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domenica 18 agosto 2013

IL TRIBUNALE DELLE PUTTANE... NEL REGNO BORBONICO


Storia & Costume nel Regno Borbonico

Istituita a Napoli  “La Corte delle Meretrici”… ossia il  “Tribunale che giudicava reati delle prostitute ”. 




 In tutti i paesi, la prostituzione ha una storia antica. A Napoli anche particolare. L’antico obbligo imposto alle meretrici di esercitare il mestiere solo fuori le mura della città, aveva subito una modifica. Quelle che volevano esercitarla entro le mura, dovevano pagare una tassa: la gabella delle meretrici. Per la riscossione delle gabelle era stato creato un organismo specifico, legislativamente chiamato “la Corte delle meretrici”. Oltre alla riscossione della gabella, aveva anche funzioni giurisdizionali. Tutte le controversie civili, criminali e di qualsiasi altro tipo che coinvolgevano prostitute, erano sottratte alla giurisdizione ordinaria e devolute alla Corte delle meretrici, composta da un giudice, un cancelliere, scrivani e aguzzini.
     Praticamente come il Tribunale della “mondezza”, istituito a Napoli con decreto legge nel 2008, competente esclusivamente per i reati provenienti dalla gestione dei rifiuti. Quando la gabella era stata ceduta ai privati, la Corte delle meretrici, che ne curava la riscossione, era diventata più esosa del più ignobile dei lenoni al punto di costringere il viceré a ordinare un’inchiesta. La città di Napoli, dal cuore grande e generoso, a metà del ‘600 aveva pagato un milione di ducati per riscattare la gabella e liberare le sfortunate dallo sfruttamento. L’abolizione della gabella non significava, però, l’abolizione delle regole nell’esercizio della prostituzione. Le donne erano assolutamente libere di fare le prostitute, anzi godevano di protezione in materia di libertà sessuale al pari delle donne oneste. I divieti a cui erano assoggettate erano molteplici. Non potevano andare in barca lungo la Riviera di Posillipo; non potevano circolare né in carrozza nè in sedia, sole o in compagnia. A un’ora dal tramonto dovevano sparire dalle strade.
     La Costituzione di Melfi di Federico II, risalente al 1231, puniva con la pena di morte chi violentava una prostituta. Altro che legge sul “femminicidio”.  La Chiesa era meno tollerante. Le prostitute morte in peccato, fino alla metà del settecento, non godevano nè di funerale nè di sepoltura.  I cadaveri erano buttati giù dal ponte della Maddalena. Nel fiume Sebeto, poco distante dal Centro Direzionale di oggi dove sorge il Tribunale di Napoli. La libertà della prostituzione era assoggettata a regole imposte da leggi succedutesi nel tempo a tutela della pubblica moralità, violentata da gesti e comportamenti osceni. Poiché i divieti non avevano sortito l’effetto sperato, erano giunte disposizioni più drastiche. Erano state sfrattate, anche se proprietarie delle case dove abitavano, prima da Rua Catalana, poi da Toledo e obbligate a risiedere a Porta Nolana e a Porta Capuana. Qui era morta di peste la moglie di Masaniello, ridotta a fare la prostituta dopo la misera fine del marito. Le prostitute avevano aggirato l’ostacolo: invece che nelle abitazioni, soggiornavano in locande e taverne.
     Il governo era ricorso a contromisure. Con una prammatica del viceré Conte di Monterey, che si richiamava alla necessità di placare l’ira di Dio ed evitare al fedelissimo popolo di Napoli flagelli e tribolazioni, era stato vietato alle prostitute di abitare in locande e taverne. Il divieto era valido per tutto il Regno. Una delle prime preoccupazioni di Sua Maestà Carlo di Borbone, era stata quella di rinnovare la legislazione sulla prostituzione, andata col tempo quasi in desuetudine.
     A nome del Re, don Bernardo Tanucci (ministro di Grazia e Giustizia) aveva ordinato alla Gran Corte della Vicaria, il Tribunale preposto anche all’ordine pubblico, di intervenire. L’intervento era stato più che energico e non si era fermato al bando scritto. Il capo della Vicaria, il Duca di Giovanazzo, era intervenuto di persona a buttare fuori da porte e finestre, mobili e suppellettili delle prostitute che resistevano allo sfratto. Lo sfruttamento della prostituzione, che immeritatamente si addebitava ai camorristi, aveva anch’esso una storia antica come la prostituzione.
     La 37esima Costituzione di Ruggero il Normanno, promulgata nell’Assemblea di Ariano Irpino nel 1140, una delle prime leggi del Regno, per le ruffiane che inducevano alla lussuria donne oneste, prevedeva la stessa pena dell’adulterio: la frusta in pubblico e il marchio sulla fronte. In caso di recidiva, il taglio del naso.
     Ferdinando d’Aragona, nel 1480, aveva stabilito per i lenoni la pena di morte. Aveva varato anche una norma di prevenzione. Poiché la via per sfruttare una prostituta era quella di farla indebitare al punto di non essere più in grado di saldare il debito, aveva stabilito che alle prostitute non si poteva prestare una somma superiore a un’oncia, equivalente a sei ducati, e sempre che essa servisse unicamente per malattia, mangiare e vestire.
     I prestiti superiori a detta somma erano nulli per legge, e chi li faceva era soggetto a una pena ad arbitrio della Corte. Lo sfruttamento della prostituzione era un altro capitolo a basso reddito della camorra, perché non gestito a livello di vera e propria impresa sociale. Era un’attività, anche se piuttosto diffusa, di singoli camorristi, al momento iniziale della carriera. Per la verità la camorra non l’aveva mai esercitata direttamente, nemmeno ai tempi della “Imbrecciata”. Si era limitata, e continuava per questa via, a imporre tangenti agli sfruttatori delle prostitute, ai magnacci. Un traffico vero e proprio di prostitute non l’aveva mai fatto. D’Altronde era un campo difficile e pericoloso, perché sempre sotto gli occhi della Pubblica Sicurezza che gareggiava in sfruttamento facendo, a volte, la parte del leone.
     Il maresciallo di P.S.  Gennaro Ametta,  aveva fama di essere il più esoso. Non solo  pretendeva una percentuale sulla  “gabella” delle marchette… ma la sera esigeva per lui e per i colleghi accoglienza sessuale gratis… Senza dire poi, che già allora era una materia in continua evoluzione per la concorrenza che donne e ragazze perbene facevano alle professioniste. Un’avanguardia del massiccio esercito delle “Titine” e delle “Stelle filanti”.  Sfruttatori o non sfruttatori nel vero senso della parola, per tutti i camorristi la prostituzione era necessaria come l’aria.  Non si era vero camorrista se non si aveva intorno una nuvola di donne da mostrare, amare, sfruttare, e magari farsi sfruttare. L’investitura formale a camorrista la davano gli organi della Società, ma quella sostanziale veniva dalle prostitute, capaci di creare il personaggio o distruggerlo.
     I vantaggi veri che i camorristi ricavavano dal mondo della prostituzione erano le informazioni. Era un corpo informativo in tutti i settori, nettamente superiore a quello della polizia. La stessa Questura, quando si trovava in difficoltà, ricorreva direttamente o indirettamente alla prostituzione per avere indicazioni. Questa pratica è oggi meno diffusa, sia perché il posto di “informatore” è stato preso dai pentiti (e dai portieri) e sia perché quasi tutte le prostitute sono straniere. Ricordo, però, che negli anni Sessanta, quando ero cronista di nera per “Il Roma” spesso seguivo le “Volanti” del Commissariato di Santa Maria Capua Vetere. Vincenzo Iannetti, un maresciallo che dirigeva la squadra giudiziaria, veniva dalla vecchia scuola e mi diceva che spesso, arrestando la prostituta veniva fuori il nome d’un ricercato e spesso quello dell’autore di un crimine.


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