1982
1982: Le Br assaltarono la caserma Pica
a Santa Maria Capua Vetere e uccisero a Salerno
il giudice sammaritano Nicola
Giacumbi. Nel processo fu coinvolto il professore casertano Ferdinando
Iannetti, difeso dal Sen. Avv. Francesco
Lugnano, del Foro di S. Maria C.V. (insegnava
filosofia all’Università di Salerno ) ma
poi fu assolto. L’istruttoria fu portata avanti del giudice Carlo Alemi (casertano).
Condannato un favoreggiatore per il covo di Castelvolturno.
Il mare era
agitatissimo, il vento soffiava più forte del solito. Ma in pieno inverno era la fine di
dicembre, il marciapiedi di via
Caracciolo, lungomare considerato tra i
più belli del mondo, era
affollatissimo. La domenica mattina
pochi rinunciano allo spettacolo incomparabile che la città di Napoli offre in
quel luogo. Incoraggiati dal cielo
particolarmente sereno e dal sole sempre
caldo, seduti su un muretto, due uomini chiacchieravano. “Le basi di Roma sono
cadute” : Dal tono di voce sembrava piuttosto giù di morale. Dobbiamo
bilanciare l’offensiva e riaffermare la nostra
presenza. E per far ciò c’è bisogno di armi! “Certo, rispose l’interlocutore alquanto pensieroso - capisco”. Tra l’altro, come potremmo farne a meno nelle azioni contro le auto blindate?”.
L’uomo che sembrava non ascoltare all’ improvviso esclamò. Ma certo! La caserma Pica… le armi!”.
“Come?” - chiese turbato il primo -che cominciava a preoccuparsi.
presenza. E per far ciò c’è bisogno di armi! “Certo, rispose l’interlocutore alquanto pensieroso - capisco”. Tra l’altro, come potremmo farne a meno nelle azioni contro le auto blindate?”.
L’uomo che sembrava non ascoltare all’ improvviso esclamò. Ma certo! La caserma Pica… le armi!”.
“Come?” - chiese turbato il primo -che cominciava a preoccuparsi.
Non era
assolutamente impazzito e, raccolto ogni suo pensiero: ”E’ la caserma dove da
poco ho finito il servizio militare. Ero nel servizio di guardia e so molto
bene dove si trovano le
armi. .
“Sì, ma ora non ci sei mica tu a fare la guardia”… ironizzò l’amico.
armi. .
“Sì, ma ora non ci sei mica tu a fare la guardia”… ironizzò l’amico.
“Ma ti assicuro che assaltarla sarà un
gioco da ragazzi Ti spiego: è usanza in quella caserma…”
Fu una spiegazione dettagliata, alla fine della quale l’altro, che pareva convinto, disse: “Benissimo, decideremo il nucleo e fra qualche giorno lo riunirò per stabilire il piano. A presto”.
I due si separarono, e sparirono tra la folla.
Fu una spiegazione dettagliata, alla fine della quale l’altro, che pareva convinto, disse: “Benissimo, decideremo il nucleo e fra qualche giorno lo riunirò per stabilire il piano. A presto”.
I due si separarono, e sparirono tra la folla.
(Secondo la
ricostruzione degli inquirenti, il brigatista
Antonio Recano, napoletano, avrebbe parlato con Vittorio Bolognese,
suggerendogli come obiettivo per l’azione la caserma Pica, presso la quale
aveva prestato il servizio militare. Lo
stesso Bolognese avrebbe proposto anche a Vincenzo Stoccaro di partecipare
all’azione. Alla fine di gennaio si sarebbe riunito il nucleo composto da
Stoccaro, Bolognese, Emilio Manna, Stefano Scarabello e lo stesso Recano).
Un paio di mesi
dopo, verso la fine della stagione invernale, in una stanza della stazione dei
carabinieri, diversi uomini in piedi, alcuni dei quali in divisa, ascoltavano
il loro comandante che interrogava un
giovane seduto di fronte a lui. Ciò durava ormai da qualche ora, ma la
discussione non pareva assolutamente finire, anzi!
“Questa risposta
già me l’hanno data i militari che erano di guardia”. Il maresciallo era stato
calmo, ma l’atteggiamento del ragazzo cominciava a innervosirlo. “Ma è la
verità, ve lo giuro” insisteva il giovane. “Caporale Bertolino, le
dichiarazioni sue e degli altri militari sono assolutamente inverosimili.
Non resistette
più! Scattò in piedi facendo capovolgere la sedia, e sbatté violentemente il
pugno sul tavolo. Alzando brutalmente la voce, fece sobbalzare anche un suo
collega. “Devi smetterla di prendermi per il culo! La verità. . . la verità
voglio sapere, e da qua non te ne vai finché non me la dici, capito?”.
Seguì un profondo silenzio. Il caporale non ce la fece più. L’interrogatorio era stato pressante.
Scoppiò in lacrime, e abbassato il capo, nascose la faccia tra le mani. Poi, con voce bassissima: “E va bene, basta però, ‘vi dirò tutto”.
Seguì un profondo silenzio. Il caporale non ce la fece più. L’interrogatorio era stato pressante.
Scoppiò in lacrime, e abbassato il capo, nascose la faccia tra le mani. Poi, con voce bassissima: “E va bene, basta però, ‘vi dirò tutto”.
Qualche carabiniere fece un sospiro di sollievo. Il maresciallo era ancora troppo
nervoso, ma crollò sulla sedia, che intanto avevano rialzato, più rilassato. E ricominciò: “Allora, si
può sapere cos’è successo la notte dell’8 febbraio nella caserma?”.
Si fece dare un
fazzoletto e, asciugate le lacrime, cominciò. . .
“La mattina
deIl’8 febbraio assunsi il comando del corpo di guardia.
(Secondo il
rapporto del 22
febbraio 1982, inviato dai
carabinieri al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. Maria
Capua Vetere, il giorno 9 febbraio, ai
carabinieri arrivati sul posto, i militari di pattuglia e le sentinelle diedero
false testimonianze sui fatti accaduti quella
notte; mentre successivamente il comandante della guardia,
caporalmaggiore Silvio Bertolino sottoposto a scettico e pressante
interrogatorio non resistette e,
scoppiato a piangere, confessò tutta la verità).
La mattina dell’8 febbraio assunto il comando del
corpo di guardia della caserma A. Pica di Caserta, il caporalmaggiore Silvio
Bertolino aveva a sua disposizione 15 guardie, 2 caporali e l’autista. Nel
tardo pomeriggio, i ragazzi
della guardia si riunirono e, tutti accovacciati per terra, formavano un grande
cerchio. “Allora il turno da mezzanotte alle due è capitato a te, mio caro”.
“No, no! Che cazzo!” Uno solo si lamentava tra le risate degli altri, che lo
prendevano in giro
“E quando ti passa, che botta che fai!”… ripetevano in coro. ‘A vita è na ruota, guagliù, non ve lo scordate”, replicava lo sfortunato.
“E quando ti passa, che botta che fai!”… ripetevano in coro. ‘A vita è na ruota, guagliù, non ve lo scordate”, replicava lo sfortunato.
I ragazzi decisero, tutti d’accordo, di non effettuare
per intero i turni della notte,
e che il servizio venisse svolto dalla sola sentinella addetta alla porta
centrale, mentre tutti gli altri
andavano a dormire.
andavano a dormire.
“Attenzione, prego Attenzione! Giro la bottiglia per
il secondo turno”.
Questa ormai era
l’usanza in quella caserma, agevolata soprattutto dal fatto che durante le ore
notturne le ispezioni effettuate dai superiori erano molto rare., Un’abitudine tanto… istituzionalizzata da
spingere i militari a offrirsi spesso volontari per la comodità del servizio!
La bottiglia
indicò un altro di loro.
“Mi spiace, Ignazio - il tono del
compagno era molto ironico - ti fai il turno dalle 2 alle 4”.
“Ma porca puttana!” si limitò a rispondere, sempre tra le battute degli altri.
Quella notte dunque l’intera guardia era a letto, tranne la sentinella alla porta.
“Ma porca puttana!” si limitò a rispondere, sempre tra le battute degli altri.
Quella notte dunque l’intera guardia era a letto, tranne la sentinella alla porta.
(Dopo la
confessione del caporalmaggiore Bertolino, il Procuratore militare ordinò
l’arresto di tutti i militari componenti la guardia quella notte, responsabili
dei reati di abbandono di posto e violata consegna).
Finito il turno
di due ore, la sentinella smontò a mezza notte e le fu dato il cambio dal
soldato Ignazio Leone.
In quel preciso
istante cinque uomini discutevano a bassissima voce dall’altro lato del muro di
cinta, in un cortile adiacente.
“Saranno tre o
quattro metri, come facciamo?”.
“Ehi, guardate qua cos’ho trovato!”
intervenne uno di loro mentre trascinava una scala in legno. “Perfetto, ma
aspettiamo qualche minuto - e, rivoltosi ad
uno - tu comincia ad andare in
macchina e preparati ad entrare”.
( Avrebbero
formato il gruppo d’azione Stoccoro, Scarabello, Bolognese, Manna e Recano).
Erano le tre circa quando Ignazio Leone, che
passeggiava nelle vicinanze del cancello principale, d’un tratto si
immobilizzò: sentì la presenza di una canna di pistola dietro la nuca.
“Non avere paura, siamo le Brigate Rosse. Non
ti faremo assolutamente male, dobbiamo solo prendere le armi”. E,
costringendolo a precederli, si diressero verso il corpo di guardia.
Per non destare
sospetti, uno di loro, immediatamente indossati abiti militari sottratti ad una
guardia, prese il posto della sentinella. E, aperto il cancello centrale, fece
entrare una Fiat 127 con il
quinto uomo. Svegliarono uno per volta
tutti i militari, compreso il capoposto, sorpresi nel sonno.
I ragazzi addetti
alla guardia non si rendevano conto di cosa stesse accadendo. Li imbavagliarono, e, legati mani e piedi, li costrinsero con le
armi a sedersi per terra nella stanza adiacente alla camerata.
Ci volle più di un’ora per rendere l’intera guardia inoffensiva.
Ci volle più di un’ora per rendere l’intera guardia inoffensiva.
Un terrorista,
notando che i giovani cominciavano ad agitarsi, gentilmente si rivolse loro:
“Per favore, non fate rumore”. Poi, ad un suo compagno: “Allora, dov’è sto
deposito?”.
Sembrava che il secondo conoscesse molto bene la caserma. Rispose, infatti, con una certa sicurezza ‘Venite con me!”.
Sembrava che il secondo conoscesse molto bene la caserma. Rispose, infatti, con una certa sicurezza ‘Venite con me!”.
Raggiunta la
stanza che conteneva le armi, uno con un palo di ferro spaccò lucchetti e porta
ed entrati si impossessarono di bazooka, mortai, mitragliatori e tante altre
armi.
Poi in tutta
fretta caricarono l’auto parcheggiata nel cortile della caserma che, seguita da
una Fiat 5oo, si dileguò nel d buio.
Era quasi l’alba!”.
(Fu accertato
successivamente che dal deposito della caserma erano stati sottratti due
bazooka 88, due mortai da 6o, quattro MG
mitragliatori, due fucili mitragliatori, diciannove fucili automatici
cal. 7,62 NATO, una pistola
Beretta cal. 7,65, diciotto fucili Garand, ciascuno con
due caricatori completi di munizioni).
Verso le 6,30, in
un appartamento di Sant’Antonio Abate, a un uomo si vestiva in fretta. Un
altro, che dormiva sul divano della stanza d’ingresso, svegliato dai rumori,
chiese:” Ma dove vai a quest’ora?”.
“Un appuntamento!”. si limitò a rispondere il primo. E, sulla porta: ”Dormi, dormi!”.
Salì in macchina e si diresse verso Fuorigrotta.
Salì in macchina e si diresse verso Fuorigrotta.
Quasi
contemporaneamente, arrivava, nel parco ferrovieri, tra la stazione della metro di piazza
Garibaldi e dei Campi Flegrei, a piazza
S. Vitale, una Fiat 127 con due
uomini.
Parcheggiò e rimase in attesa.
Parcheggiò e rimase in attesa.
Verso le 7.00 arrivò l’uomo che, sceso dall’auto,
si avvicinò alla macchina.
“Allora, tutto
bene?”. Uno rispose: “Tutto a posto, solo che le armi sono quasi tutte
inefficienti. Mancano dispositivi ed otturatori”.
“Merda!” replicò
il primo.
Poi, dopo qualche
minuto di discussione, salì in macchina e andò via.
Risalì le scale del palazzo di Sant’Antonio
Abate ed entrato in casa, svegliò l’amico che ancora riposava.
“Alzati, c’è da lavorare”.
“Alzati, c’è da lavorare”.
Entrò nelle altre
stanze dove altri uomini dormivano. Li svegliò tutti. Si riunirono.
“Ma ch’è
successo?” chiese sbadigliando uno.
“I nostri
compagni stanotte hanno preso le armi
nella caserma Pica a Caserta e. . .“
“Come? -
lo interruppe il primo - e come mai non mi. avete avvertito?” .
“Si è trattato di un’azione di propaganda,
senza alcun obiettivo operativo rispose quello che era appena tornato - quindi
non abbiamo ritenuto necessario avvertire tutti!”.
Dopo aver spiegato l’azione. Della notte precedente: “Ora bisogna nascondere le armi, e ne abbiamo un auto piena. C’è bisogno dell’aiuto di tutti e subito!”.
“Andiamo a
prepararci”
(Acanfora
testimoniò che quella sera, insieme con Chiocchi, Sarnelli, Cotone e Planzio,
dormirono nel covo di Sant’Antonio Abate e che non prese parte né alla
preparazione né tantomeno alla esecuzione dell’azione, né fu avvisato
preventivamente. Sarebbe stato Planzio
la mattina, dopo aver incontrato Bolognese e Stoccoro, ad avvertirlo
dell’accaduto. Tali dichiarazioni ebbero la conferma di Planzio e di altri
responsabili: fu per questo assolto dai reati sub 43-44-46, del decreto di
citazione,
per non aver commesso il fatto; rispose, invece, per la parte avuta nella
fase successiva alla rapina, dei reati di porto e sottrazione delle armi alla
loro pubblica destinazione).
per non aver commesso il fatto; rispose, invece, per la parte avuta nella
fase successiva alla rapina, dei reati di porto e sottrazione delle armi alla
loro pubblica destinazione).
Alle 12,50 squillò il telefono negli uffici de “Il
Mattino”.
“Pronto?” … “Qui Brigate Rosse. . .“ cominciò la voce.
L’ addetto al
telefono prese al volo una penna e della carta
per annotare.
“Abbiamo
espropriato armi in una caserma di Santa Maria Capua Vetere!” e subito
riattaccò.
Durante tutta la
mattina diversi uomini andavano e tornavano nel parco ferrovieri raccogliendo
con borse e valigie le armi. Nel pomeriggio si riunirono.
Una parte la
sotterriamo a Bagnoli, un’altra parte non so… avevo pensato a Monte Sant’Angelo
- e, rivolgendosi ad uno più giovane -
l’ultima parte portala a quel nostro amico ma non dirgli niente”.
“Vado subito”.
Sceso con un
compagno, si diresse con una Fiat 128
bianca verso Mergellina. Svoltò in un vicolo della Torretta. Lì in
contrò un uomo.
“Antonio, sono venuto per chiederti una
cortesia, devi custodirmi della roba”.
“Di che si
tratta?”.
“Non ti preoccupare, è materiale di archivio…
libri”.
Non era convinto, ma accettò e prese con sé la
cassa, chiusa da lucchetti.
Quando
i due se ne andarono, caricò la cassa sulla propria auto e raggiunse la casa di
un amico. “Mi devi fare un piacere. Ho una cassa in macchina con un casino di
roba. . . sono libri e oggetti personali, ma non posso più tenerli. Puoi
custodirla per qualche giorno?”.
“E che problema c’è, certo”.
(Planzio avrebbe
chiesto il favore ad Antonio Fedele di custodirgli la cassa
dicendogli che conteneva materiale d’archivio, il quale, a sua volta,
avrebbe chiesto all’amico Del Renga di custodirla. Del Renga fu poi assolto in
quanto presumibilmente non era a conoscenza durante la detenzione della cassa
del suo reale contenuto).
I telegiornali avevano già ampiamente
annunciato la notizia della rapina a Caserta. Molti la sera rimasero incollati
dinanzi agli schermi per seguire la
vicenda.
Intorno alle 22
anche negli uffici de “Il Messaggero” a Roma diversi giornalisti
discutevano dell’evento. Ma, nonostante ciò, furono sorpresi dalla voce al
telefono: “Qui Brigate Rosse. Rivendichiamo l’assalto all’armeria di S. Maria
Capua Vetere”.
(Il giorno dopo,
10 febbraio 1982, una
telefonata all’agenzia Ansa di Genova e
alla redazione de “il Giornale d’Italia” segnalò la presenza di un comunicato
in un cestino per rifiuti all’angolo di via Cernaia con via Pastrengo. Una
copia del comunicato fu segnalato in un cestino a via Gallinari ai giornalisti
de “Il Messaggero” che trovarono cinque pagine dattiloscritte con una
fotografia Polaroid della armi rubate).
Ricostruiamo
l’avvenimento attraverso i dispacci dell’Ansa. Il primo lancio, del 9 febbraio
del 1982, parlava di: “Assalto di un “commando” terrorista a una
caserma vicino a Caserta adibita anche a deposito di armi e munizioni. I
terroristi (tre o quattro, il numero non è ancora stato precisato) hanno fatto
irruzione nella notte, dopo le 3, e sono poi fuggiti con un ingente quantitativo
di armi: 2 bazooka, 2 mortai, 19 fucili, 2 mitragliatori e 4 mitragliatrici,
proiettili e caricatori. L’irruzione è avvenuta nella caserma dell’esercito di
Santa Maria di Capua Vetere. In quel momento erano presenti 18 militari. Uno
era addetto alla sorveglianza armata, gli altri dormivano. La sentinella è stata disarmata e immobilizzata, gli altri -
sorpresi nel sonno - sono stati legati e imbavagliati. Durante l’assalto i
terroristi hanno dichiarato di appartenere alle “Brigate rosse”. Non è ancora
possibile sapere con quali mezzi si sono dati alla fuga col pesante bottino,
comprendente - secondo voci non confermate - anche un lanciamissili. La caserma
“Pica” (Dodicesimo deposito territoriale, novecento undicesima sezione di
magazzino) si trova in via Mario Fiore, nel centro di Santa Maria Capua Vetere,
un grosso centro del Casertano. Secondo alcuni testimoni i terroristi sarebbero
fuggiti a piedi, ma questa non è una tesi credibile poiché l’arsenale da essi
trafugato era troppo ingombrante per poter essere trasportato senza automezzi.
Gli investigatori ritengono che non molto lontano dalla caserma “Pica” c'era ad
aspettarli un altro gruppo di terroristi con automezzi. Polizia e carabinieri
stanno dando la caccia al “commando” in tutta la zona circostante con ingenti
forze. Quello di stanotte è uno dei più gravi assalti terroristici degli ultimi
tempi, effettuati con lo scopo di procurarsi delle armi.
Il giorno successivo i particolari erano
più chiari: ”Con un’azione da “commando” le Brigate rosse hanno espugnato il
deposito militare di Santa Maria Capua Vetere. Sopraffatte quattro sentinelle,
immobilizzati quattordici militari nel corpo di guardia, i terroristi si sono
impossessati di un vasto arsenale: due mortai da 60 millimetri, due bazooka da 88,
quattro mitragliatori MG, due mitragliatori Bren, diciannove fucili Fai. Si
sono anche impadroniti delle armi del corpo di guardia: 1 pistola Beretta e 17
fucili Garant con due caricatori per ciascuna arma. E’ il più grosso colpo
sferrato dal terrorismo ad una struttura dell’esercito e gli investigatori
guardano con preoccupazione al possibile uso delle armi. Sconfitte al
Centro-Nord, assediate dalla grande retata tesa dall’antiterrorismo, le Brigate
rosse mostrano “particolare” vitalità al Sud, con un’azione che i dirigenti
dell’ Ucigos di Napoli definiscono “un campanello d’allarme” per nuove imprese
eversive. Il “commando” era costituito da sei uomini. Le indagini si presentano
difficili. I terroristi hanno avuto tre ore di vantaggio sulle forze dell’ordine.
Erano le 6,30 di ieri quando uno dei militari di guardia è riuscito a spezzare
le catene che gli serravano i polsi e a dare l’allarme. La grande caccia si è
iniziata pochi minuti più tardi. Dei brigatisti, ancora nessuna traccia, in una
regione assediata, controllata auto per auto su tutte le strade di grande
comunicazione, sulle provinciali, sulle interpoderali. “Un assalto studiato nei
dettagli”, ha commentato il procuratore militare De Jasi parlando con il
colonnello dei carabinieri Falcone che per primo ieri è arrivato, sul corso
Umberto, alla caserma “Pica” di Santa Maria Capua Vetere. Il corso Umberto è la
strada principale della cittadina. Dista dal grande palazzo della Reggia di
Caserta sei chilometri. Per arrivarvi si deve superare il grande edificio del
carcere giudiziario. Dalla strada, l’antica Via Appia che conduce in direzione
Nord, si scorgono i camminamenti dell’edificio giudiziario con gli agenti di
custodia armati di moschetto. Per assaltare il deposito militare, i brigatisti
hanno scelto la notte. “Erano da poco suonate le tre - ha dichiarato il sergente maggiore che guida
la guarnigione - quando cinque uomini
mascherati si sono presentati con le armi in pugno nel corpo di guardia”. Un commando aveva già neutralizzato le due
sentinelle di ronda al muro di cinta ed i due uomini di guardia al magazzino
delle armi. “Hanno affrontato quattordici uomini con metodo militare”, ha
osservato il sergente maggiore al sostituto procuratore Ettore Maresca che per
primo lo ha interrogato. La caserma “Pica”, un edificio ottocentesco di stile
coloniale, confina con i mille cortili degli antichi edifici di Santa Maria
Capua Vetere. Un muraglione di cinta mal ridotto si snoda per alcune migliaia
di metri. In più punti l’ostacolo è superabile. Alcuni paletti corrosi dalla
ruggine alzano la difesa della caserma con dei fili spinati. Per piombare nell’edificio,
i terroristi hanno scelto la masseria di Luigi Ventriglia, al numero 259 del
corso Umberto. Superato un arco imbiancato a calce, un pergolato si apre
all’interno della casa colonica. “Ecco la strada scelta”, ha detto Ventriglia
precipitandosi, trecento metri più avanti, nella caserma dei carabinieri. “Avevo
la scala distesa sotto il pergolato- ha dichiarato - l'ho ritrovata appoggiata al muro di confine”.
L’11 febbraio l’Ansa aggiorna la notizia con un altro lancio
che parla addirittura di arresto di
tutti i militari presenti nella caserma Pica: “Fermati i 18 militari di guardia
alla caserma assaltata dalle Br L’accusa è di “violata consegna”: avrebbero allentato la sorveglianza
alla caserma assaltata dalle Br. Si conoscono i nomi di quattro dei sei
terroristi del commando: Sono Mauro Acanfora, Vittorio Bolognesi, Antonio
Chiocchi e Crescenzo Dell’Aquila. Un
comunicato dei brigatisti. Sarebbero
stati identificati, con validi elementi di riscontro, quattro dei sei terroristi
che, nella notte tra lunedì e martedì, hanno assaltato la caserma deposito “A.
Pica” di Santa Maria Capua Vetere, sorpreso e sopraffatto le sentinelle di guardia,
impossessandosi di bazooka, mortai, mitragliatrici, fucili e munizioni. Si è
appreso inoltre che, per ordine della Procura militare, i diciotto uomini del
corpo di guardia presenti nell’armeria dell’esercito al momento dell’irruzione
dei terroristi sono in stato di fermo per sospetta violazione della consegna.
Dal primi risultati delle indagini - coordinate dal sostituto procuratore
Ettore Marasca e alle quali partecipano anche i giudici del Tribunale militare,
carabinieri, polizia, funzionari dell’Ucigos con largo spiegamento di uomini e
mezzi - tra i brigatisti che avrebbero partecipato all’azione di guerriglia, ci
sarebbe stato il prof. Mauro Acanfora, 32 anni, un organizzatore delle Br nel
Sud comparso nell’inchiesta sul sequestro dell’assessore democristiano Ciro
Cirillo. Insegnante di Torre del Greco, amico di Giovanni Senzani, arrestato di
recente a Roma, che per un certo periodo soggiornò nella cittadina vesuviana,
fu lui a prendere in affitto il covo di Posillipo per tenervi segregato l’uomo
politico democristiano napoletano. Un altro personaggio di spicco è Vittorio
Bolognesi, 27 anni, che insieme con Acanfora componeva la direzione strategica
della colonna bierre napoletana. Gli altri due individuati, attraverso gli
identikit - il commando ha agito a volto
scoperto -. sarebbero Antonio Chiocchi e Crescenzo Dell'Aquila, giovani
studenti napoletani che avevano aderito a Prima linea e successivamente erano
passati nelle file delle bierre. Perché l'accusa di violata consegna contestata
al 17 militari di leva ed al graduato sorpresi dal commando terrorista? La
dinamica dell’assalto, cosi come è stata ricostruita dagli inquirenti, avrebbe
alimentato i sospetti sull’allentata sorveglianza nelle ore notturne. La
circostanza che nessun colpo di fucile è stato sparato dalle sentinelle, che
pur dovevano essere ben vigili nel servizio di ronda lungo il muro di cinta e
all'ingresso della caserma, ha dato credito alla tesi che c'era stata una grave
smagliatura nell’azione di prevenzione e vigilanza. Se non tutti immersi nel
sonno - si sono detti gli investigatori - la maggioranza sonnecchiava. Il commando, bene
informato sulla situazione all’interno del deposito, non ha incontrato alcun
ostacolo nel suo disegno criminoso. Un’altra allarmante circostanza sarebbe
emersa negli interrogatori dei militari protrattisi ieri per tutta la giornata.
Il commando brigatista si sarebbe trattenuto all’interno della caserma; non per
pochi minuti, come s’era detto in un primo momento, ma per alcune ore, dopo
avere girovagato in lungo e in largo, spalancato il cancello d’ingresso e fatta
entrare una macchina con altri complici, per caricarvi le armi pesanti. Ieri
pomeriggio le Br si sono fatte vive con un comunicato di sei cartelle
dattiloscritte a cui è stata allegata una fotografia eseguita con una macchina
“Polaroid” e riproducete le armi “asportate” per la lotta proletaria. Una
telefonata anonima giunta intorno alle 18 al centralino de “Il Mattino”, ha segnalato dove era stata riposta la busta
con la risoluzione strategica”.
Il 12 febbraio del 1982, inizia la solita corsa alle responsabilità
che in Italia è una sicumera. “Sul blitz
alla caserma - anticipa l’Ansa - si
cercano omissioni anche nei gradi alti. Gli inquirenti
ritengono che nella notte del 9 febbraio scorso quando un gruppo di brigatisti
rossi assaltò la caserma Pica a Santa Maria Capua Vetere, il servizio di
guardia era assicurato da una sola sentinella all’ingresso principale: sarebbe
mancato il supporto della sentinella cosiddetta “in profondità”, che avrebbe
dovuto trovarsi in un androne del prefabbricato centrale in un appostamento
protetto. “Il fatto è grave”, ha commentato il ministro Lagorio riferendo ieri
alla commissione Difesa della Camera. Le indagini condotte dalla magistratura
militare e civile - ha detto ancora
Lagorio - hanno portato nella stessa giornata del 9 febbraio al fermo della
squadra di sorveglianza. Sono stati messi a disposizione degli inquirenti i
registri delle ispezioni: E’ infatti necessario accertare anche se i superiori
comandi svolgevano regolarmente e puntualmente le previste ispezioni di
controllo per assicurare il funzionamento del servizio. Lagorio ha riferito che
in Italia i magazzini per unità di mobilitazione sono circa 50 e custodiscono le
armi e i materiali destinati all’equipaggiamento dei reparti dell’esercito. Da
qualche tempo è stato predisposto un duplice programma: di rafforzamento della
protezione degli impianti e un programma di riordinamento dei magazzini. Il
primo programma “é in buona fase di realizzazione”; il secondo potrà essere
attuato in un quinquennio e comporta il dimezzamento dell’esercizio di
mobilitazione rispetto alle valutazioni attuali. Alla caserma Pica di Santa
Maria Capua Vetere non ci sono reparti militari, ma solo armi e non munizioni:
le armi (mitragliatrici, fucili mitragliatori, fucili automatici, pistole
mitragliatrici ecc.) sono custodite in stato di “non attivazione”. L’organizzazione
del servizio prevede di giorno una sentinella all’interno presso l’ingresso
principale e una sentinella “in profondità”; di notte a queste due sentinelle
si aggiunge una pattuglia di ronda di due militari all’interno della caserma
con il compito di ispezionare continuamente il perimetro. Il ministro Lagorio,
dopo aver rifatto la storia dell’assalto alla caserma, ha concluso assicurando
la massima e diretta attenzione alla vicenda da appurare se siano configurabili
carenze nella normativa e nella disciplina della vigilanza. “E' incredibile - ha detto l’on. Milani del Pdup - che si voglia semplicisticamente concludere la
vicenda addossando ogni responsabilità al graduato e ai militari presenti nella
caserma”.
Nel corso dei rastrellamenti e delle
serrate indagini, i primi pesci piccoli
delle br cominciano a cadere nella rete degli inquirenti. Il 14 febbraio del
12982 – sei giorni dopo la rapina delle armi – infatti viene scoperto un covo di terroristi dai
carabinieri a Cosenza. Tre persone che si trovavano all’interno sono state
arrestate. Sono: Gennaro Cesario, di 20 anni, nato a New York, ma residente a
Caserta, Crescenzo Dell'Aquila, di 21 anni, studente universitario in economia
e commercio, di Caserta, e Silvio Stasiano, di 22 anni, studente in ragioneria,
di Napoli. I tre erano ricercati da tempo. Contro di loro erano stati emessi
mandati di cattura per partecipazione a banda armata denominata Prima linea.
Successivamente, contro i tre terroristi fu emesso un altro ordine di cattura
per costituzione e partecipazione a banda armata denominata “Nuclei comunisti
combattenti”, organizzazione sorta dalla disciolta Prima linea e considerata
parallela alle “Brigate rosse”. Secondo gli investigatori, recentemente i tre
terroristi sarebbero confluiti nelle Br. Crescenzo Dell'Aquila avrebbe fatto
parte del commando brigatista che assaltò la caserma “Pica” di Santa Maria
Capua Vetere nella notte tra lunedi e martedì scorsi. Dell'Aquila e Cesario
inoltre sono sospettati di aver partecipato al sequestro dell’assessore della
Regione Campania, Ciro Cirillo, avvenuto nel marzo dello scorso anno e
rilasciato dopo tre mesi di prigione. I terroristi sono stati sorpresi
all'interno di un appartamento in via Abate Salfi, nella zona del centro
storico. Nel covo - composto da due
stanze, un ripostiglio, un cucinino ed un bagno, e ammobiliato in maniera
elegante - i carabinieri non hanno
trovato armi. Staiano, Dell’Aquila e Cesario sono stati sorpresi mentre
dormivano e non hanno accennato nessuna reazione. Sembra che nella tarda
mattinata siano stati trasferiti a Napoli. Nel covo gli investigatori hanno
sequestrato documenti falsi e dieci milioni di lire in contanti, sulla cui
provenienza i carabinieri stanno facendo accertamenti, oltre a numerosi
appunti, un’agenda ed alcuni indirizzi. Quest’ultima parte del materiale
sequestrato è stato ritenuto dagli investigatori molto interessante.
“I volti dall’espressione sgomenta –
raccontano le cronache dell’epoca - sono
di ragazzi, facce contadine che l’ombra della barba non riesce a rendere
adulte. Scendono questi giovani dai cellulari blindati in mezzo ai carabinieri
della scorta e hanno i polsi stretti da catene che li legano a gruppi di
cinque; camminano lo sguardo fisso a terra e soltanto quando entrano nell’aula
del tribunale militare qualcuno timidamente cerca fra il pubblico il viso amico
di un parente. Sono 19, soldati di leva fra i venti e i ventidue anni, secondo
il codice penale militare hanno compiuto un reato grave: la notte fra l'8 e il
9 febbraio scorso di guardia alla caserma “Pica” di Santa Maria Capua Vetere,
dov’é un grosso deposito di armi, invece di sorvegliare l’arrivo di un nemico
improbabile, a mezzanotte andarono tutti a dormire e forse lo avevano già fatto
chissà quante altre volte perché, hanno dichiarato ieri in aula, nessuno li
aveva addestrati al pericolo. Ma quella notte il “nemico” arrivò: cinque forse
sei brigatisti rossi, un’irruzione a colpo sicuro, sopraffatta in un attimo la
guarnigione addormentata, incatenati i soldati, presi mitra, mortai, bazooka,
fucili e pistole. Il giorno dopo l’organizzazione clandestina rivendicò l’assalto
con un comunicato nel quale tra l’altro minacciava: “Sapremo attivare le armi
requisite al nemico di classe”. L’inchiesta giudiziaria è in mano a Digos e
magistratura, per i soldati invece è scattata l’istruttoria militare che è
stata rapida: l’arresto e per tutti l’accusa di abbandono di posto e violata
consegna', cosi rischiano di rimanere in carcere per un anno o forse più se
verranno riconosciute particolari aggravanti. La cosa dalla giustizia militare
è stata presa con serietà tanto che agli imputati è stata negata la libertà
provvisoria. Cosi in attesa del dibattimento il gruppo ha trascorso un mese nel
carcere militare di “Forte Boccea” a Roma, un tempo sede del Sid. Sono le 19
esatte quando l’udienza vien dichiarata aperta da Nicola Lucarelli, un
magistrato civile che da vent’anni dirige processi militari. Alla destra del
presidente il secondo giudice civile, Biagio Criscuolo; dall’altro lato siede
il tenente di vascello Mauro Esposito, in divisa, con sciarpa azzurra,
decorazioni e sciabola. Il rito è rapido. Nella relazione al tribunale si sottolinea
come qualcuno parlando del sonno l’abbia
definito “abitudine istituzionalizzata”. Poi c’è la lettura del rapporti sui
militari fatti dal comandante del reparto o dai carabinieri: sono tutti “ottimi
o buoni elementi”, secondo quelle carte; due, però, hanno precedenti cioè in
passato hanno commesso qualcosa: uno tentò una rapina, l’altro figlio di
contadini a 13 anni guidò un trattore e lo sorpresero; qualcuno si è segnalato
nel luoghi del terremoto; Luciano De Lucia. 20 anni, napoletano, si è distinto
per la fierezza con cui indossa l’uniforme. Il presidente conclude: “Vedete,
sono tutti bravi ragazzi”. Tocca al caporalmaggiore Silvio Bertolino, un
palermi- tano di vent’anni, deporre per primo. Comandava lui quella sera il
gruppo di guardia. E’ vero, accettò la proposta di andare a dormire fatta
collettivamente dagli altri “quel giorno”. Il caporale ricorda che il telefono
squillò, a mezzanotte e cinque, e al soldato che rispose una voce di ragazza
disse di aver sbagliato numero. Era quella una telefonata di controllo delle
Brigate rosse? Nessuno lo sa, nessuno osa parlare di “talpe” infiltrate fra i
militari. Bertolino aggiunge che i brigatisti dopo averli legati lo
tranquillizzarono: “Vedrete che vi daranno una licenza se direte che siete
stati sopraffatti”. Il presidente conclude: “Posso farti un'ultima domanda? Di
tutto quello che è successo sei
pentito?”. A mezza voce il caporale risponde: “Si, sinceramente: Ma
l’espressione non piace al suo difensore
avvocato Augusto Sinagra che esclama: “Chiedo di cambiare termine. Il “militare
pentito” mi darebbe fastidio”. Il caporale Sergio Di Trapani, 21 anni, di
Palermo, trema come una foglia quando lo chiamano a deporre: “Non aver paura,
stai calmo rispondi con calma e cerca di dire la verità nel tuo interesse”, lo
consiglia il presidente. Fra i suoi incarichi c'era anche quello di controllare
le armi ma l’addestramento, racconta, si è limitato a una visita al poligono
per sparare un caricatore. No, nessuno li aveva avvertiti del particolare
momento di pericolo: il pubblico ministero, Andrea De Leone, a questo proposito
avverte il tribunale che sei fra generali e colonnelli hanno ricevuto comunicazioni
giudiziarie. Che i turni di guardia si risolvessero in dormite più o meno
lunghe, confermano tutti, - era risaputo. E tutti si dichiarano “pentiti”.
Ma il processo finì bene per i soldati che furono per la massima
parte assolti. Da ieri sera sono nuovamente liberi i 19 militari che nella notte
fra l'8e9 febbraio furono sorpresi addormentati dal commando delle Brigate
rosse che assalì la caserma “Pica” di Santa
Maria Capua Vetere. Il blitz dei
terroristi fu possibile perché i soldati non effettuarono un turno di vigilanza notturna. “Ormai non
prestare il servizio dopo la mezzanotte era diventata una tacita convenzione”,
hanno ammesso i militari durante il
processo. I giudici hanno tenuto conto di queste e altre attenuanti riducendo
il carico di pene chieste dal pubblico
ministero. Tre soldati sono stati assolti per non aver commesso il fatto, mentre tutti gli altri sono stati
condannati a pene variabili dai 2 anni e 6 mesi a 10 mesi di reclusione. Agli imputati, comunque,
è stata concessa la sospensione condizionale della pena e la non iscrizione sul
certificato penale. 119 soldati, processati a Napoli; sono ripartiti nel
pomeriggio di ieri alla volta di Roma, dove nel carcere di Forte Boccea - hanno compiuto gli ultimi adempimenti di
legge. Nella stessa serata sono tornati al loro reparto, il battaglione del
Genio “Timavo” di Caserta. Va ricordato, comunque, che sono in corso indagini
ai carico di 5 ufficiali per accertare eventuali responsabilità nella mancata
sorveglianza del servizio di guardia. Cinque
comunicazioni giudiziarie sono state ricevute da due generali di
brigata, un colonnello, e due tenenti
colonnelli. I generali sono Pietro
Zaninoni, comandante del presidio militare di Caserta, e Vincenzo Varcaro, comandante della zona di Salerno dalla
quale dipende la caserma “Pica”. Ci sono
poi gli ufficiali comandanti della caserma
e del battaglione “Timavo”.
Un quinto nome non è ancora stato reso
noto dalle autorità militari.
E ancora l’Ansa con un lancio flash – nello stesso giorno in cui si era concluso il processo ai militari - ad annunciare che “sepolte sotto il muro di
cinta Nato ( nei pressi di Bagnoli ) sono state rinvenute le armi prese dalle Br nella caserma e catturato a Napoli il br Mauro Acanfora, capo dell’assalto a Santa
Maria Capua Vetere. Il prof. Mauro Acanfora, 32 anni, uno dei capi della
colonna napoletana delle Bierre, ricercato dal settembre dello scorso anno,
implicato nel sequestro dell’ex assessore regionale de Ciro Cirillo e
nell’assalto alla caserma “A. Pica” di Santa Maria Capua Vetere, è stato
catturato. E’ stata recuperata una buona parte delle armi portate via dai
terroristi dopo l’irruzione al deposito-armeria e infine altre due persone sono
state arrestate. Gli inquirenti sono sulle tracce di alcuni covi. Questi i
risultati di una grossa operazione antiterroristica tuttora in corso e di cui
si prevedono altri clamorosi sviluppi. Mauro Acanfora è stato sorpreso la sera
di lunedì scorso da una pattuglia di agenti nella stazione ferroviaria del
Campi Flegrei, a Fuorigrotta. Era armato di una pistola calibro 7,65, completa
di caricatore e colpo in canna, e aveva con sé una grossa borsa contenente
indumenti, libri, volantini propagandistici delle Bierre in cui si rivendicava
l’assalto alla caserma “Pica”. Non ha opposto resistenza e gli agenti che lo
avevano riconosciuto non gli hanno dato il tempo di reagire. Si sospetta che
fosse in attesa di un treno per raggiungere Roma. In altre precedenti operazioni
le cui modalità non sono state rese note sono scattate le manette al polsi di
Vlncenzo Olivieri, 34 anni, impiegato dell'ufficio postale della sede centrale
di piazza Matteotti, addetto allo sportello del conti correnti. Sposato con due
figli, la moglie insegna a Milano. L’altro arrestato è Giuseppe Visconti, 30
anni, universitario. Entrambi sono stati denunciati all’autorità giudiziaria
per partecipazione a banda armata come fiancheggiatori bierre. Le armi
recuperate dalla Digos erano sotterrate in un campo a Bagnoli, ad una ventina
di metri dal muro di cinta del comando Nato, evidentemente ritenuto dai
terroristi “il luogo più idoneo e meno sospettabile”. Erano state seppellite in
una fossa profonda più di un metro ed erano ben conservate: avvolte in panni di
lana con tagli di stoffa di recente acquisto, ulteriormente protette con fogli
di plastica. Complessivamente sono stati ritrovati quattordici fucili Fai, cinque
Garant, due mitragliatrici, mentre risultano mancanti all’elenco delle armi
trafugate i due mortai, i due bazooka e dodici fucili. Le indagini, come ha
sottolineato il questore dott. Walter Scotti, proseguono coordinate dalla
magistratura con la partecipazione delle forze di polizia. “Non avremmo voluto
divulgare notizie su questa operazione, tenerla ancora riservata - ha detto durante la conferenza -stampa , ma è
stato meglio fare il punto in maniera esatta perchè si sappia come si lavora”. La domanda “C'é un pentito?” non ha avuto
risposta. “Speriamo di lavorare con serenità per recuperare le altre armi e
sconfiggere completamente queste frange del fenomeno eversivo”. Mauro Acanfora
è colpito da mandato di cattura per duplice omicidio - si riferisce
all’assassinio dell’agente di scorta e dell’autista di Ciro Cirillo, per rapina
e sequestro di persona a scopo di estorsione. Celibe, nativo di un paesino alle
falde del Vesuvio, Cercola, insegnava materie tecniche all'istituto professionale
“Virgilio” di Torre del Greco. Amico
dell’ideologo Giovarmi Senzani (insieme avevano svolto attivita in un centro
sociale in via Orimaglia a Torre del Greco, dove abita l’esponente
democristiano Cirillo), prese in affitto il covo di Posillipo nel quale rimase
segregato per 81 giorni l’ex assessore regionale. Sembra che abbia direttamente
contribuito alla stesura dei comunicati bierre emessi durante il sequestro
Cirillo, che abbia gestito l’organizzazione e le modalità del riscatto. Con i
ricercati Antonio Chiocchi, operaio di Avella, e Antonio Bolognesi, studente
napoletano, avrebbe preso parte anche all’assalto alla caserma di Santa Maria
Capua Vetere. Il piano sarebbe stato ideato e messo a punto da Vito Coppola,
insegnante precario amico dell’agente della Digos Fortunato Manna, arrestato
nei giorni scorsi.
Quella mattina
del 3 giugno 1986, nelle gabbie
dell’aula bunker “Ticino 2”, del carcere di Poggioreale di Napoli vi erano
trentasei detenuti. Il Presidente della Corte di Assise stava per leggere il
verdetto. Il silenzio surreale dell’attesa di tanto in tanto era interrotto dal
tetro tintinnio delle manette. Alcuni
degli imputati “a piede libero”, per ostentare una certa calma, si rivolgevano
ogni tanto agli avvocati che gli erano accanto. Gli imputati erano ottantuno,
di cui quarantasette detenuti (quarantasei in carcere, cinque detenuti per
altro ed uno agli arresti domiciliari),
quattro latitanti e trenta liberi. I presenti al processo erano sessantuno.
Alle ore 10,30 si
aprì la porta retrostante il bancone della giuria e al seguito del presidente e
del giudice togato della Quarta sezione della Corte di Assise entrarono i sei
giudici popolari e si accomodarono per
l'ultima volta nel posto che avevano occupato lungo tutto l’arco dello
svolgimento del processo. Rimasero in piedi, così come in piedi si erano alzati
i cancellieri, i segretari seduti presso il bancone e gli avvocati che aspettavano
appoggiati ai banchi della difesa. La parte riservata al pubblico, delimitata dalle transenne disposte a forma di
triangolo, aveva dimensioni insignificanti rispetto all’immensità dell’aula. La
IV Sez. della Corte di Assise di Napoli era formata dal presidente Roberto D’Ajello,
dal giudice Antonio Iervolino, e dai giudici popolari Angela De Nardo, Nunzia Iossi,
Vincenzo Verno, Rosalia Pappacena, Carmela De
Laurentis e Luigia Allocca. Il p.m. intervenuto era rappresentato dal Sostituto procuratore della
Repubblica Alfonso Barbarano, il segretario presente era Marcello Balbi. Il
processo di primo grado alla colonna
napoletana delle Brigate Rosse, iniziò con le indagini istruttorie sul
sequestro Cirillo e sui connessi duplice omicidi e ferimento dei suoi
accompagnatori avvenuti in Torre del
Greco il 27 aprile del 1981. Fu
incrementato quando ad esso furono riuniti gli atti relativi agli
“azzoppamenti” del consigliere comunale Rosario Giovine e dell’Assessore al
Comune Umberto Siola. Attentati questi
che si verificarono rispettivamente il 15 maggio e il 6 giugno 1981, prima del rilascio del
sequestro. A questo nucleo iniziale, si
aggiunsero altri processi, in quanto rappresentanti “un’unica campagna di guerra
contro le istituzioni dello Stato in
generale e le realtà napoletane in particolare e precisamente:
1.
Quello a carico di Mario Moretti, per l’omicidio dell'assessore
regionale Pino Amato, avvenuto a Napoli il 19 maggio 1980, i cui esecutori
materiali, tratti in arresto subito dopo il fatto, erano già stati processati
con rito direttissimo e condannati all’ergastolo con sentenza dell’8 luglio
1980;
2.
Quello relativo all’aggressione subita dai soldati del
corpo di guardia della caserma dell’esercito A. Pica di S. Maria Capua Vetere,
con la sottrazione di numerose armi e munizioni da guerra, il 9 febbraio 1982;
3.
Quello contro i responsabili dell’attentato mortale in
danno dell’assessore regionale Raffaele Delcogliano e del suo autista,
perpetrato in Napoli il 27 aprile 1982;
4.
Quello concernente l’assassinio del dirigente della
squadra mobile Antonio Ammaturo, ucciso a Napoli, insieme al suo autista, il 5
luglio 1982;
5.
Quello relativo
all’assalto effettuato in Salerno il 256
agosto 1982 ad un convoglio dell’esercito
italiano, risoltosi con un triplice omicidio e con la rapina di numerose armi;
6.
Infine i procedimenti relativi alla costituzione della
colonna napoletana delle Br ed alla ricostruzione, dopo gli arresti del 1982,
che ne avevano provocato il pressoché totale scompaginamento
La Corte...” iniziò a sentenziare il presidente, dopo essersi schiarita la
voce, leggendo il primo foglio di un plico che teneva fra le mani, “... visti
gli artt. 483 e 488 c.p.p., dichiara Acanfora Mauro colpevole dei reati di
cui…”. Le onde sonore sembravano materializzarsi in quello spazio tagliato dalla
luce che filtrava dai grossi finestroni situati nella parte alta delle pareti
dell’aula, quando improvvisamente si udirono delle urla alle quali ne seguirono
altre e poi grida di protesta e frasi offensive ( assassini del popolo…
vigliacchi ) dirette alla Corte: : gli
imputati nel corso dell’intero processo, avevano contestato la legittimità
stessa dello Stato a giudicarli. Le forze dell’ordine sui diressero in fretta
verso la gabbia da cui provenivano le grida, mentre i detenuti innalzavano due
striscioni contenenti scritte inneggianti alla lotta armata. Era la gabbia
n°16.
Il presidente interruppe la lettura del
dispositivo e ordinò l’espulsione dall’aula degli imputati rinchiusi in quella gabbia. Quando fu tutto finito
completò la lettura del dispositivo nel silenzio generale. Quindi ordinò la trasmissione di copia de verbale di udienza alla Procura
della Repubblica in sede perché fosse iniziata l’azione penale per il reato di oltraggio alla Corte
consumato poco prima in quell’aula. Terminava così il processo di primo grado
alla colonna napoletana delle Brigate Rosse. Ecco la sentenza
di condanna nel processo alle Brigate Rosse.
La Corte
condannò: Cotone Anna Maria, Fadda
Davide, Ghiringhelli Marcello, Ligas Natalia, Moretti Mario, Pagani Cesa
Teresa, Pancelli Remo, Sarnelli Maria, Scarabello Stefano, Scinica Teresa,
Senzani Giovanni e Spano Caterina all’ergastolo. Con pesantissime condanne ( da
5 a 16 anni ) per tutti gli altri.
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