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giovedì 25 luglio 2013

IL SUICIDIO DI MARIO TAFURI RICORDI DEL PERSONAGGIO TRATTO DAL MIO LIBRO IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE CHE NARRA DELL'ASSASSINIO DI GIANNI DE LUCA PER MANO DI AURELIO TAFURI

IL CORPO DI GIANNI DE LUCA APPENA PESCATO DAL VOLTURNO 




Il fratello Mario complice nel delitto?

Il 16 marzo, Igino Tribioli, comandante la Compagnia dei Carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, inoltrava un primo rapporto e faceva il punto della situazione sulle indagini. Dal canto suo, Federico Putaturo, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli, appena ricevuta la segnalazione, convinto, come gli altri, che Tafuri aveva avuto un complice per uccidere Gianni De Luca, ordinò al capitano medico Francesco Remondino di sottoporre Mario Tafuri, fratello di Aurelio, a visita medica, per verificare se avesse riportato ferite o altri segni nella presunta colluttazione con la vittima. La richiesta non era del tutto campata in aria. Del resto, in genere, nelle indagini, come nelle inchieste giornalistiche, si “suonano tutte le campane”, sempre in cerca del minimo indizio, della minima prova. La visita medica trovava il suo fondato motivo nel fatto che Mario Tafuri – un tipo assai più strano del fratello – dal 10 marzo, cioè dal giorno successivo a quello del delitto, non era uscito dalla propria abitazione, astenendosi dal mostrarsi in pubblico e giustificando la forzata “clausura”, con una vaga e improvvisa affezione bronchiale. Il fatto aveva insospettito un poco tutti; specialmente gli uomini del commissariato di P.S. di S. Maria C.V., gli inquirenti e i giornalisti che seguivano il caso. Secondo il parere del “Montalbano” di Terra di Lavoro, non si poteva escludere che vi fosse stata una correità col fratello Aurelio, soprattutto per quanto si riferiva all’occultamento del cadavere e che in tale circostanza avrebbe potuto riportare lesioni, oppure contusioni, che gli impedivano di mostrarsi tranquillamente in pubblico. Vincenzo Pallisco, maggiore dei carabinieri, ne era convinto, al pari del commissario di Pubblica Sicurezza

 Mario Tafuri, dunque, 26 anni, all’epoca studente in medicina, era sospettato quasi da tutti di essere complice nel delitto per l’esecuzione o quantomeno nella preparazione. E dunque fu “inchiodato” con la solita stupida domanda da parte del maggiore dei carabinieri.

Maggiore Pallisco: “Che cosa avete fatto il giorno del delitto?”.
Mario Tafuri: “Dalle 17.00 alle 20.00 sono stato occupato nella farmacia di mio padre. Poi mi sono recato all’Istituto Vittoria Piccirillo alla Via Tari, per consumare un pranzo che il direttore, Don Gennaro Badalà, aveva offerto a molti ex alunni. Verso le 22.30 circa con gli stessi amici coi quali mi ero trattenuto a pranzo, sono uscito dall’istituto e ho passeggiato per la città per circa una ventina di minuti. Sono rientrato a casa verso le 23.00 e non ho avuto bisogno che alcuno venisse ad aprirmi perché ho le chiavi. Mi sono coricato e, prima di addormentarmi, alle ore 24.00 circa, mi sono trattenuto a leggere a letto. Dopo due ore circa sono stato svegliato da alcuni passi e quindi ho notato la presenza di mio fratello che era entrato nella camera da letto senza accendere la luce. L’ho visto ugualmente attraverso i riflessi di altra luce accesa nella stanza attigua. Io e mio fratello Aurelio dormiamo nella stessa stanza in due lettini separati. Non ho potuto vedere in volto mio fratello; pur tuttavia mi ha sorpreso il fatto che egli ha aperto l’armadio, cosa assolutamente insolita per lui.  Ricordo che mio fratello Aurelio non mi salutò in quanto molto evidentemente pensava che io dormissi e di conseguenza egli non mi disse assolutamente niente, ovvero non mi rivolse affatto la parola”.

Maggiore Pallisco: “Che altro avete fatto durante la giornata del 10 marzo?”.

Mario Tafuri: “Il mattino del 10 successivo mio fratello si alzò prima di me in ora che non sono in grado di precisare in quanto io mi attardai a dormire. L’ho rivisto solamente verso le ore 12.30 allorchè è rientrato in casa. Poco dopo quell’ora, ricordo che io e mio padre risalimmo nella nostra abitazione dalla farmacia per mangiare e mentre mio padre si soffermò nella saletta di trattenimento, io mi portai nello studio medico di mio fratello Aurelio per prendere la siringa da praticare a mio padre. La porta dello studio era chiusa a chiave e, al tentativo che feci per aprirla, dall’interno mi risposero due voci, quella di mia madre e quella di mio fratello i quali mi invitavano ad attendere. Senza indugiare, attraverso il corridoio esterno mi recai nella stanza da letto dei miei genitori per prendere l’insulina, indi, ritornato nella camera da letto mia e di Aurelio, notai che lo studio medico era stato aperto e sentii chiudere la porta di entrata di casa. Mia madre mi chiamò e mi disse che mio fratello aveva ucciso un uomo e che si era andato a costituire. A questo punto mia madre, piangendo si diresse nella stanza dove si trovava mio padre. Io, prima che lei avesse raggiunto il luogo in.dicato, la fermai e le dissi che mi sarei subito portato da un amico di famiglia, il giudice Nicola Giacumbi di S. Maria Capua Vetere, per informarlo dell’accaduto e per farmi consigliare sul da farsi. Mia madre mi rispose che non ricordava con precisione se detto comune amico si fosse o meno recato al tribunale di Salerno. Nonostante detta precisazione io mi recai ugualmente dal Giacumbi, che però, così come aveva previsto mia madre, non era in casa.

Come dicono i banali, la realtà, è spesso più inverosimile della fantasia. A distanza di anni si incrociano i destini che portano a Santa Maria. Silvio Sacchi, un piemme della procura sammaritana, che finirà schiacciato dalla macchina infernale delle Procure (condannato a vari anni di reclusione e radiato dalla magistratura) anni prima, quale Sostituto Procuratore della Repubblica di Potenza, aveva arrestato gli autori dell’omicidio Giacumbi, IL GIUDICE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SALRNO - ASSASSINATO DALLE  BRIGATE ROSSE - 

“Ritornai – continua il suo racconto Mario Tafuri – e, nel frattempo, mia madre aveva già dato notizia della faccenda anche agli altri miei famigliari. Una circo.stanza che vi riferisco e che, però, ora non mi appare più strana, è quella relativa a una bacinella, posta al centro dello studio, nella quale ardevano delle carte ancora incenerite. Domandai a mia madre il motivo per cui erano state bruciate delle carte e lei mi rispose che, quando era entrata nello studio, aveva trovato che dette carte già bruciavano e che mio fratello, prima di andarsi a costituire, le aveva raccomandato di incaricarmi di bruciare alcune carte che erano nel suo armadietto, con preghiera di non guardarle. Ritengo che le carte che io avrei dovuto bruciare e che poi non feci, in quanto le cose precipitarono, debbono essere quei disegni che voi carabinieri poi sequestraste”.

Maggiore Pallisco: “Che sapete sul delitto di vostro fratello?”.

Mario Tafuri: “Non sapevo assolutamente dell’esistenza degli indumenti intrisi di sangue rimasti da mio fratello nella nostra abitazione e in special modo io, che sono stato coricato a causa di influenza dall’undici pomeriggio fino al 14 marzo. Poi, appena alzatomi dal letto, con la macchina di mio fratello, guidata dall’autista di mio cugino, Mario Di Lorenzo, mi recai a Salerno dove avevo appreso che il giudice Giacumbi era presso la famiglia della sua fidanzata. Prima di partire per Salerno dovemmo cambiare la ruota che si era frantumata e a ciò provvedemmo presso il gommista Carmine Aulicino”.

Maggiore Pallisco: “Conoscevate Anna Maria Novi, l’amante di vostro fratello?”.

Mario Tafuri: “La conoscevo, lei mi fu presentata dallo stesso mio fratello, alla presenza di mio cugino Giovanni Tafuri. Fu in occasione di un banchetto che tenemmo presso il ristorante “Il Boschetto” di Castelvolturno al quale parteciparono oltre alla Novi, mio fratello e mio cugino, anche l’ingegnere Egano Lambertini che poi ho saputo era il primo amante della donna. Non conoscevo bene, invece, il giovane Gianni De Luca, perché l’avevo intravisto un paio di volte. Una prima volta, circa due mesi or sono, mentre conversava con mio fratello Aurelio fuori dal portone di casa mia, e una seconda volta il 29 febbraio scorso, verso le 14,30 in via Sirtori, qui in città, a bordo di una 600 Fiat verde targata Napoli, sempre in compagnia di mio fratello”. 




LO STOICO SUICIDIO COL FUCILE AVENDO UNA MANO SOLA 

MARIO TAFURI 


Le passioni del farmacista Mario Tafuri: il Teatro, l’amicizia con  Nino Manfredi e la ricetta della minestra maritata


di Ferdinando Terlizzi

Non tutti sanno che Mario Tafuri, farmacista, figlio di Don Manlio ( farmacista ) è il fratello di Aurelio, medico dermatologo,  che nel marzo del 1960 uccise il giovane studente Gianni De Luca  per gelosia. Gli piazzò un punteruolo nel cuore e dopo averlo legato lo scaraventò nel fiume Volturno dalla Scafa di Caiazzo.  Subì 4 processi ( il piemme chiese l’ergastolo) difeso da Giuseppe Garofalo, Alfonso Martucci, Ciro Maffuccini, Giuseppe Marrocco e Enrico Altavilla  fu condannato a 24 ma ne scontò soltanto 14. Oggi è quasi cieco.






Mario Tafuri è stato da tutti d
efinito “portatore di manie e fobie” più gravi di quelle - presunte - addebitate al fratello Aurelio. Ma tutti lo ricordano per la sua bonomia e principalmente per le sue attività filantropiche. Nel giugno del 2004, in occasione della morte di Nino Manfredi,  io ottenni  una lunga intervista da Mario Tafuri, sull’amicizia che lo legava all’attore romano. Fatti integralmente riportati nel mio libro “Il delitto di un uomo normale”.



  “Ci siamo conosciuti negli anni Ottanta a Scauri - ricorda Mario Tafuri - nella circostanza gli parlai della mia passione per il teatro, della filodrammatica con la quale davamo sfogo alla nostra passione di dilettanti. Si interessò subito e io azzardai la richiesta di venirci a vedere perché stavamo allestendo La Fortuna con la Effe maiuscola. Mi rispose: “Non so gli impegni che avrò a marzo, ma fammi sapere”.  Il 20 marzo dell’88, gli telefonai per dirgli che due giorni dopo ci sarebbe stato lo spettacolo. “Ma il 22 è il mio compleanno rispose” e gli replicai che quale occasione più bella di festeggiarlo in mezzo a noi. La sera del 22 la filodrammatica ebbe l’onore di recitare con uno spettatore d’eccezione in platea: Nino Manfredi. Al termine salì sul palcoscenico ed ebbe per noi parole di apprezzamento. Nel 1992 mi propose di tradurre in napoletano la sua commedia Viva gli Sposi. Mi sentii lusingato e per tre mesi mi sono recato a Roma una ventina di volte per sottoporgli il copione tradotto. Quel copione - che lui aveva corretto e visionato - lo conservo come un Vangelo. E quando dopo qualche anno - prosegue Mario Tafuri - smettemmo di recitare e Nino Manfredi me ne chiese il perché, a me sorse spontaneo dargli una risposta: “Caro Nino è la mia città che non ci merita più”.



Mario Tafuri, ha anche un’altra passione oltre al teatro: la cucina. Famosissima la sua ricetta per la “minestra maritata”, ricetta ereditata dalla mamma, che a sua volta l’aveva imparata dalla nonna a Curti. Il segreto? Gli ingredienti.  “La fase più importante” dice Mario Tafuri “è la preparazione del brodo, per il quale sono indispensabili i seguenti ingredienti: carne di manzo (punta di petto), bamboncello (stinco di maiale salato), carne di pollo (ruspante), salsiccia dolce di maiale, salsiccia forte, annoglia (insaccato di stomaco e intestino tenue di maiale), pezzentella (insaccato di carni suine e di cotenne), guanciale salato di maiale, osso di prosciutto salato, carota, sedano e cipolla”.









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