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domenica 23 dicembre 2012


FRANCESCO CERAUDO

Progetto salute in carcere. Il medico penitenziario e l’uomo detenuto

24-12-2012
Il carcere è l’immagine opaca della società, il luogo geometrico delle contraddizioni del sistema, la valvola di sfogo dell’aggressività individuale e collettiva, e in definitiva l’ingranaggio più oscuro dello Stato. In questo contesto drammatico l’evento della carcerazione deve essere naturalmente considerato come un evento abnorme e come tale capace di produrre particolari stati psico-emotivi. Del resto è facilmente comprensibile lo stato psicologico in cui l’individuo si viene a trovare per effetto di ciò che è accaduto intorno a lui.
Qualcosa che non si riesce a dimenticare, né a strapparsi dalla propria pelle a ogni risveglio. L’impatto con il carcere è un momento triste, doloroso, sconvolgente. L’individuo all’ingresso viene spogliato dei suoi effetti personali e degli attributi di uomo libero. In sostanza non c’è posto per la sua dimensione umana, fisica, affettiva.
La realtà quotidiana del carcere è allucinante, piena di desolazione e impoverisce ulteriormente l’uomo: è un’esperienza sconcertante, un brano di vita vissuto con profonde lacerazioni psicologiche e che spesso abbrutisce e diventa talora criminogeno. Il soggetto ristretto all’interno di un carcere vive un’esperienza che spesso viene a riflettersi nella sua individualità più intima: dominano la solitudine, l’estraniamento, l’abbandono, il vuoto dell’esistenza, il disagio di vivere.
Il detenuto viene isolato improvvisamente e completamente dalla famiglia, dai suoi affetti più cari, viene sradicato dai suoi interessi, dalle sue attività, dalle sue abitudini, dal suo contesto sociale.
Forti turbamenti emotivi determinati dallo stress del carcere (segregazione, mancanza di adattamento all’ambiente, sensazione insopportabile di costrizione, paura di aggressioni, incertezza del proprio futuro, stati depressivi e di rovina, senso di emarginazione dalla società, il rimorso che preme, l’umiliazione insita nella posizione stessa di detenuto )hanno un innegabile effetto disorganizzante sulla personalità del detenuto.
Se la Medicina del passato errava nel personalizzare la malattia, quella contemporanea confidando nella tecnologia, all’opposto, tende a trattare la malattia, trascurando la persona. Si parla sempre più di malattie e non di malati. Anzi sempre più il malato diventa on oggetto da inserire in un computer.
La Riforma della Medicina Penitenziaria delinea una Medicina di iniziativa e di opportunità, relegando in spazi assolutamente marginali la Medicina cosiddetta d’attesa e la Medicina difensiva. La Medicina Penitenziaria deve comportare non soltanto applicazione di conoscenze, di nuove tecnologie, ma anche la capacità di saper fronteggiare una situazione umana specifica.
La realizzazione di un importante rapporto medico-paziente diventa un obiettivo strategico che si carica in modo particolare di valenza terapeutica
Non è sufficiente parlare al detenuto malato; occorre parlare con il detenuto malato sforzandosi di entrare in sintonia con la persona che ci sta di fronte attraverso un atteggiamento di assoluta comprensione, di umana solidarietà nei confronti dell’uomo-detenuto e del suo vasto mondo emozionale.
La malattia è una condizione anomala che l’uomo naturalmente rifiuta. In carcere, particolarmente, la malattia suscita paura e incertezza, senso di colpa e rifiuto e soprattutto angoscia di cedere il proprio controllo senza magari sapere di chi fidarsi. La paura della malattia in carcere mimetizza molte, singole paure. Primeggia naturalmente la paura della morte, l’angoscia di sopravvivere con gravi menomazioni, il terrore di dover soffrire troppo.
Per i detenuti la malattia è qualche cosa di sconosciuto e di misterioso che colpisce dall’interno e che aggredisce le risorse residue: qualcosa contro la quale non si può combattere da soli, ma per la quale è anzi necessario ricorrere ad altri. E nulla è più deleterio per la mente umana, che il sapersi completamente consegnato per la libertà e per la salute. Bisogna sfrondare la malattia di ogni alone di mistero e di paura. Emblematica la paura legata alla condizione di sieropositività per l’infezione da HIV. Tale soggetto vive le sue giornate in carcere come se fosse portatore di un ordigno esplosivo disinnescato, ma potenzialmente in grado di attivarsi improvvisamente. Alcuni detenuti al Centro Clinico di Pisa un giorno definirono la loro realtà come una vita a tappe, un’espressione che rivela in modo chiaro la precarietà della loro esistenza, contraddistinta da ricorrenti scadenze vissute come proroghe al diritto di esistere. La paura del detenuto sieropositivo per HIV risulta esasperata dalla sua solitudine. Si sente fondamentalmente un clandestino. E’ depositario di un segreto che non deve essere diffuso, pena il rischio di emarginazione, di ulteriore ghettizzazione.
Il detenuto-paziente va introspezionato nella sua unità psicofisica, e non solo come portatore di un organo malato o di una disfunzione particolare su cui riversare tutta la propria attenzione. Deve essere rimossa la visione meccanicistica della Medicina che porta a vedere l’uomo come una macchina dai mille ingranaggi, dimenticandosi che l’uomo è anche psiche con le conseguenti implicazioni esistenziali, affettive, culturali e sociali. Tra Medico Penitenziario e detenuto si deve stabilire un dialogo, attraverso il quale il Medico apprende una storia. La pazienza d’ascolto del Medico è destinata a suscitare la confidenza dello interlocutore. Nel mettere a disposizione il suo sapere specifico il Medico tende a ottenere l’adesione più completa alle sue direttive, ai suoi consigli, siano essi intesi a modificare uno stile di vita oppure a eseguire indagini cliniche o determinate terapie.
Il sapere specifico del Medico Penitenziario rende ragione al detenuto della sua situazione, lo conduce ad una migliore conoscenza di se stesso nei propri aspetti fisici, psichici e sociali. Il Medico Penitenziario deve sapersi adattare alle caratteristiche psicologiche del detenuto che ha di fronte in modo da adottare di volta in volta quei sistemi che più si addicono ad indurre nel malato un certo comportamento.
La drammaticità dei luoghi e delle situazioni dove il Medico si viene a trovare e ad operare impone un certo grado di anaffettività, di distacco, ossia quell’atteggiamento di distinzione che il saggio possiede nei confronti dei grandi problemi e dei grandi avvenimenti della storia umana. Giorno dopo giorno il grado di partecipazione alle sofferenze altrui aumenta e la sensibilità di fronte alla sofferenza si esalta e si affina.
Sotto il profilo dell’affettività,il Medico Penitenziario ideale è colui che riesce ad armonizzare l’opportunità del distacco con l’umana necessità della partecipazione. La Medicina Penitenziaria deve convogliare particolare attenzione ed interesse verso i misteriosi ed elusivi rapporti che collegano gli eventi emozionali e le malattie somatiche.
Il carcere è responsabile della spoliazione umana e sociale dell’uomo detenuto
La solitudine è una temibile e penosa radice del deterioramento dell’uomo, dell’invecchiamento delle emozioni e disintegra nel recluso tutte quelle componenti che, nell’ambito della normale vita civile, assicurano ad ogni uomo il rispetto di se stesso e il rispetto degli altri. In carcere si subiscono gravi umiliazioni relative a sesso, movimento fisico, vista, udito, linguaggio.
Fra le mura di un penitenziario, nella maggior parte dei casi, si produce un arresto del processo biologico di maturazione, una rilevante diminuzione delle facoltà sensoriali. Abituati alle minuscole dimensioni di una cella affollata all’inverosimile si perde il senso della distanza, delle proporzioni; costretti alla uniformità di colori non naturali ,si cade facilmente nelle alterazioni e infermità della vista; vincolati ad un moto fisico molto ridotto, effettuato interamente in stanze e corridoi, si riduce l’equilibrio fisico a un livello appena sufficiente a mantenere le normali posizioni, ma del tutto insufficiente per un normale comportamento su un affollato marciapiede di città.
Tutte queste limitazioni sono di ordine fisico, ma influenzano considerevolmente anche la psiche. Tra i detenuti è molto diffusa la sensazione che il tempo passato in carcere sia sprecato, inutile o derubato alla propria vita. Si tratta di uno spezzone di tempo che deve essere cancellato, di qualche cosa che deve essere passato o accelerato o ritardato. La carcerazione non è meramente soltanto un fenomeno giuridico di privazione della libertà che riguarda i limiti di spazio entro i quali è lecito potersi muovere. Essa è fondamentalmente e pesantemente un fenomeno dai connotati psicologici spiccati. Del resto ognuno di noi non è se stesso e basta. Siamo i sentimenti di stima e di dispregio, di amicizia o di ostilità che percepiamo, siamo l’affetto che possiamo dare e sentire, i successi e i fallimenti che sperimentiamo, l’entusiasmo che ci arricchisce o l’indifferenza che ci inaridisce, la speranza nel domani o la paura nel viverlo. Il carcere prefigura, in termini invasivi, le difficoltà e le limitazioni dei rapporti con il mondo esterno, particolarmente con la famiglia. Una barriera sovente non superabile, che rende più struggente il ricordo, e più acuto il bisogno di coloro a cui si vuol bene. Si registra una progressiva, inesorabile cancellazione di idee, di sentimenti.
Si realizza una spoliazione di ciò che si possedeva e di ciò che si era e della stessa possibilità di possedere, progettare, di sperare.
Mentre rimangono soltanto il numero di una pratica, un fascicolo che contiene carte, una collocazione nello spazio e nel tempo freddi e ostili di un apparato amministrativo che assorbe, pervade, scruta, classifica, giudica. Decadimento fisico e psichico, timori di mali noti e ignoti, avvilimento, angoscia, solitudine, un senso lacerante di sconfitta, la sofferenza di una mutilazione personale, la disperazione di vedere diminuire sempre di più ciò che si è, di chiedersi senza saperlo quanto poco si possa essere perché rimanga un po’ di umanità riconoscibile. Di frequente si verifica la necessità di stare in compagnia di persone che non si sono scelte, talvolta non desiderate e non gradite, di dividere con loro ogni gesto e ogni funzione.
Rapporti sociali imposti o subiti. Odori, rumori, sapori, sporcizia, di altri. Promiscuità che degrada. Non stare soli, ma essere soli, sentirsi soli
La solitudine più amara ,quella di stare con gli altri, fra altri, e però non assieme ad altri. Espropriazione di ogni riservatezza e di ogni intimità. Nessun momento ,neanche il più personale, privato, intimo, gode di un minimo rispetto. Nelle celle tappezzate di immagini pornografiche anche il sesso diventa un fenomeno di perversione collettiva. E’ ormai sotto gli occhi di tutti questa drammatica, violenta realtà carceraria.
Quali sono le prerogative da mettere in campo per ribaltare la situazione e rendere le carceri più vivibili?
Diverse sono le ipotesi da prendere in considerazione:
Sovraffollamento carcerario. Con un tasso di affollamento di 145% ovvero con oltre 145 detenuti ogni 100 posti, l’Italia è il Paese con le carceri più sovraffollate d’Europa. Solo la Bulgaria sta peggio. Circa 70.000 detenuti (compresi i minorenni) stipati come sardine in scatola. I posti-letto sono 46.000. Ne mancano circa 24.000. Ecco che allora si attrezzano letti a castello sino a doppia fila a rasentare il soffitto. Si occupano con luridi materassi le aule scolastiche, le palestre, gli spazi sociali e ricreativi e perfino i corridoi. Il carcere in questi termini risulta violentato anche nei suoi connotati estetici e la tortura dello spazio diventa una costante comune che rende invivibile la vita del detenuto rendendola simile a quella delle bestie.
La Corte di Strasburgo per violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo inoltra continui, severi richiami al Governo italiano al fine di ripristinare le norme di legalità in carcere.
Ci accusano addirittura di tortura ambientale, una vera e propria pena aggiuntiva che offende e calpesta la dignità e la salute delle persone detenute.
Grande importanza del lavoro penitenziario
Tra gli elementi caratteristici della normativa contemplata nella Riforma Penitenziaria del 1975, assume particolare rilievo la nuova disciplina per l’organizzazione del lavoro nelle strutture penitenziarie. Il lavoro penitenziario deve essere considerato come uno strumento volto a favorire il recupero sociale del condannato, togliendolo da una situazione di ozio avvilente che allarga, purtroppo, il solco impenetrabile che già divide il detenuto dalla società reale. Il lavoro penitenziario è un bisogno emergente, prima di tutto per l’autoconsapevolezza del detenuto e, per aiutarlo a ritrovare il senso della sua identità civile e della dignità umana. Problema del detenuto è proprio quello di poter mantenere e cogliere certi valori, per fare in modo che la pena venga vissuta non come annullamento di se stesso, ma come momento cosciente. Il lavoro in carcere significa anche muoversi, pensare attivamente, ritrovare e Purtroppo siamo costretti a registrare preoccupanti, severissimi tagli per i fondi destinati a questo capitolo di bilancio. Tutto ciò manda in aria ogni seria progettualità e si è arrivati al paradosso che le Direzioni sono costrette a retribuire con un’ora di lavoro l’equivalente di una intera giornata lavorativa. La stessa Legge Smuraglia risulta depotenziata, anzi risulta rasa al suolo dalla nuova Legge di stabilità. Si continua a sentire solo parole vuote e inutili in merito al reinserimento dei detenuti! Solo il 15-20 % della popolazione detenuta è adibito ad attività lavorative.
Affettività in carcere
Permettere ai detenuti di vivere i propri affetti, aprire le carceri alla sessualità è un tentativo concreto di umanizzare la detenzione. Quanto sopra sulla stregua di ciò che avviene nella maggior parte dei Paesi Interrompere il flusso dei rapporti umani ad un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto. Il problema dell’affettività in carcere merita attenzione e rispetto perché vi confluiscono e l’animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni uomo. La sessualità è un insopprimibile bisogno di vita, un po’ come respirare, nutrirsi, dormire, mangiare. Mutilando l’umanità, comprimendo la natura oltre un certo limite, non rimane che la patologia della rinuncia o la patologia della degenerazione. E’ arrivato il momento di chiedersi se fra i bisogni, se fra i diritti dei detenuti vi siano anche il bisogno e il diritto di amare e di essere amati. La Corte Costituzionale ha perso ultimamente un’importante occasione per rendere attuativo quanto sopra, si è lavata pilatescamente le mani richiedendo l’intervento del Legislatore. La storia si ripete.
Suicidi e condotte autolesive
Negli ultimi 20 anni si è registrata una media annuale di circa 60 suicidi, una frequenza pari a 20 volte superiore alla realtà esterna. La carcerazione è un fattore specifico di vulnerabilità che induce ai gesti autoaggressivi, chiari, inequivocabili segnali del grave stato di disagio, di malessere in cui i detenuti sono costretti a vivere. Le condotte auto lesive (circa 6000 in un anno a cui bisogna associare circa 6500 casi di sciopero della fame) sono comunque l’espressione di un gravissimo disagio il cui substrato è costituito dalla stessa condizione detentiva, alla quale contingentemente si assomma una condizione di ansia e di sofferenza, una situazione contingente vissuta in termini di grave frustrazione o conflittualità o di danno irreparabile, il bisogno del ricorso all’estremo linguaggio dei gesti e del comportamento per effetto di un’incapacità o impossibilità di comunicare verbalmente.
Il sistema delle pene
È in crisi buia.
Alcune leggi sulla droga, sugli immigrati e sulla recidiva sono liberticide
Occorre una seria politica di depenalizzazione. Occorrono pene alternative alla detenzione.
Occorre il differimento della pena in attività socialmente utili. Occorre l’amnistia e l’indulto come importante elemento di Medicina Preventiva. Non esistono al momento alternative valide.
Tossicodipendenze
Circa il 35% della popolazione detenuta è tossicodipendente. Il dramma delle tossicodipendenze costituisce una piaga della società odierna e si amplifica tumultuosamente in carcere. Non è certo con la terapia a scalare con metadone che si può far fronte. Piuttosto vanno prese in considerazione le misure alternative alla detenzione con possibilità di utilizzazione delle comunità terapeutiche.
Benefici di legge
Il carcere continua ad essere una medicina troppo amara per coloro che sono malati seriamente: malati di AIDS cardiopatici impegnati (infarto del miocardio,insufficienza cardiaca grave) vasculopatici cerebrali con esiti ictus morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson e sclerosi a placche cirrosi epatica in fase di scompenso in attesa di trapianto cardiaco o di fegato BPCO marcata malati psichiatrici gravi di questo dovrebbero tener conto i Magistrati di Sorveglianza per il riconoscimento dei relativi benefici di legge.
Apertura del carcere verso la società
Componente di significativa importanza per le implicazioni connesse è rappresentata dalle norme che prevedono l’apertura del carcere verso la società attraverso la istituzionalizzazione di una vasta serie di legami e di rapporti strutturali, funzionali ed organici con il territorio e con gli Enti Locali (affidamento sociale in prova, stato di semilibertà ,lavoro esterno).
Individualizzazione della pena
I maggiori studiosi concordano ormai da tempo nel riconoscere che l’analisi della personalità dell’imputato(che va condotto da un gruppo di lavoro di cui dovrebbero far parte uno psichiatra, un criminologo, uno psicologo, un educatore e un assistente sociale) deve assumere un ruolo preponderante nella moderna giustizia penale. La sanzione deve infatti risultare adeguata ,oltre che allo specifico fatto considerato come reato, soprattutto alla personalità del soggetto autore del reato stesso. Ne derivano di conseguenza un programma correzionale specifico e un’impostazione per il trattamento sia medico che penitenziario.
Lunghissime carcerazioni preventive
Circa il 40% della popolazione detenuta si trova in carcerazione preventiva, cioè in attesa di giudizio. Esse costituiscono gravi elementi turbativi e incidono profondamente sull’analisi dei problemi medici, soprattutto a livello psichico, di un vasto numero di detenuti. Si registrano condanne continue da parte della Comunità Europea per la lungaggine dei processi.
Problema igienico-alimentare
Le strutture carcerarie quasi sempre non rispondono ai requisiti igienici necessari. Le carenze sono molto gravi e costituiscono un minimo comun denominatore che caratterizza questi ambienti ricavati talora da vecchi castelli, antichi conventi e caserme dismesse. La sporcizia nelle celle diventa un rischio costante di malattie. In tale contesto assolutamente insalubre è facile contrarre malattie della pelle (soprattutto micosi, scabbia).
La vita eccessivamente sedentaria, l’insufficienza di ossigenazione, il sovraffollamento,il fumo, l’abuso di psicofarmaci, l’uniformità e provvisorietà alimentare sono altri elementi che provocano mali tipicamente carcerari: l’obesità, le sindromi dispeptiche, la stipsi, l’emicrania, l’amnesia, l’insonnia, i disturbi dell’umore, i disturbi neurovegetativi e psicosomatici. Ci troviamo di fronte ad un carcere profondamente malato, inutile, vendicativo, dannoso oltre ogni limite di immaginazione e di tolleranza. Un carcere che non serve a niente. Cosa si può fare per arginare questo abisso di necessità?
Intanto passare finalmente dalla declamazione di roboanti principi e da forsennate ideologie ai fatti concreti. Diventano uno spartiacque indispensabili e inderogabili l’amnistia e l’indulto. È una premessa dalla quale non si può in alcun modo prescindere per restituire un po’ di respiro all’istituzione penitenziaria, che è letteralmente in affanno, piegata sulle proprie ginocchia.
 

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