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venerdì 8 febbraio 2013


Valter Vecellio

Tu chiamala se vuoi, Giustizia. Palermo: assolto, ma dopo tre anni di carcere. Napoli: libero, diciotto mesi dopo

08-02-2013
Tu chiamala, se vuoi, Giustizia. Primo episodio: Palermo. Un extra-comunitario, originario del Ghana, viene accusato di un reato orribile: aver violentato la figlia undicenne della sua convivente. Arrestato, l’uomo viene condannato a otto anni. Già qui la prima anomalia: otto anni appena per questo abominio? Comunque è così che decide la corte in primo grado. Viene anche condannata la mamma della ragazzina: cinque anni e sei mesi, colpevole di non aver denunciato i fatti, divenendo così complice della violenza consumata. Si arriva all’Appello. La terza sezione assolve entrambi. Innocente lui, innocente lei. Cos’è accaduto?
E’ accaduto che la bambina aveva parlato di abusi sessuali commessi anche su una sua amichetta. Che, pazientemente ascoltata, nega invece tutto. Gli avvocati del ghanese sono poi riusciti a convincere i giudici che il suo assistito era stato accusato ingiustamente; e gli argomenti devono essere stati convincenti, dal momento che è arrivato il verdetto di assoluzione. C’è solo un problema, anzi due. Che tra il momento della denuncia, il primo e il secondo grado di giudizio, sono trascorsi “solo” tre anni; che i due ghanesi hanno trascorso in carcere. Non solo. Lui, ora non ha più il permesso di soggiorno, scaduto mentre era in carcere, e non è stato rinnovato per motivi che sono intuibili. Verrà rispedito in Ghana? E la mamma della piccola? Quest’ultima, dichiarata “adottabile” è stata affidata a una comunità, in attesa di essere adottata. Tornerà dalla madre? Insomma, anche solo dal punto di vista burocratico, un bel pasticcio. Per non dire dei costi umani, quelli sono irrisarcibili. Una vicenda forse inevitabile, ma certamente erano evitabili i “tempi”: quei tre anni trascorsi prima di arrivare a un verdetto (sempre che non ci si appelli alla Cassazione); che i due ghanesi hanno trascorso in carcere.

Ora andiamo a Napoli, qui ci soccorre Leandro Del Gaudio del “Mattino”. Il suo articolo comincia così: “Non erano larve, ma uova di mosca sul corpo di due anziani coniugi massacrati di botte. Sembra una differenza da poco – sottigliezze per cultori di biologia – ma è stato probabilmente uno dei punti decisivi di un processo che si è chiuso in Corte d’Assise. Due coniugi uccisi, il figlio imputato mandato assolto, un caso che si riapre. E le indagini che devono fare i conti con uno o più assassini in libertà, in una storia familiare che si tinge di nero, anzi di giallo, oggi più che mai destinata ad essere riletta…”.
Il caso è quello della morte del novantatreenne Filiberto Sorrentino e della moglie Vincenza Marciano. I fatti risalgono al 2009. I due coniugi vivevano a Torre del Greco. Un giorno di agosto di quattro anni fa, i due vengono trovati morti nella loro abitazione. Del duplice delitto viene accusato il figlio, che nel settembre del 2011 viene arrestato. In carcere trascorre diciotto mesi. Lui protesta la sua innocenza. Gli investigatori non gli hanno creduto, hanno individuato il possibile movente (l’eredità); sul figlio degli assassinati pesa poi, come un macigno, un passato di componente della colonna romana delle Brigate Rosse. A quanto pare, l’assassino però non è lui. Così stabiliscono i giudici, e l’altro giorno Maurizio Sorrentino ha lasciato il carcere di Poggioreale. Cos’è accaduto?

Giornalista professionista, attualmente lavora in RAI. Dirige il giornale telematico «Notizie Radicali», è iscritto al Partito Radicale dal 1972, è stato componente del Comitato Nazionale, della Direzione, della Segreteria Nazionale.

Ritorniamo allora alla cronaca di Del Gaudio: “E’ il 10 agosto del 2009, quando è lo stesso Maurizio Sorrentino a trovare i genitori trucidati di botte e ad avvertire le forze dell’ordine. Viveva in provincia di Viterbo, da qualche giorno aveva provato a contattare padre e madre, ma il telefono in casa squillava senza risposte. Poche ore dopo, sul corpo dei coniugi viene fatta l’autopsia, che rileva la presenza di uova di mosche su uno dei due cadaveri, all’altezza del volto. Strana storia, hanno pensato i difensori, che si affidano a un consulente di parte e che accertano che le uova hanno una vita che può spaziare al massimo tra i due e i tre giorni. Se è vero che le mosche si sono fiondate sul corpo sanguinante e caldo delle vittime sin dai primi minuti del decesso, conviene provare a riavvolgere il nastro del tempo: dal 10 agosto, girando a ritroso la clessidra, si può arrivare al massimo al 7 agosto, quando l’imputato è certamente lontano da Torre del Greco. Graziato dalle uova di mosca fotografate il 10 agosto sul corpo della vittima: sono in uno stato antecedente alle larve, quindi avevano una vita più giovane, quanto basta a spostare la data della morte di un giorno rispetto alla valutazione degli inquirenti”.
Viene meno anche il movente della rapina. Il figlio non ha problemi economici, può dimostrare facilmente di non aver debiti o pendenze, paga con regolarità e puntualità affitto e altre scadenze, non ha scoperti bancari, e anzi, il suo conto corrente è florido. E lui?
Giustizia non è stata fatta, gli assassini dei miei genitori sono ancora liberi, forse resteranno impuniti per sempre”, dice uscito dal carcere. “Si è indagato in una sola direzione, cioè contro di me. Fino in fondo, nonostante le contraddizioni che erano emerse al dibattimento”. Racconta poi un episodio che fa pensare. In cella Sorrentino ha trascorso il tempo leggendo: “Mi sono attaccato ai libri, prima di ogni altra cosa. Cosa ho letto? La “Divina Commedia”, come posso non pensare che hanno provato a tirare in ballo anche il rapporto che ho con mia figlia, per via di quel ‘Papé satàn’, uscito nel corso delle indagini, grazie ad alcune intercettazioni telefoniche?”. E’ un’invocazione a Satana, nel settimo canto dell’Inferno di Dante, qualcosa che ha spinto gli inquirenti a parlare di sette diaboliche, e ipotizzare codici linguistici per eludere le indagini in corso. “Nulla di tutto ciò, era solo un modo di scherzare, nessun mistero, nessuna cosa strana…”, dice Maurizio Sorrentino.

E qui, come non pensare a quella pagina di “Una storia semplice” di Leonardo Sciascia, a quel “Dio mio!” del questore, a quel “Terrificante!” del colonnello dei carabinieri, di fronte alla conclusione cui è giunto il magistrato inquirente a proposito dell’“uomo della Volvo””?
I due ghanesi, prima di essere scagionati in Appello hanno trascorso tre anni in carcere; Maurizio Sorrentino un anno e mezzo. Magari, vedi mai, fossero state più sgombre, le scrivanie dei magistrati, i due casi si sarebbero risolti molto prima… Quando dicono che l’amnistia no, che servono riforme strutturali, e tutto l’armamentario delle banali obiezioni che ripetono a pappagallo, ricordiamoci di vicende come queste di Palermo e di Napoli.
 

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