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lunedì 29 ottobre 2012


I processi in tv vanno evitati:
ma per fermarli non serve una legge
Mario Morcellini
Mario Morcellini
Ci vuole una legge o bastano i codici di autodisciplina per evitare i danni dei processi che la tv organizza, in parallelo a quelli che si svolgono nelle aule giudiziarie? Se non interviene lo Stato si continueranno a vedere massacrate sul video persone che avrebbero il diritto di essere considerate innocenti. Lo dice l’ex presidente della Corte Costituzionale Enzo Cheli. Un altro bavaglio? Forse no, ma il rischio c’è.
Il tema grosso è stato affrontato in un seminario alla Sapienza, organizzato dal professor Mario Morcellini. Nel dibattito, introdotto da Giuseppe De Vergottini, sono intervenuti giuristi e parecchi protagonisti televisivi, chiamati a commentare i primi passi del Comitato che cura l’applicazione del Codice di autoregolamentazione l’organismo costituito dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie in tv.
Secondo Enzo Cheli le raccomandazioni che il Comitato può emanare non bastano. Ci vuole una “efficacia operativa” che un simile organismo non può avere e che solo una legge può garantire. A suo dire solo così è possibile impedire il “parallelismo mediatico”, cioè lo svolgimento di un processo in tv mentre è in corso quello giudiziario, da cui dipende il giusto processo e la vita stessa di una persona.
La maggior parte dei presenti – il centro congressi di via Salaria, a Roma, era gremito – si è detto spaventato e preoccupato dalla prospettiva di una norma di legge (in prima linea Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti e Franco Siddi, Segretario nazionale della Fnsi). Con una classe politica come quella attuale, che non perde occasione (neppure la riforma della diffamazione per salvare dal carcere Alessandro Sallusti) al fine di inventare per i giornalisti bavagli o sanzioni pecuniarie terribili (100.000 euro dice il progetto discusso in Senato) c’è da avere paura.
La strada dunque non è quella. Ma il problema è grave se si pensa a Salvatore Parolisi, al giallo di Avetrana, a quello di Garlasco, a tutte le trasmissioni, insistenti e ripetute, che cercano una giustizia e una verità televisiva prima di conoscere il verdetto dei giudici. “La nostra mission è la cronaca nera e credo che sia nostro dovere vigilare sullo svolgimento del processo, perché anche noi facciamo un servizio pubblico” ha spiegato Salvo Sottile conduttore di Quarto Grado (Retequattro)”. Paolo Liguori (Mediaset) e Alessandro Banfi (Videonews) hanno ricordato quante volte la tv ha scoperto lacune ed errori durante le indagini giudiziarie che, altrimenti, sarebbero passate sotto silenzio. Emma D’Aquino del Tg1 ha raccontato quante volte il cronista si pone problemi di coscienza, ma ha osservato che il tg delle 20 arriva dopo ore e ore di programmi pomeridiani, nei quali spesso il fatto di cronaca è stato a lungo sviscerato. Però, con forza, Massimo Bernardini (Rai tre) ha affermato che “in 25 anni nulla è cambiato e che i codici deontologici hanno fallito”. Opinione contraddetta da Morcellini che ha ricordato come, sia pure fra molte difficoltà, abbia trovato concreta applicazione la Carta di Treviso sulla protezione dei minori.
“Occorrono garanzie sulla presunzione di innocenza” è la tesi di Giorgio Resta (professore di Diritto privato a Bari), mentre Filippo Sgubbi (Ordinario di Diritto penale a Bologna) spiega che il processo deve svolgersi in pubblico, ma che la “piazza mediatica” crea emotività, un sentimento che deve stare lontano dall’ esercizio della funzione giudiziaria. Secondo Rubens Esposito, vicepresidente del Comitato, lo strumento da usare è l’autoregolamentazione, ma è “giusto che anche i giudici si sentano controllati dai media”.. Bisogna proseguire sul terreno dell’autoregolamentazione, ha concluso Mario Morcellini, ed ha anticipato che il Comitato continuerà a confrontarsi con il mondo della cultura e con gli operatori televisivi.

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