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domenica 18 novembre 2012



SPECIALE "SCIENCE FOR PEACE"

La scienza contro l'ergastolo

Rassegna Stampa della 4°Conferenza Mondiale
della Fondazione Veronesi  







Video:  L'ergastolo è antiscientifico e anticostituzionale, di Umberto Veronesi e Carmelo Musumeci


 Rassegna Stampa (Ristretti Orizzonti) MANIFESTO CONTRO L'ERGASTOLO


Perché sostengo che l’ergastolo vada abolito
di Umberto Veronesi
Il dibattito sulla giustizia ci aiuta a delineare la società in cui vorremmo vivere. Per questo abbiamo
voluto mettere al centro della quarta conferenza mondiale Science for Peace che si svolge oggi e
domani a Milano il tema della violenza dei sistemi giudiziari nel mondo e in quest’ambito
sosteniamo la campagna a favore dell’abolizione dell’ergastolo, che riteniamo una forma di pena
antiscientifica e anticostituzionale.
Antiscientifica perché è dimostrato che il nostro cervello ha cellule staminali che possono colmare il
vuoto lasciato dalle cellule cerebrali che scompaiono; quindi, come gli altri organi del corpo, può
rinnovarsi. Questo dato scientifico ha implicazioni importanti per la giustizia perché il carcerato
dopo 20 anni può essere una persona diversa da quando ha commesso il reato. Inoltre l’ergastolo è
anticostituzionale perché contro il principio riabilitativo della nostra Costituzione, che all’articolo
27 recita che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato.
Ma per chi è condannato a morire in carcere, il futuro si consuma nei pochi metri della sua cella, e
senza futuro non ci può essere ravvedimento. Dunque 1’ ergastolo non risponde al bisogno di
giustizia, ma a quello di vendetta, per soddisfare la reazione istintiva ed emotiva dei cittadini. Ma
non risolve il problema reale, che è quello di vivere in un Paese civile e avanzato, in cui la sicurezza
individuale è tutelata da una giustizia equa.
Una giustizia vendicativa e non rieducativa infatti non riduce la criminalità, è un pessimo
insegnamento per i cittadini, e difficilmente porta a un miglioramento nei rapporti umani.
L’abbiamo sperimentato con la pena di morte, da molti considerata una punizione esemplare per
dissuadere i cittadini dall’omicidio. Ma in Italia dopo la soppressione della pena capitale si è
progressivamente ridotto il numero annuale di omicidi fino al livello di 1 caso ogni 100.000
abitanti: il più basso del mondo assieme alla Finlandia.
Del resto non è una novità che la violenza generi nuova violenza: è la conclusione di grandi
pensatori, da Platone a Leonardo da Vinci fino a Gandhi. Oggi la ricerca scientifica avvalora le loro
tesi perché gli studi antropologici e genetici confermano che l’essere umano è biologicamente
portato alla non-violenza e dunque l’aggressività, nelle sue varie forme, è nella maggioranza dei
casi dovuta a cause ambientali, come il disagio sociale o la povertà, o a violenze e abusi subite
durante l’infanzia. Ecco allora che capire, prima di punire, diventa necessario per rimuovere le
cause che sono alla radice dei conflitti e dei comportamenti criminali.
L’Italia è l’unico Paese ad avere introdotto, nel 1992 l’ergastolo ostativo (il fine pena mai) per i
condannati particolarmente pericolosi, come i mafiosi responsabili di omicidi. Possiamo
obiettivamente affermare di avere così ridotto il potere delle mafie? Io credo di no. Allora aboliamo
l’ergastolo e avviciniamoci a una giustizia che possa fare del nostro Paese un modello avanzato di
civiltà.


Il “fine pena mai” è anticostituzionale

Giuliano Pisapia, avvocato e oggi sindaco di Milano, che partecipa all’apertura dei lavori
congressuali di Science for Peace, appassionato studioso di problemi giudiziari fa un’analisi del
sistema giustizia italiano e mette in luce le più gravi storture
Giuliano Pisapia (Milano, 20 maggio 1949) è avvocato, scrittore, eletto deputato per due legislature,
sindaco di Milano dal 1º giugno 2011. Fa parte del Comitato scientifico della Camera penale di
Milano (di cui è stato vicepresidente) e del Comitato direttivo delle riviste Critica del Diritto,
Alternative Europa e I diritti dell'Uomo, oltre che componente del consiglio di amministrazione
della Fondazione Vidas. È coautore dei volumi: San Vittore: voci dal carcere e sul carcere, Milano
1988; Usage de stupéfiants: politiques européennes, Ginevra 1996; Il Diritto e il Rovescio: i
rapporti tra politica e magistratura; Giustizia penale: esiste l'approdo?, 2007.
Che opinione ha dell'ergastolo in relazione ai reati comuni e al regime del 41 bis?
Da un anno e mezzo faccio il sindaco di Milano, ma per molto più tempo ho fatto l’avvocato e
sempre mi sono occupato con passione di diritti e giustizia. Il mio impegno per il superamento nel
nostro ordinamento della pena dell’ergastolo ha, quindi, radici molto lontane nel tempo ed è
stato all’ordine del giorno della mia esperienza da parlamentare, da presidente della Commissione
giustizia della Camera, da presidente del Comitato Carceri della Camera dei deputati e infine da
presidente della Commissione per la riforma del codice penale, che nel 2008 ho avuto l’incarico di
redigere dal governo Prodi. Dalla Commissione ministeriale che era composta da professori
universitari, avvocati e magistrati di altissimo livello è stato approvato un progetto complessivo di
riforma del codice penale in grado di dare al nostro Paese un codice moderno, efficace, efficiente
da sostituire all’attuale codice che, nel suo impianto generale, risale al 1930 e, in più punti, mal si
concilia con i principi e i valori della nostra Costituzione. In quel progetto che è stato presentato in
Parlamento, ma che non ha fatto passi avanti, salvo alcune indicazione recepite in proposte di legge
approvate a larga maggioranza, non solo si prevedevano, finalmente, pene principali diverse da
quelle carcerarie, e quindi irrogate già dai giudici di merito – quali detenzione domiciliare, pene
interdittive, pene prescrittive, messa alla prova anche per imputati maggiorenni, lavori socialmente
utili o finalizzati al risarcimento dei anni eccetera, non prevedeva la pena dell’ergastolo. Non più,
quindi, “fine pena mai” ma un limite massimo di durata della detenzione che poteva però subire
modifiche sulla base delle periodiche verifiche sul grado del reinserimento. In molti Paesi europei, e
non solo europei, l’ergastolo, del resto, non è previsto neppure come ipotesi. Quello che deve essere
chiaro, al di là delle opinioni politiche e personali, è che la nostra Costituzione afferma che la pena
deve tendere alla rieducazione del condannato. E il ‘fine pena mai’ è incompatibile con questo
principio costituzionale. Che cosa ha da perdere chi sa che passerà il resto dei suoi giorni in
detenzione?
Sul 41 bis: la Corte Costituzionale ha, in più occasioni, affermato che i provvedimenti di emergenza
devono avere una durata definita e limitata nel tempo. La finalità del 41 bis, che è quella di evitare
rapporti tra detenuti collegati con associazioni mafiose e criminali ancora in libertà, risponde a una
preoccupazione fondata; non deve però comportare che si finisca con imporre trattamenti degradanti
o contrari al senso di umanità. Non ci possono essere deroghe: la lotta alla criminalità organizzata e
la sicurezza dei cittadini non possono, e non debbono mai, contrastare con i principi costituzionali
che stanno alla base del nostro ordinamento democratico.
Quale potrebbe essere, secondo la sua esperienza, una pena capace di riabilitare e reintegrare un
delinquente nella società?
Credo che una citazione da Cesare Beccaria sia più chiara di qualsiasi altra risposta: quasi
duecentocinquanta anni fa, il grande giurista auspicava ‘una pena pronta, equa, proporzionata’.
E metteva in chiaro una cosa: non è una pena terribile ma incerta ad avere una funzione deterrente,
quanto la certezza della sua applicazione. La pena, qualunque essa sia, deve essere tassativa ed
effettiva. Cosa che oggi non mi pare che accada. Quello che importa, dunque, non è lo spauracchio
di tanti anni di carcere. Il carcere è un’istituzione totale, che facilmente diventa violenta e deve
essere l’ultima ratio mentre, in molti casi, evidentemente per i reati di non grave allarme sociale e
per gran parte dei reati colposi, sono più efficaci, e più immediate, pene diverse da quelle detentive.
Penso, per fare alcuni esempi, a provvedimenti quale il divieto di andare allo stadio per chi si
comporta in maniera minacciosa o violenta o al divieto di costituire società o avere ruoli nella
gestione di una impresa per chi ha commesso reati societari non gravi. Sono queste pene – che
possono essere pecuniarie, interdittive, prescrittive - che, come dimostra l’esperienza di molti
Paesi europei, hanno una effettiva efficacia deterrente, fanno diminuire la recidiva e sono realmente
efficaci. Tutto ciò, naturalmente, non in presenza di reati di sangue o di gravi condotte penalmente
rilevanti.
Quanto la certezza della pena fa da deterrente per un ipotetico delinquente, in relazione anche al
sistema di sconti e riduzioni del sistema giuridico italiano?
C’è un aspetto che mi preme sottolineare, e non è frutto di buonismo, ma è il risultato della lettura
di dati certi: tra coloro che scontano l’intera pena in carcere, il 70 per cento torna a commettere
reati. Significa che sette detenuti su dieci non sono stati affatto ‘rieducati’ e recuperati alla società e
se così tanti, dopo essere usciti dal carcere, ci rientrano, vuol dire che questo, in non pochi casi, non
è il sistema migliore. Ma c’è di più: tra coloro che scontano pene alternative al carcere, il tasso di
recidiva non è superiore al 12 per cento. Tutto questo è la dimostrazione che se davvero si lavora
sui detenuti - consentendo loro di lavorare, non spezzando i legami con la famiglia, legando il loro
comportamento a un sistema premiale – è possibile realizzare quello che auspica l’articolo 27 della
Costituzione.
Che cosa pensa delle condizioni sanitarie delle carceri italiane e degli istituti minorili?
Le condizioni delle carceri sono il segnale di civiltà di un Paese. Se guardiamo alle carceri italiane,
questo rischia di diventare, se non lo è già, un Paese incivile. Anche oggi da sindaco, mi sono molto
impegnato su questo fronte. Con il Consiglio comunale straordinario che abbiamo tenuto nella casa
circondariale di San Vittore lo scorso 5 ottobre, abbiamo voluto dare un forte segnale in questo
senso. Non era mai accaduto che una seduta formale di un consiglio comunale si tenesse dentro un
carcere, ed è stato importante non solo dal punto di vista simbolico. In quella occasione abbiamo
infatti approvato la delibera che istituisce il Garante dei diritti delle persone private della libertà
personale. Abbiamo anche sottolineato i gravi problemi che riguardano gli istituti di pena come il
sovraffollamento, carenze di personale, problemi di salute e aspetti che non rendono dignitosa la
vita dei detenuti. D’altra parte ci tengo a sottolineare il grande lavoro svolto con senso di
responsabilità dai direttori delle carceri e dalla polizia penitenziaria che ogni giorno si trovano a
fronteggiare situazioni particolarmente delicate in una condizione di oggettiva difficoltà.

Stefano Masin



«Ergastolo ostativo? A volte chi non “collabora” non sa o teme per i figli»

Parla la direttrice del carcere di San Vittore di Milano, Gloria Manzelli,
e invita a riflettere sui motivi dell’ergastolo “ostativo” che concede certi i benefici che accorciano la pena solo se il
condannato collabora con la giustizia.
Ha un casco di ricci nerissimi ed è facile al sorriso. L’indole? Basterà dire che è romagnola. Lo
stereotipo qui non mente. Parliamo della direttrice del carcere milanese di San Vittore, la prima
donna su questa sedia, 45 anni, “alta come una cestista”, la descrisse Candido Cannavò, giornalista
sportivo e volontario in piazza Filangieri “al numer do”, l’indirizzo fornito dalle vecchie canzoni
milanesi della mala.
La dottoressa Gloria Manzelli interverrà alla Conferenza mondiale “Science for Peace” il 16
novembre (Università Bocconi, Milano) sul tema dell’ergastolo anche se il suo carcere non prevede
ergastolani se non di passaggio, per periodi di cura. «E anche dopo anni non ci si abitua: quando ti
transita sulla scrivania un fascicolo con la scritta “fine pena: mai” l’impatto emotivo è forte».
Dato il suo ruolo istituzionale, non ci si potrà aspettare da lei un intervento di radicale dissenso -
l’ergastolo ha legittimità costituzionale - , ma, come ci anticipa, più di un invito a riflettere sì.
Intanto spiega perché il suo non è un “carcere a vita”: è denominato “circondariale” in quanto
destinato ad accogliere chi viene arrestato, quindi sono prevalenti i detenuti in attesa di
giudizio, chi deve affrontare particolari cure. A sentenza emessa, le persone vengono spostate a
scontare la pena, breve o perpetua, nelle “carceri di reclusione” come sono, per esempio, qui
intorno, Opera e Bollate.
DUE PENE SENZA FINE - «Esistono due ergastoli», esordisce, suscitando sorpresa, Gloria
Manzelli. «L’ergastolo diciamo “comune” che, nel rispetto del principio costituzionale, consente
l’accesso ai benefici di legge come la semilibertà, la liberazione condizionale, i permessi, ecc., per
cui la perpetuità viene a cadere al massimo dopo 26 anni di pena espiata».
E il “fine pena: mai” vero c’è? «Sì, sono circa un centinaio in Italia. E’ l’ergastolo cosiddetto
“ostativo”, quello che resta operante in quanto c’è qualcosa che “osta” alla concessione dei benefici
di legge. Riguarda reati gravissimi per cui, per concedere benefici, la legge richiede la piena
collaborazione con la giustizia: che si racconti tutto e si facciano i nomi dei complici».
IL SILENZIO DI CHI NON SA - Già, lo Stato con la collaborazione, il cosiddetto “pentimento”,
cerca la sicurezza sociale e la prevenzione di altri delitti. «Vero e giusto», riprende la dottoressa
Manzelli, «ma attenzione: ci sono alcuni che non conoscono davvero ulteriori risvolti, per la
posizione marginale che avevano nel gruppo criminale non hanno niente di più da dire. Poi ci sono
quelli che temono per la loro famiglia, hanno paura della vendetta dei complici ancora liberi sui
figli e parenti: non tacciono, dunque, per cattiva volontà. Occorre riflettere su questi casi,
sull’esigibilità della collaborazione. Questa legge sull’ergastolo ostativo è nata in un momento di
forte allarme sociale, dei tanti delitti e delle grandi stragi».
Dei delitti e delle pene. Aggirarsi in questi dintorni, anzi in questi gironi, non pare molto attraente a
chi viene dall’esterno e, anche se non ci passa – gli uffici sono a parte – sente sbattere diverse porte
di ferro e immagina un’umanità dolente. Non foss’altro che, a fronte dei 900 posti disponibili, qui
sono ospitati – no, meglio proprio dire “reclusi”- 1.800 carcerati, come informa, amareggiata, la
Manzelli.
Viene spontaneo chiederlo: ma cosa l’ha spinta a scegliere questa carriera? Sorride. «Ma io non l’ho
scelta. Dopo la laura in giurisprudenza c’era questo concorso, l’ho fatto, come altri, e l’ho vinto.
Poi…». Poi poteva cambiare. «No, perché il lavoro mi piaceva tantissimo. Molto vario e
umanamente così ricco. Contatti col sociale esterno, con gli enti locali, con volontari, associazioni,
perché da soli non possiamo dare ai detenuti la qualità e la quantità di cultura e stimoli che
dobbiamo dare perché imparino a risocializzare…».
E i contatti con i reclusi? Lei li vede? «Li vedo, eccome! Non tutti, ovviamente, ma tanti. Nei
colloqui, quando vado tra loro per ogni iniziativa, tante sono le occasioni, parecchi mi scrivono…».
6.500 ALL’ANNO - Certo che non può conoscerli tutti: «Qui, a San Vittore, entrano 6.500 arrestati
all’anno e altrettanti ne scarceriamo o trasferiamo. Siamo un carcere di passaggio e di prima
frontiera. Per questo abbiamo anche una popolazione più giovane che altrove, moltissimi di 22-
30 anni. I nostri corsi scolastici e di mestieri, d’obbligo per legge e che curiamo molto, sono tanto
più importanti per loro: una carta da “spendere” quando usciranno».
Riflette. «Ma investire sulla scuola e sui servizi sul territorio», dice, «sarebbe un buon deterrente al
carcere, il problema va risolto lì, prima».
Sartoria (ironia della sorte, specializzata, oltre che in abiti di moda, in toghe per magistrati),
legatoria, cucina, pasticceria, pelletteria, lezioni per parrucchiera, truccatrice, barman con corsi di
60 ore e non 600 data la sosta più breve dei detenuti in questa prigione milanese. La direttrice di S.
Vittore snocciola con orgoglio le attività messe in piedi nel suo istituto, ma più di tutto ci tiene a
dire come viene accolto l’arrestato condotto a questo grande portone chiuso nel centro della città e
di fronte a un giardinetto con panchine.
DENTRO IL PORTONE - «La nostra struttura d’accoglienza è in funzione 24 ore al giorno,
chi entra non è abbandonato. Si parla in modo cattivo del carcere, ma le disfunzioni originano
spesso altrove. Dunque, appena entrato ciascuno viene visitato dal medico, poi incontra lo
psicologo: garantiamo 18 ore al giorno di servizio psicologico. Il momento della carcerazione è
delicatissimo, possono insorgere idee autolesive, pensi a chi ha fatto un delitto preso da un raptus,
semmai in famiglia… Dopo due giorni – o prima su segnalazione dello psicologo – visita dello
psichiatra, poi subentrano i volontari del servizio ascolto, i nostri educatori. Insomma c’è una
vera rete che prende in carico ciascuna persona che entra qui con tutti i suoi drammi. E dobbiamo
gestire gente dai 18 agli 80 anni».
Gloria Manzelli si interrompe e gioca con la matita sulla scrivania: «Le dicevo che il mio lavoro è
umanamente molto ricco. Da qui vedo la vita con un altro focus, ogni giorno ho a che fare con una
moltitudine di persone e con la loro miseria ma anche con la loro ricchezza umana. Poi, sa la gente
che sta appena fuori le mura del carcere e pensa: ”A me non succederà mai”? E invece io so che è
così labile il confine».
Serena Zoli




CARCERI; FERRANTE: BENE ‘MANIFESTO CONTRO L’ERGASTOLO’ DI VERONESI.
DISCUTERNE PER ELEVARE LIVELLO GIUSTIZIA DEL NOSTRO PAESE

“Bene il ‘Manifesto contro l’ergastolo’ lanciato oggi da Umberto Veronesi.
E’ arrivato il momento di discutere concretamente di come elevare il livello di giustizia e democrazia del nostro Paese,  affrontando lo stato delle carceri e dei detenuti, e ridiscutendo la pena dell’ergastolo a partire da quello ostativo,  che contrasta in maniera palese con il principio della riabilitazione previsto dalla Costituzione.”
Lo dichiara il senatore del Pd Francesco Ferrante.
 “L’ergastolo ostativo – continua Ferrante -  è l’espressione più eclatante dell’annichilimento del percorso di recupero, ma occorre avere il coraggio di affrontare questioni impopolari quali l’ergastolo nella sua forma più diffusa.
Sebbene molti lo ignorino nelle nostre carceri si infligge e si sconta questa «pena di morte viva», come l’ha definita il condannato all’ergastolo ostativo Carmelo Musumeci, che sebbene la sua condizione non gli conceda nessuna speranza di poter tornare in futuro alla vita al di fuori del carcere, ha portato avanti un proprio percorso di recupero, che lo Stato sembra adesso voler ostacolare ulteriormente trasferendolo in un carcere sardo, inasprendone l’isolamento dalla realtà al di la delle sbarre.
Ma se il ravvedimento del condannato è il fine ultimo dello stato, che si assume l’onere di punire il colpevole, occorre che chi passa anche dei decenni nella propria cella possa sapere di poterlo poi dimostrare alla società.
Se lo Stato sceglie solo di aspettare di certificare la morte di un detenuto compie un atto disumano, e fa decadere il principio costituzionale della pena giusta, che per essere tale deve avere un inizio e una fine.”

Sen. Francesco Ferrante
XIII Commissione Ambiente, Territorio, Beni ambientali
Responsabile politiche cambiamenti climatici ed energia Pd



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