessamento del farmacista,
Francesco Pagliaro, perché essendo il farmacista “sindaco”, cioè revisore della
contabilità della locale sezione della “Coltivatori diretti” - cui egli era
iscritto - chiedesse alla Mutua di quell'associazione di assumersi le spese,
almeno parziali, del ricovero. Il farmacista si interessò subito e bene della
pratica (il che invece seminò un profondo rancore nell'animo del giovane) e
cosi Pasquale Rega stette sessanta giorni nella clinica Colucci, in una ridente
zona, San Giorgio a Cremano.
All'atto del rilascio - come è noto - il prof. Colucci disse che il
Rega appariva “poco modificato” e doveva
essere affidato ai parenti. La domanda che i famigliari della vittima, costituitisi
“parte civile” e assistiti dall'avvocato Alfonso
Martucci, facevano ai giudici e allo
psichiatra era precisamente questa: Perché,
se il Rega era “poco modificato”, e quindi ancora pericoloso, perché il direttore della clinica psichiatrica
lo rilasciò?”.
Il dramma accadde all'una di
notte. Pasquale Rega bussò alla farmacia e il dottor Pagliaro gli aprì. L'altro
spiegò di aver bisogno di un calmante per dei violenti dolori addominali. Il
farmacista si girò per prendere da uno scaffale delle gocce. In quell'istante
il pazzo, estratto un pugnale, lungo
diciotto centimetri e a lama fissa - cioè con una lama che non si piega e quindi
servendosi di un'arma che non poteva aver preso se non per quello scopo - (non era un temperino o un coltello che
possono esser tenuti in tasca anche, per esempio, per tagliare il pane o altri
usi) - gli vibrò i primi sei colpi. Il farmacista riuscì a fuggire ma l'altro,
furente, lo inseguì per oltre mezzo chilometro e ogni tanto, appena lo
raggiungeva, lo colpiva con una nuova pugnalata. Ciò continuò finché il
farmacista, crivellato di ferite, cadde senza più vita. Venne poi trovato in
una cunetta in aperta campagna, lungo un podere appartenente al coltivatore Arturo Penìa.
L'assassino, ritornato a
casa, si cambiò, consegnò alla sorella Anna gl'indumenti madidi di sangue, si
lavò e poi se ne sali sul tetto ove venne catturato. Furono sentiti
dieci testimoni. Le perizie furono quattro. Una psichiatrica, di ufficio, fu
fatta dal prof. Carlo Romano, che
definì il Rega “soggetto socialmente pericoloso”.
L'altra, pure psichiatrica, chiesta dai parenti del Rega, fu redatta dal clinico Mario
D'Arrigo. La terza, su incarico dei familiari del farmacista, fu del prof. Pasquale Murino. Queste due consulenze
di parte volevano provare, l'una (quella del prof. Murino) che l'omicida non
aveva la “totale incapacità di mente”, in modo da evitargli le conseguenze
della sua irresponsabilità e trascinarlo in giudizio, e l'altra invece voleva
provare l'opposto. La quarta perizia fu
redatta sul cadavere del farmacista.
Il processo, celebratosi innanzi al Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere, vide alla sbarra il noto psichiatra, il professor Generoso
Colucci, docente universitario nonché direttore e proprietario di una
clinica - dove esisteva anche uno
speciale reparto autorizzato dalla Procura della Repubblica per il ricovero
sotto il controllo della Magistratura di ammalati mentali in osservazione o per
trascorrervi il cosiddetto periodo di “custodia e di cura”.
Gli atti giudiziari dicono
che il prof. Generoso Colucci era imputato
di non aver osservato le disposizioni di Legge manicomiali e dimesso dalla clinica per infermi di mente
Pasquale Rega, ancora bisognevole di cure e di custodia senza la prescritta
autorizzazione del tribunale e, comunque, senza averne dato avviso al Procuratore
della Repubblica, facendo sì che il predetto Rega, dopo la sua dimissione,
essendo affetto dalla mania di persecuzione, avesse modo, una volta lasciato
libero delle sue azioni senza alcun controllo, di uccidere il 19 novembre '58
il farmacista di Valle di Maddaloni, Francesco Pagliaro, con numerose
coltellate.
Con la sentenza del 15 luglio 1960,
poiché erano stati imputati anche i genitori del Reca, Alfonsina e Felice (in
quanto non avrebbero esercitato sul loro figlio l'adeguato controllo), essi e il prof. Colucci
furono prosciolti “con formula piena”.
All’omicida, riconosciuto del tutto infermo di mente, fu inflitto un
periodo di ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario “non inferiore ai
dieci anni”.
Senonchè la pubblica accusa
si appellò sul fatto che il Rega era stato dimesso anche essendo ancora pericoloso. La perizia
necroscopica, redatta dal medico legale Achille Canfora accertò che, “le
trenta coltellate furono prodotte da persona non in ebbrezza alcoolica”.
La sentenza, emessa dalla
Sezione Presieduta dal Dr. Cesare
Cammarota, fu di assoluzione per lo psichiatra accusato di omicidio colposo per il delitto del pazzo in libertà. Nel corso del dibattito, il
Tribunale ascoltò il parere di numerosi
illustri periti, ricostruendo la personalità del folle omicida, al fine di
stabilire quale responsabilità avrebbe potuto avere il direttore di un
manicomio per eventuali gesti che possono essere compiuti dagli ex degenti. Il
P.M., nella sua requisitoria, aveva chiesto la condanna del prof. Colucci a un
anno di reclusione e al risarcimento dei danni alla famiglia del farmacista,
costituitasi, parte civile. Il
Tribunale, accolse invece la tesi della difesa secondo cui il rilascio di un
paziente affetto da sindrome paranoica, se accompagnato dagli opportuni avvisi
alle autorità di polizia, non può costituire in alcun caso reato.
Accadde
a Caserta il 17 maggio del 1958
UN DICIOTTENNE DI CASAGIOVE UCCISE A PUGNALATE LA MADRE
CHE SORPRESE CON L'AMANTE – FERITO IL
DRUDO ED UN GIOVANE DEL POSTO
Uccise a pugnalate la
madre che aveva sorpreso con l'amante
dopo averla pedinata sfondò l'uscio dell'appartamento dove i due
si erano incontrati, furono feriti anche
l'uomo e un giovane che tentò di disarmarlo. L'assassino fu subito arrestato. Si
trattava di un giovane di 18 anni, Benedetto De Blasi, che uccise con sette pugnalate la madre, Emanuela Indino, quarantacinquenne,
dopo averla sorpresa in compagnia dell'amante, il bracciante agricolo Antimo Moretti, della stessa età della
donna.
La famiglia De Blasi abitava a Casagiove, e si componeva del padre Gaetano,
cinquantasettenne, cantoniere dell'Anas, della moglie Emanuela, e di tre figli, Benedetto,
Mario e Arturo, i quali due ultimi avevano rispettivamente 14 e 10 anni. Anche il Moretti
era sposato e aveva quattro figli. In quell’anno, Benedetto De Blasi seppe da un
amico che il Moretti corteggiava sua madre e che erano stati visti insieme a
Caserta. Fu così che egli cominciò a sorvegliare la donna per accertare quanto
vi fosse di vero nelle voci, che non erano però ancora giunte a conoscenza del
padre. Quella mattina Emanuela aveva
detto al marito che si sarebbe recata a Caserta per fare delle compere al
mercato che si tiene appunto ogni sabato in quella città. Così il figlio, senza
farsene accorgere, l'aveva pedinata e,
nascostosi sotto un portone, l'aveva vista salire nel palazzo segnato col n.
132 di via San Carlo. Poco dopo, nello stesso stabile, era entrato il Moretti.
Allora egli, informatosi, apprendeva che in quell'edificio vi era, al secondo piano, una affittacamere, tale Maria De
Caro. Dopo aver fatto passare una ventina di minuti saliva di sopra, ma
trovava sull'uscio il figlio della proprietaria, Eligio De Caro. Questi, notatone l'atteggiamento sconvolto, gli
chiedeva chi cercasse, ma egli, senza rispondergli, tentava di scostarlo e
passare oltre. Se non ché l'altro, avendo intuito che qualcosa di grave stava
per accadere, cercava di sbarrargli il passo. Ne nacque una colluttazione
finché il De Blasi, non estrasse un
pugnale di cui si era armato, vibrando
alcuni colpi. Il De Caro, ferito
di striscio e terrorizzato, convinto che l'altro lo avrebbe ammazzato, si
precipitava per le scale uscendo sulla via sanguinante, invocando aiuto. Prima
però di lanciarsi giù aveva chiuso la porta. A questo punto il De Blasi,
furente d'ira e dotato d'un fisico erculeo, con una sola spallata spaccava la
serratura. Quindi, trovatosi in un corridoio semibuio, rimaneva per un attimo
incerto. Udito finalmente un bisbiglio, come un fulmine si avvicinava a una
camera e, spalancati con un calcio i battenti, scorgeva la madre e il Moretti
in atteggiamento che non lasciava dubbi. Levando il pugno in cui luccicava
l'arma, il giovane si avventava sulla donna tempestandola di colpi e, vistala
cadere, si scagliava contro l'amante. Anche il Moretti, crivellato di
pugnalate, si abbatteva sulle coltri ormai rosse di sangue. A questo punto il De Blasio, convinto di
averli finiti fuggiva, ma nel correre a precipizio cadeva e si feriva con lo
stesso pugnale, che teneva sempre in mano pronto ad usarlo contro chi avesse
tentato di fermarlo.
Chiedeva soccorso ad un ragazzo che
passava su d'una Lambretta facendosi accompagnare alla clinica ”San Luca” per farsi medicare. E là, poco più tardi, lo
trovò la “Volante” della Questura che fece scattare le manette ai suoi polsi.
Nell’immediato interrogatorio da parte degli inquirenti alla ricerca del
movente il De Blasio, con molto sarcasmo,
dopo avere appreso che il Moretti non
era morto, dichiarò di avere agito per vendicare il padre ignaro fatto cornuto. Aggiunse poi, di essere pienamente soddisfatto dell’uccisione
della madre e dispiaciuto di non aver fatto fare la stessa fine all'uomo
responsabile di avere rovinato la pace d'una famiglia.
Sia il De Caro che il Moretti furono ricoverali all'ospedale. Nei riguardi del
secondo i medici, date le numerose e profonde ferite, si riservarono ogni giudizio.
Accadde ad Aversa il 21
ottobre del 1955
UNA
DOMESTICA SPARO’ AD UN GIORNALISTA CHE
VENTI ANNI PRIMA L'AVEVA SEDOTTA - UCCISO UN PASSANTE – DUE FERITI
Una domestica sparo’
all'ex principale, un noto giornalista, che
venti anni prima l'aveva sedotta. Fu ucciso un passante, un altro moribondo. L'uomo che aveva 56 anni fu ridotto in fin di vita. La vicenda – non nuova nelle
nostre zone - traeva origine dal fatto che
la donna era esasperata perché non riceveva aiuto per il figlio quattordicenne.
Ecco la cronaca. Una sparatoria l’altra sera – in pieno centro ad Aversa – seminò il panico nel corso principale, funestando i festeggiamenti in onore della
Madonna di Casaluce, patrona della città, che vi sì stavano svolgendo con
grande concorso di popolo.
Protagonista del sanguinoso episodio fu
una donna di 36 anni, Clotilde Finio,
la quale, esasperata affronto’, pistola
in pugno, colui che tanti anni prima
l'aveva sedotta il dott. Nicola De Angelis, pubblicista, di 56
anni - sparandogli contro sei colpi di
pistola. Uno solo, però, dei proiettili ferì il De Angelis che stette per molti giorni tra la vita e la morte nel locale ospedale. Nella
folle sparatoria rimasero colpiti due
passanti, uno dei quali, Dionigio
Saracella, di 54 anni, morì la mattina successiva all'ospedale dei Pellegrini di Napoli. L'altro
passante, Isidoro Perosi di 57 anni,
versò in condizioni disperate. Subito
dopo l'aggressione l'ex domestica riuscì a fuggire mescolandosi tra la folla
terrorizzata, ma nella notte fu rintracciata dalla polizia e arrestata.
Il dramma si trascinava da circa venti anni prima allorquando la Finio,
bella ed attraente, che contava appena 17 anni, andò a lavorare come domestica
in casa del dott. De Angelis. Costui, ancora scapolo, non rimase indifferente
alle grazie della ragazza: intrecciò con lei una relazione dalla quale nacque
un bimbo. Il ragazzo al momento del delitto aveva 14 anni,
si chiamava Nicola e conviveva con la madre. Però a poco a poco i rapporti tra
ì due andarono affievolendosi finché il De Angelis, che non aveva voluto
riconoscere il bambino nato dall'illegale relazione, troncò completamente
addirittura facendo licenziare la Finio e prendendo moglie.
La donna non si arrese e non lasciò mai
cadere l'occasione di rivolgere minacce al professionista. Negli ultimi tempi, era
giunta perfino a ricattarlo. Il De Angelis la denunciò per minacce: il processo,
svoltosi qualche mese prima alla Pretura
di Aversa, si concluse con la condanna della Finio a quaranta giorni di
reclusione. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e da quel momento la Finio
meditò la disperata vendetta che il
giorno della Festa mise in attof.
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