IL CORPO DI GIANNI DE LUCA APPENA PESCATO DAL VOLTURNO
Il
fratello Mario complice nel delitto?
Il 16 marzo, Igino
Tribioli, comandante la Compagnia dei Carabinieri di Santa Maria Capua Vetere,
inoltrava un primo rapporto e faceva il punto della situazione sulle indagini.
Dal canto suo, Federico Putaturo, Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Napoli, appena ricevuta la segnalazione, convinto, come gli altri,
che Tafuri aveva avuto un complice per uccidere Gianni De Luca, ordinò al
capitano medico Francesco Remondino di sottoporre Mario Tafuri, fratello di
Aurelio, a visita medica, per verificare se avesse riportato ferite o altri
segni nella presunta colluttazione con la vittima. La richiesta non era del
tutto campata in aria. Del resto, in genere, nelle indagini, come nelle
inchieste giornalistiche, si “suonano tutte le campane”, sempre in cerca del
minimo indizio, della minima prova. La visita medica trovava il suo fondato
motivo nel fatto che Mario Tafuri – un tipo assai più strano del fratello – dal
10 marzo, cioè dal giorno successivo a quello del delitto, non era uscito dalla
propria abitazione, astenendosi dal mostrarsi in pubblico e giustificando la forzata
“clausura”, con una vaga e improvvisa affezione bronchiale. Il fatto aveva
insospettito un poco tutti; specialmente gli uomini del commissariato di P.S.
di S. Maria C.V., gli inquirenti e i giornalisti che seguivano il caso. Secondo
il parere del “Montalbano” di Terra di Lavoro, non si poteva escludere che vi
fosse stata una correità col fratello Aurelio, soprattutto per quanto si
riferiva all’occultamento del cadavere e che in tale circostanza avrebbe potuto
riportare lesioni, oppure contusioni, che gli impedivano di mostrarsi
tranquillamente in pubblico. Vincenzo Pallisco, maggiore dei carabinieri, ne
era convinto, al pari del commissario di Pubblica Sicurezza
Mario Tafuri, dunque, 26 anni, all’epoca
studente in medicina, era sospettato quasi da tutti di essere complice nel
delitto per l’esecuzione o quantomeno nella preparazione. E dunque fu
“inchiodato” con la solita stupida domanda da parte del maggiore dei
carabinieri.
Maggiore Pallisco: “Che
cosa avete fatto il giorno del delitto?”.
Mario Tafuri: “Dalle
17.00 alle 20.00 sono stato occupato nella farmacia di mio padre. Poi mi sono
recato all’Istituto Vittoria Piccirillo alla Via Tari, per consumare un pranzo
che il direttore, Don Gennaro Badalà, aveva offerto a molti ex alunni. Verso le
22.30 circa con gli stessi amici coi quali mi ero trattenuto a pranzo, sono
uscito dall’istituto e ho passeggiato per la città per circa una ventina di
minuti. Sono rientrato a casa verso le 23.00 e non ho avuto bisogno che alcuno
venisse ad aprirmi perché ho le chiavi. Mi sono coricato e, prima di
addormentarmi, alle ore 24.00 circa, mi sono trattenuto a leggere a letto. Dopo
due ore circa sono stato svegliato da alcuni passi e quindi ho notato la
presenza di mio fratello che era entrato nella camera da letto senza accendere
la luce. L’ho visto ugualmente attraverso i riflessi di altra luce accesa nella
stanza attigua. Io e mio fratello Aurelio dormiamo nella stessa stanza in due
lettini separati. Non ho potuto vedere in volto mio fratello; pur tuttavia mi
ha sorpreso il fatto che egli ha aperto l’armadio, cosa assolutamente insolita
per lui. Ricordo che mio fratello
Aurelio non mi salutò in quanto molto evidentemente pensava che io dormissi e
di conseguenza egli non mi disse assolutamente niente, ovvero non mi rivolse
affatto la parola”.
Maggiore Pallisco: “Che
altro avete fatto durante la giornata del 10 marzo?”.
Mario Tafuri: “Il
mattino del 10 successivo mio fratello si alzò prima di me in ora che non sono
in grado di precisare in quanto io mi attardai a dormire. L’ho rivisto
solamente verso le ore 12.30 allorchè è rientrato in casa. Poco dopo quell’ora,
ricordo che io e mio padre risalimmo nella nostra abitazione dalla farmacia per
mangiare e mentre mio padre si soffermò nella saletta di trattenimento, io mi portai
nello studio medico di mio fratello Aurelio per prendere la siringa da
praticare a mio padre. La porta dello studio era chiusa a chiave e, al
tentativo che feci per aprirla, dall’interno mi risposero due voci, quella di
mia madre e quella di mio fratello i quali mi invitavano ad attendere. Senza
indugiare, attraverso il corridoio esterno mi recai nella stanza da letto dei
miei genitori per prendere l’insulina, indi, ritornato nella camera da letto
mia e di Aurelio, notai che lo studio medico era stato aperto e sentii chiudere
la porta di entrata di casa. Mia madre mi chiamò e mi disse che mio fratello
aveva ucciso un uomo e che si era andato a costituire. A questo punto mia
madre, piangendo si diresse nella stanza dove si trovava mio padre. Io, prima che
lei avesse raggiunto il luogo in.dicato, la fermai e le dissi che mi sarei
subito portato da un amico di famiglia, il giudice Nicola Giacumbi di S. Maria
Capua Vetere, per informarlo dell’accaduto e per farmi consigliare sul da
farsi. Mia madre mi rispose che non ricordava con precisione se detto comune
amico si fosse o meno recato al tribunale di Salerno. Nonostante detta
precisazione io mi recai ugualmente dal Giacumbi, che però, così come aveva
previsto mia madre, non era in casa.
Come dicono i banali,
la realtà, è spesso più inverosimile della fantasia. A distanza di anni si
incrociano i destini che portano a Santa Maria. Silvio Sacchi, un piemme della
procura sammaritana, che finirà schiacciato dalla macchina infernale delle
Procure (condannato a vari anni di reclusione e radiato dalla magistratura)
anni prima, quale Sostituto Procuratore della Repubblica di Potenza, aveva
arrestato gli autori dell’omicidio Giacumbi, IL GIUDICE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SALRNO - ASSASSINATO DALLE BRIGATE ROSSE -
“Ritornai – continua il
suo racconto Mario Tafuri – e, nel frattempo, mia madre aveva già dato notizia
della faccenda anche agli altri miei famigliari. Una circo.stanza che vi
riferisco e che, però, ora non mi appare più strana, è quella relativa a una
bacinella, posta al centro dello studio, nella quale ardevano delle carte
ancora incenerite. Domandai a mia madre il motivo per cui erano state bruciate
delle carte e lei mi rispose che, quando era entrata nello studio, aveva
trovato che dette carte già bruciavano e che mio fratello, prima di andarsi a
costituire, le aveva raccomandato di incaricarmi di bruciare alcune carte che
erano nel suo armadietto, con preghiera di non guardarle. Ritengo che le carte
che io avrei dovuto bruciare e che poi non feci, in quanto le cose
precipitarono, debbono essere quei disegni che voi carabinieri poi
sequestraste”.
Maggiore Pallisco: “Che
sapete sul delitto di vostro fratello?”.
Mario Tafuri: “Non
sapevo assolutamente dell’esistenza degli indumenti intrisi di sangue rimasti
da mio fratello nella nostra abitazione e in special modo io, che sono stato
coricato a causa di influenza dall’undici pomeriggio fino al 14 marzo. Poi,
appena alzatomi dal letto, con la macchina di mio fratello, guidata
dall’autista di mio cugino, Mario Di Lorenzo, mi recai a Salerno dove avevo
appreso che il giudice Giacumbi era presso la famiglia della sua fidanzata.
Prima di partire per Salerno dovemmo cambiare la ruota che si era frantumata e
a ciò provvedemmo presso il gommista Carmine Aulicino”.
Maggiore Pallisco:
“Conoscevate Anna Maria Novi, l’amante di vostro fratello?”.
Mario Tafuri: “La
conoscevo, lei mi fu presentata dallo stesso mio fratello, alla presenza di mio
cugino Giovanni Tafuri. Fu in occasione di un banchetto che tenemmo presso il
ristorante “Il Boschetto” di Castelvolturno al quale parteciparono oltre alla
Novi, mio fratello e mio cugino, anche l’ingegnere Egano Lambertini che poi ho
saputo era il primo amante della donna. Non conoscevo bene, invece, il giovane
Gianni De Luca, perché l’avevo intravisto un paio di volte. Una prima volta,
circa due mesi or sono, mentre conversava con mio fratello Aurelio fuori dal
portone di casa mia, e una seconda volta il 29 febbraio scorso, verso le 14,30
in via Sirtori, qui in città, a bordo di una 600 Fiat verde targata Napoli,
sempre in compagnia di mio fratello”.
LO STOICO SUICIDIO COL FUCILE AVENDO UNA MANO SOLA
MARIO TAFURI
Le passioni del farmacista Mario Tafuri: il Teatro, l’amicizia con Nino Manfredi e la ricetta della minestra maritata
di Ferdinando Terlizzi
Non tutti sanno che Mario
Tafuri, farmacista, figlio di Don Manlio ( farmacista ) è il fratello di
Aurelio, medico dermatologo, che nel
marzo del 1960 uccise il giovane studente Gianni De Luca per gelosia. Gli piazzò un punteruolo nel
cuore e dopo averlo legato lo scaraventò nel fiume Volturno dalla Scafa di
Caiazzo. Subì 4 processi ( il piemme
chiese l’ergastolo) difeso da Giuseppe Garofalo, Alfonso Martucci, Ciro
Maffuccini, Giuseppe Marrocco e Enrico Altavilla fu condannato a 24 ma ne scontò soltanto 14.
Oggi è quasi cieco.
Mario Tafuri è stato da tutti d
efinito “portatore di manie e fobie” più gravi di quelle - presunte - addebitate al fratello Aurelio. Ma tutti lo ricordano per la sua bonomia e principalmente per le sue attività filantropiche. Nel giugno del 2004, in occasione della morte di Nino Manfredi, io ottenni una lunga intervista da Mario Tafuri, sull’amicizia che lo legava all’attore romano. Fatti integralmente riportati nel mio libro “Il delitto di un uomo normale”.
“Ci siamo conosciuti negli anni Ottanta a
Scauri - ricorda Mario Tafuri - nella circostanza gli parlai della mia passione
per il teatro, della filodrammatica con la quale davamo sfogo alla nostra
passione di dilettanti. Si interessò subito e io azzardai la richiesta di
venirci a vedere perché stavamo allestendo La Fortuna con la Effe maiuscola. Mi
rispose: “Non so gli impegni che avrò a marzo, ma fammi sapere”. Il 20 marzo dell’88, gli telefonai per dirgli
che due giorni dopo ci sarebbe stato lo spettacolo. “Ma il 22 è il mio
compleanno rispose” e gli replicai che quale occasione più bella di
festeggiarlo in mezzo a noi. La sera del 22 la filodrammatica ebbe l’onore di
recitare con uno spettatore d’eccezione in platea: Nino Manfredi. Al termine
salì sul palcoscenico ed ebbe per noi parole di apprezzamento. Nel 1992 mi
propose di tradurre in napoletano la sua commedia Viva gli Sposi. Mi sentii
lusingato e per tre mesi mi sono recato a Roma una ventina di volte per
sottoporgli il copione tradotto. Quel copione - che lui aveva corretto e
visionato - lo conservo come un Vangelo. E quando dopo qualche anno - prosegue
Mario Tafuri - smettemmo di recitare e Nino Manfredi me ne chiese il perché, a
me sorse spontaneo dargli una risposta: “Caro Nino è la mia città che non ci
merita più”.
Mario Tafuri, ha anche
un’altra passione oltre al teatro: la cucina. Famosissima la sua ricetta per la
“minestra maritata”, ricetta ereditata dalla mamma, che a sua volta l’aveva
imparata dalla nonna a Curti. Il segreto? Gli ingredienti. “La fase più importante” dice Mario Tafuri “è
la preparazione del brodo, per il quale sono indispensabili i seguenti ingredienti:
carne di manzo (punta di petto), bamboncello (stinco di maiale salato), carne
di pollo (ruspante), salsiccia dolce di maiale, salsiccia forte, annoglia
(insaccato di stomaco e intestino tenue di maiale), pezzentella (insaccato di
carni suine e di cotenne), guanciale salato di maiale, osso di prosciutto
salato, carota, sedano e cipolla”.
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