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domenica 18 agosto 2013

BEI TEMPI... LE CASE CHIUSE A CASERTA E PROVINCIA

Storia & Costume & Società
1968:  La sera si andava nei postriboli

LE CASE CHIUSE A CASERTA E PROVINCIA

Un sogno spento con l’avvento della Legge Merlin. La riapertura e i referendum-  



      Caserta – ( di Ferdinando Terlizzi ) -  La sera, a Caserta, negli anni Sessanta, si andava nei bordelli.  Più conosciuti come “Casini”. Il più frequentato era “Villa Tanya”, che era situato quasi sul cavalcavia che porta al Vialone Carlo III°. L’altro, anche abbastanza “accorsato”, si chiamava “Villa Bettyna”, ed era dislocato, poco lontano dal primo, per ragioni logistiche e di frequentazioni. A Caserta ve ne era un terzo, ma ebbe poca storia il “S. Carlino”, era ubicato in Via S. Carlo, ma la sua sfortuna (come Casino s’intende) era rappresentata dal fatto che vi era una Chiesa nelle vicinanze abbastanza frequentata. Le cronache dell’epoca dicono, però, che i più assidui frequentatori del postribolo “S. Carlino”, erano proprio i preti. Ciò non dovrebbe affatto impressionare perché, per esempio, a Pompei, prima che venisse distrutta, i casini erano 25 e tutti frequentati dai monaci e preti, come ampiamente ci ha dimostrato la storia. A Santa Maria Capua Vetere i postriboli, invece, erano due, “La Porta” e “Il Portone”, entrambi ubicati a via Degli Orti.  L’uno di fronte all’altro. Io ero “quasi di casa”, abitavo infatti, a pochi passi, al primo tratto di Via Torre, oggi via Fratta, in quel complesso patrizio che è il “fortino” di Pasquale Iannuccilli,  affermato avvocato civilista. Il secondo tratto è stato intitolato ad Alberto Martucci, padre dell’avvocato Alfonso.
     La sera, spesso si usciva dall’uno e si entrava nell’altro. Senza fare “niente”, senza “realizzare”. Anche se c’era il desiderio sessuale... mancavano i soldi. Il più “attrezzato” era il portone, gestito da un certo Rino Ranghieri, un polentone, che “importava” continuamente delle romagnole, specialiste nel “sesso orale”, molto più brave della “stagista” americana che, con un’apertura di patta, ha messo in ginocchio la Casa Bianca. Le donne erano tutte “belle” (da lontano?) piene di “stucchi”, ma quello che contava però, è che erano “pulite”, nel senso che si lavavano. O almeno così sembrava, anche se riuscivano molto bene a confondere il loro “pessimo” odore, con un fortissimo profumo.
     Il pericolo che si correva di più, era, il rischio del contagio, anche se non si prendeva l’Aids, perché allora non era conosciuto, ma si prendevano, con una certa facilità, malattie veneree (sifilide, lue etc. etc.). E... nonostante i severi controlli, spesso, c’era qualcuno che doveva correre in ospedale. Un inciso, sulle malattie come l’aids, oggi, c’è una nuova tendenza. Infatti l’Aids coi “capelli bianchi” è una nuova caratteristica della propagazione del male e si sta diffondendo in particolare tra i cosiddetti “insospettabili”: anziani e pensionati.  La notizia è stata diffusa dall’infettologo Ferdinando Aiuti. Dal primo gennaio al trenta giugno nella nostra regione si sono avuti 11 casi di Aids. Mentre 12 sono stati i casi registrati in Caserta e Provincia. In Italia un’infezione ogni 2 ore!
     Intanto bisogna registrare anche il fatto che ogni anno raddoppiano in Italia i casi di sifilide, la pericolosa infezione genitale. La patologia che si credeva quasi debellata, è tornata a colpire soprattutto i maschi adulti.  Nel 2012 abbiamo avuto - dice il professor Aldo Di Carlo, direttore di Dermatologia Infettiva all’Istituto San Gallicano di Roma - 140 casi di sifilide contro i 7 del 2011 . Mentre dobbiamo, purtroppo, registrare 4 morti di Aids nell’OPG d’Aversa. Già nel marzo di quest’anno, però, l’On. Francesco Saverio Caruso in una interrogazione aveva denunciato la grave situazione di disagio dei ricoverati presso il Filippo Saporito di Aversa. Anche l’Associazione “Antigone” attraverso il suo rappresentante Dario Stefano Dell’Aquila, ha denunciato le carenze igienico-sanitarie del nosocomio criminale. Dal canto suo il direttore Adolfo Ferraro ha detto che la causa è il sovraffollamento.  Ma ritorniamo ai bordelli nostrani.
     La sala d’ingresso delle “Case chiuse” (ma perché si chiamavano “case chiuse” se poi erano aperte giorno e notte?) erano come le hall dei Grand Hotels. Un profumo accattivante ti investiva appena entravi. Alla porta d’ingresso stazionava, di rigore, un “buttafuori”, che appena mettevi il piede dentro ti chiedeva: “Hai la tessera?”.  Dovevi aver compiuto 18 anni, per avere diritto all’ingresso nei “Casini”. Quanti di voi hanno rischiato di andare in galera per aver falsificato la carta d’identità? All’interno c’erano grandi e comodi divani tutt’intorno al grande salone. Una scala portava direttamente alle superiori “camere dell’amore”.
         Una “reception” con una cassiera (quasi sempre in abiti succinti, ex prostituta, amante del tenutario, grassa, con le tette da fuori, ma accattivante, d’obbligo con la sigaretta accesa) “maitresse”, che guardava i suoi interessi e i suoi “uccelli” da vicino... molto da vicino! “Marchette” (come il titolo del programma di Piero Chiambretti su “La7”) così si chiamavano gli scontrini che davano diritto alla “scopata”. All’epoca la “marchetta” semplice (per “semplice” si intendeva una toccata e fuga, senza prestazioni extra), costava trenta lire (un centesimo e mezzo di euro) lo stesso costo della visione di due Films al “baraccone”, il cinema Politeama di S. Maria C.V., allora gestito dal padre di Ferdinando Rotta.


    Il controllo delle autorità era molto rigoroso, sia sotto il profilo delle misure di pubblica sicurezza e di buon costume, e sia sotto il profilo della sanità. Ma come tutte le cose all’italiana (come esplicita anche una canzone napoletana, “cà bbona maniera, faccio cadè ‘o brigadiere, io le venco ‘o mestiere”), si commettevano gli abusi e le particolarità.  C’era e c’è, insomma, sempre il modo di “fottere” e non pagare. C’erano, e ci sono ancora oggi, tra le forze dell’ordine, e specialmente tra i finanzieri, le preferenze e le corruttele; c’era chi in cambio di una “scopata”, chiudeva un occhio, per non chiuderne due, quando era costretto, per debito coniugale, a scopare con la propria moglie.
     Normalmente, la camionetta della “Buoncostume” della Questura, la notte, faceva il giro di tutti i bordelli della provincia di Caserta (i più frequentati erano Caserta, S. Maria, Capua, Aversa e Sessa Aurunca) e gli uomini della P.S., una volta entrati nei locali, chiedevano i documenti a tutti gli astanti.  Spesso cadevano nella rete increduli latitanti o pregiudicati della zona, che aspiravano al ruolo di protettori o mantenuti ufficiali delle prostitute. Allora non si chiamavano “sfruttatori”, perché lo sfruttatore ero lo Stato, che lucrava con le tasse sulle marchette, ai danni delle puttane e dei clienti. Il ruolo dei “magnaccia”, dei “papponi”, dei “ricottari”, e quant’altro, è venuto fuori dopo la promulgazione della legge Merlin. Tuttavia, sotto il profilo sanitario, come detto, c’era una certa sicurezza.
     Il dr. Giuseppe Cenname, sanitario comunale di S. Maria C.V., infatti, aveva l’obbligo di sottopor.re ad analisi e visite mediche ogni settimana tutte le prostitute del suo circondario. Ma le malattie veneree erano in agguato, perché quasi tutti preferivano - anche per non farsi notare nei “Casini” da amici o conoscenti - frequentare puttane che esercitavano in casa il “mestiere più antico del modo”. Queste, però, spesso, erano portatrici di gravissime malattie, perché non risultavano schedate come prostitute, per cui non erano soggette neppure al controllo sanitario o di pubblica sicurezza.
     A quei tempi, una vera e propria “istituzione”, era Maria  detta “la capuana”, più conosciuta, però, come “Zazzà”, che esercitava il “mestiere”, nella sua abitazione alla Via Dei Ramari. “Zazzà” aveva iniziato al sesso quasi tutti i giovani dell’epoca.  Un giorno, però, venne purtroppo trovata assassinata, si presume da un ignoto cliente, che non trascurò di asportare un congruo bottino. Il delitto è rimasto per sempre impunito.  Per un certo periodo di tempo, però, circolò, con insistenza la voce - ma gli inquirenti non trovarono adeguati riscontri - secondo la quale a commettere il delitto era stato un giovane di modesta famiglia, divenuto poi improvvisamente un facoltoso imprenditore.  Il suo profilo?  Sammaritano, famiglia numerosa assai in vista, imparentata con i boss vecchio stampo. Fratelli e figli con numerose attività commerciali. Se non fosse morto, tragicamente (pare in un incidente aereo), nel 2005, oggi avrebbe quasi 70 anni.
     I giornali dell’epoca  del 20 ottobre 1969 titolarono: ”Una mondana di 61 anni uccisa a colpi di forbici”. Maria Orlando, detta “Zazzà”, è stata assassinata nella sua abitazione di Santa Maria Capua Vetere  alla Via Dei Ramari, in  una stretta via che da Piazza S. Pietro porta alla Villa Comunale.  Le ferite inferte con spaventosa ferocia hanno raggiunto la donna al petto ed alla gola. Dai primi accertamenti sembra che la sventurata abbia ingaggiato una furibonda colluttazione prima di soccombere sotto la furia omicida dell’aggressore. Il delitto è stato scoperto ieri sera verso le 21 dal carabinieri ai quali si era rivolta una vicina di casa dell’Orlando preoccupata di non averla vista per tutta la giornata.
      I militi, entrati nell’abitazione della vittima, in via Ramari 20, hanno trovato la donna sul pavimento della stanza da letto immersa in una pozza di sangue. Accanto al corpo esanime un grosso cane bastardo che guaiva. Tutta la stanza era in disordine: alcune sedie erano rovesciate e molti soprammobili trascinati per terra. I cassetti del comò erano aperti e la biancheria era stata gettata alla rinfusa. Gli inquirenti, durante la perquisizione, hanno rinvenuto nascosti in una grossa scatola buoni fruttiferi e dollari per un ammontare di 5 milioni di lire. Inoltre su una finestra sono state rinvenute un paio di forbici lavate di recente, sulle cui lame erano visibili alcune macchie, forse di sangue. I carabinieri non escludono che le forbici siano l’arma del delitto, il cui movente resta tuttora oscuro. La morte — secondo i primi accertamenti — risale a sabato sera. La donna aveva un cuscino pieno di soldi ( svariati milioni )O che però non è stato mai rintracciato.

      All’epoca - un accorsato dispensario di “sifilide” era anche il campo profughi di Capua - che andava di moda frequentare, in alternativa ai postriboli. Si aveva l’illusione di accompagnarsi a una donna “normale”, non a una puttana. Ma era solo una illusione. Il Campo profughi di Capua, infatti, era pieno di ragazze dell’Est che, per raggiungere i paesi dell’Occidente, sceglievano di passare per l’Italia, dopo aver pagato il tributo con la loro verginità (ammesso e concesso che fossero ancora vergini, ma in genere, in questi paesi, la donna, già a 12, 14 anni veniva sedotta, se non dal fidanzatino, dal padre o dal fratello), cedendo alle richieste dei “Vopos”, le crudeli guardie dei confini, che sottoponevano le “ragazze” a uno stupro di gruppo, sotto l’occhio vigile del comandante del picchetto, come ci ha ampiamente dimostrato poi, la pubblicistica, all’indomani della caduta del muro di Berlino. Cambiano solo le nazioni di provenienza. Allora Iugoslavia, Polonia, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia. Oggi Albania, Ucraina e in prevalenza dai paesi del sud america e da tutti i paesi africani.  E scopano tutte per le strade (non già che scopano le... strade), e dispensano malattie gravissime ai depravati, che poi inesorabilmente inguaiano mogli, amanti e fidanzate.
     I postriboli anti Merlin erano frequentati da tutti. I più tenaci erano i funzionari di Stato: poliziotti, carabinieri, finanzieri, magistrati, vigili urbani e affini, che spesso abusavano, come abusano oggi, delle loro funzioni per “estorcere” (anche lì?) “marchette” e prestazioni gratis.  Ci andavano giovani e meno giovani.  I primi ci andavano per “registrare” immagini, per poi utilizzarle, con il “feed-back”, in sede di “petting”. Cultori dell’onanismo - come è noto - sono tutti gli uomini, di qualsiasi età. Addirittura nel libro “Io e lui”, Alberto Moravia, riferendosi a un immaginario colloquio col proprio “membro ” dice tra l’altro: “È bello il fai da te, masturbarsi, magari davanti ad uno specchio, guardare un film porno o sfogliare delle riviste hard. Raggiungi così tre risultati contemporaneamente: il primo, perché non paghi niente; il secondo, perché non corri il rischio di contagio o infezioni; e il terzo, perché “virtualmente”, puoi possedere - nella tua immaginazione si intende - la donna che più ti piace... senza che lei se ne accorga”.  Confermando la tesi di Gaetano Salvemini: “La fantasia è il miglior afrodisiaco”.
      Secondo Paolo Franchi, regista del film “Nessuna qualità agli eroi”, presentato alla mostra di Venezia a Settembre 2007, invece, la “masturbazione è un gesto anarchico”.  Nel film è rappresentata una scena dove, durante un convegno di pittura - “nel sogno delirio” del protagonista la masturbazione è una grande ribellione anarchica, politica esistenziale di fronte all’autorità del potere dell’arte. A proposito poi, del “fai da te”, un tempo girava una leggenda (metropolitana?) che narrava di quel cantante americano, che si era fatto togliere una costola, per riuscire a piegarsi fino al punto di fare l’amore orale con se stesso.

     Ma ritorniamo ai bordelli e diciamo subito che le frequenze erano di tutte le età. Nelle sale d’aspetto dei bordelli, si notava subito la differenza, tra chi saliva in camera ed aveva un amplesso di un solo minuto, del tipo: “Pic, già fatto?”; e chi, invece, aveva la possibilità di restare per un tempo più lungo e regalare alla donna una “mancia” competente. E sì. Perché nei bordelli e nelle carceri, si nota veramente la differenza, tra chi ha un soldo da spendere e chi, diversamente, è costretto a sognare e vivere d’aria fritta. Spesso la sala era gremita di uomini, che restavano per un tempo interminabile immobili, imbambolati, esterrefatti, ad ammirare le “fattezze” delle puttane, che giravano, con delle vestaglie velate, trasparenti.  La merce disponibile era la più varia: dalle trippone con delle tette enormi e culi a promontorio, a quelle snelle, accattivanti (per chi?) fatalone, che si innamoravano - ad ogni scopata - e avevano gli occhi languidi del tipo “balocchi e profumi”.
     Allora interveniva “la maitresse” che incitava i clienti con una frase fatta, sempre la stessa: “Forza! Siete diventati tutti froci? In camera! In camera!”.  Il grido di incitamento era perentorio, come quello del capostazione, che dopo il fischio esorta: “Signori, in carrozzaaaaaaa!! Si parteeee...!”. Le donne che avevano scelto di fare la “vita”, erano quasi tutte vincolate da contratti che le legavano agli impresari del sesso, i quali, in genere, avevano una catena di “Case di tolleranza” in tutta Italia. Spesso le peripatetiche chiedevano di essere “liberate”, cioè di avere il cartellino libero, come quello dei calciatori. Perché? Era successo che un militare, uno studente universitario o un facoltoso imprenditore, si era innamorato di una di loro.

    È vero! Ci si può innamorare di una puttana? Molti casi hanno  dimostrato che non solo ci si può innamorare, ma per una sgualdrina si può addirittura arrivare al delitto. Questo era il bordello. Aveva il suo fascino. Ma soprattutto non giravano spinelli o altri tipi di droga. Non c’era il “Viagra”, né quello dei ricchi, né quello dei poveri, come quello inventato dal farmacista Roberto Tafuri, nipote di Aurelio e figlio del famoso “vevier”.  Per i giovani dell’epoca il “Casino” era l’unico passatempo, non c’erano “pub” o “discoteche”. Ma oggi i giovani pensano poco al sesso, e si trastullano coi “messaggini” sul cellulare, rovinandosi con “overdose” di droga e spesso ci rimettono le penne. Fanno poco e male il sesso, almeno così dicono le ragazze.
     Quasi ogni sera si partiva per visitare i “sepolcri”.  La via “Crucis” faceva tappa in ogni bordello, dopo quello di Santa Maria si passava prima a Capua e poi a Caserta, e se il tempo lo permetteva, si arrivava fino a Napoli. Spesso non era “gratificante” girare tutti i locali, perché le donne erano sempre le stesse: da un casino passava.no a un altro. Quando c’era un nuovo arrivo (nuovo per modo di dire, ma era già usatissimo), perché proveniva da altri casini, si spargeva la voce e tutti correvano a quel locale.
     I casini a Napoli avevano un altro fascino, ma costavano di più e per molti sono rimasti una “chimera”. I più frequentati a Napoli erano il “43” a Piazza Dante, il “51” al Vasto o il Trocadero (il locale frequentato dalla Novi, la donna diventata amante di Aurelio Tafuri), o il “Rosso e Nero” sulla Caracciolo, che erano locali notturni, e quindi Casini di giorno e di notte.  Nella zona dove oggi vi sono “Pinterrè” e “Rosso Pomodoro”.
     I casini di serie “A” erano quelli della centralissima via Chiaia, centro di eleganti e ricercate case di tolleranza, vicine e del tutto contrapposte a quelle, scadenti ed improvvisate, che pullulavano nella confinante zona dei Quartieri Spagnoli. “Il Monferrante”, (Vico Sergente Maggiore) era il locale per soli uomini più frequentato a Napoli prima dell’avvento della legge Merlin. Un altro storico Casino era quello di Salita Sant’Anna di Palazzo, detto anche “La Suprema”, la più rinomata casa d’appuntamenti della città, attualmente sede del lussuosissimo “Chiaja Hotel de Charme” (via Chiaja n°261). Le stanze della casa prendevano il nome dalle “professioniste” che le utilizzavano per i loro incontri, segreti ed appassionati, con i clienti: “Mimì do’ Vesuvio, Anastasia a’ friulana, Nanninella a’ spagnola, Dorina da Sorrento”.

     Tra le oltre settanta case chiuse ancora attive a Napoli al 20 settembre del 1958 (entrata in vigore della Legge Merlin) quella più frequentata era la “Pensione Gianna” al Vico Cordari, la marchetta (materialmente un gettone, in ottone traforato al centro con un il nome della Casa inciso sul bordo, o anche a volte, un semplice talloncino di carta) costava 250 lire un quarto di Euro. E poi i postriboli (ben descritti ne “La Pelle” da Curzio Malaparte) erano dislocati in ogni dove: il 98 a via Dei Fiorentini, il n° “1” nei pressi della Ferrovia a via Milano, il “3” alla via Nardones, il “10” al largo Barracche (Quartieri Spagnoli – costo della marchetta 3,30 lire); il “18” ed il “24” erano alla via Ponte di Casanova, alla Porta Capuana, poco distante dal Tribunale e dal carcere.
     Il “21” si trovava alla Calata S. Marco, il “22” al Corso Garibaldi, il “51” si trovava nei pressi di Piazza Mercato al vico Zappari, il “52” alla via Nilo; il “54” e il “58” alla via Giacomo Savarese. A ridosso della via Toledo vi era il “Dollaro” locale di alto profilo. Nei pressi dell’ingresso inferiore del parco Comolo-Ricci c’era l’Internazionale. Alla via Chiatamone, invece, pare che ci fosse una casa chiusa che veniva denominata “Casino degli specchi”. Altri casini erano al Torrione S. Martino, il Palumbo ai Gradoni di Chiaia, il Fracassiello, situato tra via Pietro Coletta e Castelcapuano.
     Giunto nel bordello, dopo aver focalizzato la donna che più ti piaceva, dopo aver ascoltato, come una nenia, la voce della stessa che anticipava oralmente, contorcendo il corpo, come nella danza del ventre, le cose che sapeva fare e il repertorio che avrebbe sciorinato sul letto, qualora tu l’avresti scelta, passavi alla “cassa” e pagavi la “marchetta” per andare in camera. La cameretta era semplice, l’essenziale per un rapporto fugace: un lavandino, un bidet, uno specchio, una consolle ed un piccolo letto. L’impatto iniziale era curioso - almeno per i neofiti - in quanto la donna provvedeva ad ispezionare l’oggetto dell’uomo, per controllare se fosse o meno affetto da una malattia venerea, poi, sapone alla mano, passava, come olio di gomito, a lucidarlo... Poi lei stessa si lavava, con larghi e sensuali gesti (che, però, a volte ti facevano vomitare, al semplice pensiero che già mille e più uomini avevano usato la stessa donna...) e profumatasi di tutto punto, raggiungeva l’uomo sul letto per fare l’amore.
     Questo nella teoria. Nella pratica, spesso non si riusciva a realizzare. Vuoi perché l’amore mercenario non è per tutti uno stimolo, vuoi per l’ambiente o per altre ragioni, molti, anzi moltissimi, per non dire tutti, almeno i giovani, per non fare brutte figure con i compagni, che attendevano di sotto, salivano in camera, si spogliavano e si rivestivano in fretta, dando l’impressione a tutti di aver realizzato. Non era così. Invece era un vero “forfait”; oggi si direbbe un “problema di erezione”. La donna, la puttana, l’artista del sesso, si sentiva quasi offesa dalla mancata erezione e la prendeva come un affronto personale, come una sfida (certo, per lei, che per mestiere avrebbe dovuto far rizzare i “cazzi”, era un vero fallimento) attribuendo magari, alle sue scarse capacità, la “debàcle” dell’uomo.
     Certo, il povero Freud avrebbe potuto facilmente spiegare che in quel momento era avvenuto uno sdoppiamento della personalità e che la parte retriva dell’uomo si era ribellata. Oppure che cose era successo? Forse una cosa come quella volta, quando Nanninella era intenta a fottere con un cliente e arrivò gridando Carmela che diceva: “Nannineeee... è asciuto ò sirece nziemo o cinq...”. E la puttana da sotto al suo cliente che chiedeva: “E po’ qualati nummero so asciuto...?”. L’uomo che stava sopra la donna in piena concentrazione rimaneva frastornato dalla scena e si ammosciava. E allora la donna insisteva, cercava di rianimare quel coso che “Sé addurmuto ncoppe è coscie… e nun si sceta manco quanno piscia…”Non ci riusciva, nonostante ogni artificio...

     Dopo la “marchetta” la puttana, ancora nuda, si accendeva l’ennesima sigaretta, indossava la sua vestaglia velata e ridiscendeva in sala, in cerca di un altro “pene” o meglio di un altro “cazzo” da “rianimare” e un altro “pollo” da spennare! E... a proposito di “cazzo”, debbo puntualizzare che non tutti gli italiani sono disposti a chiamare “pene il pene” o “cazzo il cazzo”, anche se, non sarà segno di educazione forbita, ormai il termine è intercalare corrente, dai quindici ai novantanni, senza problemi, nel senso di “rafforzativo” dei discorsi, quando vogliamo sottolineare la nostra indignazione o viceversa l’entusiasmo. È come un punto esclamativo più sostanzioso, è il termine “cazzo”.
     Il primo a pronunciarlo pubblicamente fu Cesare Zavattini, che non sopportava le ipocrisie e lo fece alla radio, scoppiò un finimondo di polemiche. Oggi è tutto cambiato ma (bisogna riconoscere che siamo proprio buffi) quando dobbiamo parlarne nel senso autentico del termine, cioè come una delle tante definizioni del “membro virile”, scatta ancora, in alcuni di noi, uomo o donna che sia, una sorta di pudore che ne blocca la pronuncia. Infatti per alcune signore è l’innominato. Eppure non è più tabù al cinema, ne viene fatto un uso abbastanza disinvolto anche in tv, in questa sede ne hanno addirittura approfittato le protagoniste del seriale “Sex and the City”, in Italia in onda su La7, diventata un cult per signore e signorine un pò snob: lo nominano in continuazione e con toni spesso entusiasti.
     Sono le donne che il sociologo Enrico Finzi definisce le “Evolute mondano chic” e costituiscono il 23% (contro il 24% delle “Bacchettone tradizionaliste”, il 22% delle “Timidone imbarazzate”, il 21% delle “Bonton scientifico-seriose”, e il 10% delle “Post sessantottine”) in un sondaggio che ci racconta come e quanto le italiane parlano del pene, condotto dalla Bayer e pubblicato in esclusiva in un dossier realizzato dal mensile “GEO”.  Il direttore, una bella signora, ci spiega nell’editoriale perchè ha voluto compiere questo viaggio intorno all’organo sessuale maschile.
    Un itinerario esplicito, che mira alla completezza: si va a ritroso nella storia, con gli antichi greci che lo veneravano. Si scava nelle ultime ricerche scientifiche, secondo le quali la capacità di godere è scritta nel Dna, insomma il piacere è questione di geni. Prima, però, si credeva che fosse una questione di palle! Ora, come ha meglio spiegato il Luca Giurato del Sud, alias Totonno è Montenero di Bisaccia, a Clemente Mastella che aveva dichiarato di “essersi rotto i coglioni” per le frasi di Di Pietro: “Clemè, per rompersi i coglioni ... bisogna averli!”.  Il tutto, quindi, si riduce ad una questione di “coglioni”.
     Ma ritorniamo a lui.  L’erezione è un processo ingegnoso che non sempre parte dal cervello. Per spiegare le diverse utilizzazioni della parola “cazzo” nel mondo si viaggia dall’Africa Oceania, con un reportage tra usanze tribali, dove i maschi di varie etnie racchiudono il pene in ogni sorta di astuccio, dalle zucche essiccate ai rivestimenti in foglie. Si viaggia anche nelle definizioni usate dalle donne nei vari paesi del mondo: le inglesi lo chiamano John Thomas (era il nome e cognome con il quale gratificava il suo cazzo Mellors il guardacaccia amante di Lady Chatterley) le giapponesi amono dire germoglio, narciso, fungo.  Nella Spagna di Zapatero è il “chorizo”, il salsicciotto più consistente che c’è, a Rio de Janeiro è il “pinto”, un tenero pulcino in portoghese. Nel mondo dell’inglese globalizzato in generale, è spesso definito “the big bamboo”.
     Un viaggio davvero totale, anche se a conferma di quel certo pudore, in copertina il pene è chiamato “lui” alla Moravia, il che salva capra e cavoli. In piccolo è definito il “fallo”, ma questo è un termine che turba di meno, perchè in genere si riferisce al repertorio artistico-storico: sono “falli” gli attributi di statue e oggetti curiosi.  Valli a capire i misteri del linguaggio. Quanto all’Italia come al solito ci dimostriamo i più ricchi di fantasia: se andate in Internet trovate ben 732 definizioni del pene, in un viaggio attraverso le regioni italiane. Insomma, riderci su fa bene, ma non sarebbe più semplice - dico io - dire pene al pene?  Salvo ricamarci sopra nell’intimità privata. Dove tutto è permesso ad esclusivo piacere e fantasia di coppia.  E dove ognuno è libero di chiamarlo come cazzo gli pare?
     A settembre del 2008 un decreto legge in Italia ha previsto carcere e multe per le lucciole e i clienti.  La prostituzione per strada diventa reato.  Dopo aver scritto questo piccolo “trattato” su puttane e sesso” quasi mi sono vergognato, perché l’ho inserito in un libro che tratta argomenti molto più impegnativi. Ma a settembre del 2008 ho dovuto ricredermi. Autorevoli organi di stampa come il “Corriere della Sera” hanno riportato con grande risalto i gusti sessuali degli italiani ed è venuto fuori (quello che ci ha anticipato nel suo Diario il marchese Camillo Casati Stampa) che il 65% degli italiani desidera avere un “mènage à trois”.

     Ma quello che veramente mi ha galvanizzato e mi ha anche rasserenato è stata la confessione dello scrittore 
Francesco Piccolo (casertano, autore di molti libri di successo): “le puttane mi eccitano” ed ha espressamente dichiarato:” (...) Se vedo per strada una donna seminuda, procace, di qualsiasi colore e di qualsiasi età, con l’aggiunta psicologica che con alcuni euro posso toccarla e farci sesso, io mi eccito. Posso vergognarmene, ma mi eccito. Se non sono solo, la guardo con uno sguardo veloce e fintamente distratto; se sono solo rallento e guardo più a lungo. Sono una persona colta, civile, consapevole. E infatti rinuncio al passaggio successivo, al mettere in atto ciò che il mio istinto bestiale mi suggerisce(...). Mi sono rassegnato a comprendere la seguente cosa: che la ragione civile e l’istinto bestiale convivono serenamente, non si curano l’un l’altro e se ne stanno insieme fino alla dipartita del contenitore”.




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