Marcianise agosto 1949
La Corte di Assise lo
condanno’ a 7 anni di carcere, riconoscendogli la provocazione - I
concittadini sottoscrissero un
contributo per la sua difesa affidata agli avvocati Ciro Maffuccini e Alfredo
de Marsico. Il delitto dell’imputato, un attimo: il delitto del padre, venti
anni.
Marcianise. Gaetano
Barbarulo, 26 anni, uccise il padre-padrone con 7 martellate, il 3 agosto del 1950, in una povera abitazione di Marcianise, a
pochi passi dalla sua bottega di riparatore di biciclette, perché il padre ( ubriaco e con una mano ad
uncino ) stava picchiando a sangue la
madre per futili motivi.
Tratto a giudizio per
omicidio volontario e sottoposto al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, che concesse la provocazione e il motivo di particolare valore morale, e
lo condannò a dieci anni di reclusione
di cui tre condonati.
“Tremate: qui c’è un
parricidio – scrisse l’Avv. Raffaele
Russo su “L’Eloquenza” - il delitto per eccellenza, come il tradimento alla
Patria, che mette l’esecutore al bando della convivenza sociale. Ebbene, cento
e cento cittadini di Marcianise si sono stretti in un vincolo di solidarietà
con il parricida, e chi più chi meno, hanno offerto spontaneamente il loro
obolo per rendere meno duro il castigo di questo figlio che ha avuto la
sventura di essere stato generato da un simile padre”.
“Ritengo che nella fosca
cronistoria del parricidio non esista un grido di giustizia e di pietà uguale a
questo dei cittadini di Marcianise. Perchè, apporre la propria firma su un
foglio di carta e versare il proprio denaro per concorrere alla difesa di un
figlio che ha ucciso il genitore con sette colpi di martello, non è la stessa
facile, banale ed irresponsabile cosa che sottoscrivere contro l’uso della
bomba atomica americana in nome della pace. . . per rendere più agevole lo
sterminio dell’umanità con l’uso delle altre micidiali armi russe”.
“Ma taluni magistrati, quando
siedono al banco della pubblica accusa, certe cose o non le capiscono per
naturale incapacità oppure si sforzano a non volerle capire per abito
professionale. Hanno il metro nelle mani, un metro comune, e quello deve
servire per tutte le misure. E se invece di arrivare ai cento centimetri te ne
conteggiano novantaquattro per esempio, ti riterranno immeritevole di ogni
considerazione qualora non ti mostrerai grato per la grazia che ti hanno
accordata”.
“In questo processo il Pubblico Ministero chiese, oltre alle attenuanti generiche, che
fosse concessa la provocazione ma, sottolineo, di grado lievissimo, vale a dire
una sfumatura di provocazione, un velo
di provocazione, due centimetri di pro- vocazione dei cento del metro”.
“Ma la Corte di Assise, più giusta
e più umana, accordò le attenuanti generiche, la provocazione al 100% ed il
motivo di particolare valore morale per giunta e condannò l’infelice a dieci
anni di reclusione di cui tre condonati”.
Raccontano le cronache
dell’epoca che fu un processo seguitissimo, e che alla lettura della sentenza
molti cittadini di Marcianise presenti in aula applaudirono il verdetto. Ma
lasciamo la parola al Prof. Alfredo De
Marsico, che in unione al grande avvocato sammaritano Ciro Maffuccini si assunse la difficile difesa del parricida.
“Ciro Maffuccini ha raggiunto
la vetta delle aquile”. Inizia con un elogio al collega e alla Corte, ma era
una prassi, che all’epoca i grandi avvocati si permettevano con sfoggia di
citazioni culturali. L’arringa di valore, che faceva accapponare la pelle? Non
esiste più. Ecco, per la delizia dei
nostri lettori, un ampio stralcio della difesa del grande avvocato
napoletano.
“Signori della Corte – esordì De Marsico - vorrei che la discussione finisse con
l’arringa di Maffuccini: le sue parole sono giunte al fondo della causa e degli
animi, mentre le mie rischieranno di riportarli alla superficie. Ma proprio lui
mi vieta di tacere, ed eccomi, non a rifare l’indagine ma ad esaminare il
ragionamento del Pubblico Ministero e a dimostrarvi che il nostro pensiero è il
suo, che sue non sono, apertamente, le nostre richieste ma suo più che nostro
sarebbe lo stupore se voi non le accoglieste”.
“Vi dimostrerò che la coscienza
dell’ufficio ( cioè del pubblico ministero d’udienza N.d.R.) gli ha spento sulle labbra le parole
che stava per pronunciare e che noi abbiamo la maggiore possibilità e il
diritto di pronunciare. Vi dimostrerò insomma che non vi sono due visioni della
causa, ma una, necessaria perché la sola umana; che questa causa non è un
conflitto tra parti ma un dramma che tutte le parti vivono con un solo cuore”.
“Già, ovunque si parli
dell’uccisione di un padre o di una madre, è sempre lo stesso disagio, lo
stesso tormento. Questi delitti sembrano sfasciare il nostro equilibrio
interiore, schiodarne i perni, e suggerire alla mente che per ricostruirli una
cosa sola possa farsi: negare la giustizia come proporzione, affermarla come
vendetta; cancellarvi il fine dell’emenda, infondervi la funzione del
supplizio. Dove l’imputato sembra uomo che torni belva, belva diventi anche il
giudice. Il crollo di certi altari esigerebbe sacrificio di sangue e, se questo
non è possibile, almeno di libertà. Così, la religione degli affetti sarebbe
placata. Un eccesso, cioè, a compenso di un altro: due squilibri per risalire
all’equilibrio”.
“Io rammento – proseguì De
Marsico - una causa di matricidio
discussa molti anni fa alle Assise di Napoli. Un giovane, stanco di una madre
che dissipava il suo onore e gli averi del marito defunto con una lurida figura
di amante, ad un ennesimo rifiuto di un po’ di danaro che gli occorreva per
sposare, la uccise con un colpo di coltello. Un figlio che uccide la madre non
ha mai diritto all’attenuante della provocazione, fu scritto nella sentenza.
Soffrii la frase e il concetto come una scudisciata sul volto; chiesi alla
Cassazione se io fossi ancora in grado di sentire l’amore del figlio per la
madre, ebbi ragione. Sacri i doveri del figlio verso la madre, essa disse;
altrettanto sacri i diritti”.
“Maffuccini, in uno squarcio
suggestivamente lirico della sua arringa, è giunto alla medesima conclusione.
Ed io non tenterò ritesserne o riecheggiarne il canto. Chi riesce a fissare in
note vocali un palpito del cuore, canta per tutti. Riassumerò il suo discorso,
che sembrava estratto dagli animi di tutti noi, tanto ci interpretava e ci
esprimeva, con una considerazione che deriverò da una fonte inconsueta in
queste aule: la scienza del linguaggio . È ormai nozione inconfutabile che “padre” è parola nascente da una delle poche
radici comuni a tutte le lingue umane: “pa”, la quale riappare in ogni parola da capanna a patria, da pascolo a pane - in cui s’insinui o appena si riverberi l’idea di protezione o
di nutrimento. Che cosa fece di questi doveri l’ucciso? La
risposta è l’urlo di un paese”.
“Il Pubblico Ministero ha
creduto ridurne, sbiadirne le colpe applicando alla prova il metro comune. Voi
gli attribuite percosse, lesioni continue - egli ha detto - e qui non v’è un
referto; maltrattamenti incessanti, e non v’è una querela; negazione di cibo, e
i suoi figli sono lì, vivi e sembra sani se non vegeti tutti. Violento? Ma,
menomato com’era da una mutilazione, bastava per piegarlo o ammansirlo assai meno
di quel che occorra per piegare o ammansire chi ha integre entrambe le braccia.
Se non fu eccessivamente amorevole, non fu crudele; la crudeltà è colore sparso
oggi su una scialba realtà di ieri dall’interesse o dal favore difensivo”.
“Ma il metro comune non
giova. Il pubblico ministero ha dimenticato che questa gente taceva per paura;
che la moglie osò giungere una volta alla porta della caserma dei carabinieri
di Marcianise, e tornò indietro. E non ha visto, no, pochi minuti fa, nella
pausa del nostro lavoro, l’imputato mostrare ai carabinieri una cicatrice sul
vertice del capo, che il padre gli produsse con quell’antibraccio di legno
cinghiato di ferro che resta tutta la eredità da lui lasciata e della quale,
come di tante cose, proprio l’imputato non ha voluto parlarvi”.
“Ma il metro comune finisce
per infrangersi su una evidenza. Solo stamani ‘ ho visto questo elenco di
centinaia di firme e di oboli per la difesa dell’imputato. Nessuno dei suoi
concittadini manca: da cinque lire a dieci, a cento, tutti in Marcianise hanno
teso la mano all’infelice, povero e caduto. Voi sareste disposto a considerare
prova la dichiarazione di qualcuno, o un paio di referti, e vi rifiuterete di
vedere la prova nel grido e nel gesto di un paese?
“Proprio perché l’uccisione
di un padre solleva l’orrore contro l’assassino, questa unanimità che non
inorridisce è tutto un paese che depone, giudica e - quasi assolve. I cenci di
questa famiglia non avrebbero autorità e fascini per creare false e vaste
solidarietà. Il paese ha assistito, lunghi anni, alle atrocità dell’uno, al
martirio degli altri, e da queste firme pare affacciarsi intero, compatto ed ansioso,
nell’aula, invocando perdono per il colpevole”.
“Egli - sembra dirvi - ha ucciso il padre ma - è ancora
simile a noi; quanti, quanti di noi sarebbero stati più forti? E il parricidio,
che è il distacco dell’uomo dall’umanità, sembra superato, cancellato. Io non
esalto, o signori, anche se la parola si accende: cerco comprendere, precedervi
nel comprendere. Anch’io preferirei il figlio che si facesse abbattere dal
padre e non levasse la mano sul padre, ed egli non sarebbe innanzi a noi”.
“Innanzi a noi non vengono
che uomini, fragili uomini - continuò De
Marsico - e a questi soli arriva la giustizia, non a quelli che sono più in
alto. La pietà, dunque, ha già respinto l’orrore, e non v’è che da misurare le
colpe, le colpe di ciascuno, e fissarne il rapporto. Quel che graverà sull’uno,
sarà tolto all’altro. Le colpe del padre? Guardatelo in bottega, al desco, nel
riposo: uno sciagurato, immemore di tutti i doveri, insensibile ad ogni impulso
di bontà”.
“Con un avambraccio e una
mano di legno, egli decise di smettere anche il - suo commercio di venditore
ambulante e si arrogò, come un diritto, il lusso di passare il tempo fra la
botteguccia del figlio e la bettola. Lì sorvegliava il lavoro; la clientela e, sopra
tutto, i guadagni: qui, dopo averli arraffati, li scialacquava. Le riparazioni
del figlio alle biciclette servivano a lui - per comprare e tracannare vino...“.
“A mezzogiorno, non il
sorriso - del padre tra i figli raccolti intorno all’umile mensa in compenso
del pane scarso, del companatico mancante: ma la maniera sprezzante, il lancio
della minestra sulla tovaglia sdrucita, il levarsi imprecando, l’allontanarsi
rabbioso, fermando il cappello sul moncherino di legno e stracciandolo coi
denti in tre pezzi”.
“La notte, nell’unica camera
- accogliente il figlio e le figlie, l’imbestiarsi nel furore sessuale, il
prendere e riprendere la sua femmina tra
il disgusto e il dolore soffocati dalla misera donna, senza un pensiero per lo
scandalo alle due giovanette che, in un letto attiguo, non dormono ma
trattengono coi denti il doppio spasimo della curiosità e del terrore, mentre
talora la madre, la vittima, fugge singhiozzando”.
“La squallida casa, tutto meno
che casa: mattatoio, lupanare e calvario: casa, cioè rifugio ed asilo di pace
pur nella miseria, no. Tali la volontà e la condotta sua, incapace egli diceva
al lavoro, esuberante di istinti inferiori, di lussuria e di ferocia. Così, non
da ieri, da sempre. Il delitto
dell’imputato, un attimo : il delitto del padre, venti anni. Or che cosa ci trattiene
dal chiedere la legittima difesa?”.
“All’atto brutale del padre,
Barbarulo voi avete detto ( rivolto al pubblico ministero N.d.R.) lasciò anche
lui la tavola, scese in bottega, si rimise al lavoro; colpito dalle grida della
madre, madre sì, non matrigna, poiché lo
raccolse che aveva un anno - uscì senza
deporre il martello, e nell’angolo delle scale la vide a terra, curvo su lei il padre a percuoterla, colpevole di essergli corso dietro e avergli
domandato se, invece della minestra di granturco, preferisse un po’ di pasta;
la vide poi rialzarsi e fuggire, ma egli, il figlio, non fuggì: in quell’attimo,
voi avete detto, “ricordò il passato” e colpì. Ossia, cedette a un impulso in
cui il dolore del momento, accrescendosi del dolore di tutto il passato,
assunse un peso intollerabile, che ruppe le ultime, le affievolite resistente
sue. Il passato che si ricorda in una sofferenza che lo riassume, lo si rivive
tutto : è come non bere soltanto un calice di dolore, ma affogare in una
fiumana di dolore ed annegarvi. E come combattere la tempesta su un battello
intorno a cui risalgano dalle voragini dell’oceano e tornino a rovesciarsi
cento altre tempeste. Potrà scongiurarsi il naufragio? e può mai esser lieve un
naufragio?
“Poi, Signor Pubblico
Ministero, avete aggiunto: colpì, in un momento di. . . e qui avete esitato, lungamente esitato, e
infine avete detto: in un momento di « scoppio ». Volevate dire di follia;
avete rimangiato la parola, avete cercato l’altra da sostituirle, e
sostituendola, quella è diventata più trasparente, più visibile”.
“Scoppio, cioè la
distribuzione fulminea di tutti i freni che, insiti nella dosata
contrapposizione di elementi, di efficienze, di forze diverse, costringono
ingredienti esplosivi alla inerzia e che, sciogliendosi, tutti e di colpo,
avventano il miscuglio verso una conflagrazione micidiale, lo scagliano a
bruciare, a incenerire, a demolire. Lo scoppio di un cervello non è che questo:
uno sciogliersi di nessi, un crollare di inibitorie, uno spezzarsi di freni.
Voi, Signor Procuratore Generale, avete creduto di evitare la follia con lo
scoppio, e l’avete soltanto meglio descritta plastica- mente, nel suo effetto.
Ne avete evitato il nome e vi siete trovato nel suo divampare”.
“Se la famiglia è fucina di alleanza, di amore
e di pace, nella dedizione al dovere e
nello spirito di sacrificio, se è dono incessante di sé a ciascuno degli altri suoi componenti,
un delitto scatenato dal suo degenerare
in tormento è anche rivolta contro
questa profanazione della più pura fra le società terrene, è delitto, cioè,
attenuato anche dal motivo. Ma può in un figlio, che sopprime il padre, vedersi il vindice della famiglia offesa? Si
sarebbe tentati a negarlo d’istinto, perché
sembrerebbe il sovvertimento di una legge: il figlio, colui che, per
definizione, obbedisce, non può essere il simbolo di una giustizia che si armi anche contro il
padre, colui che, per definizione,
comanda”.
“Chi negherebbe almeno
l’attenuante di un simile motivo al figlio che sorprendendo il padre nell’atto
di profanare una fanciulla violentandola, o di bruciare per vilipendio un
cadavere, o di comunicare al nemico della patria un segreto, si lasciasse
trascinare a violenze omicide?”.
“Barbarulo perciò – Signori
della Corte - agì stretto dalla tenaglia
di impulsi generosi e brucianti, che in lui non lasciavano se non un residuo di
imputabilità. Poiché vendetta della
realtà contro le formule logistiche –
l’ira e il dolore non sono che stati emotivi da cui la capacità di intendere e
la capacità di volere restano vulnerate, talvolta così profondamente da
superare di molto quella stessa grande menomazione loro in cui il vizio
parziale di mente consiste. Ma se agì con l’animo e il cervello presi fra
le branche di una così possente tenaglia, volle uccidere? Poté voler uccidere?
Ebbe intera la capacità di volere o di non volere?”.
“La domanda è, di una
limpidità che la risolve. Sette colpi di martello voi obiettate signor
Procuratore, al capo, violenti. Il punto
preso di mira. . . Ma se l’ira, quell’ira, è una benda, ha mai un senso la
frase? Si può mirare di dietro una benda? In un cervello tanto iniettato o
tutto infiltrato d’ira, linfa avvelenata, in un cervello tutto tanto bendato,
era integro e sano quell’introvabile centro nervoso che presiede alla
numerazione dei colpi, alla scelta del
bersaglio? In questo cervello sconvolto chi avrà il magico potere di leggere
che alla rassegnazione durata tanti anni subentrò in un attimo l’estrema
ribellione, la decisione di finirla? Quest’attimo, voi dite, si colmò di tutta
la tensione di quegli anni, e non poté essere quindi che volontà di strage:
quest’attimo, io vi rispondo, poté
essere il primo di una fase di ribellione che non ebbe tempo di percorrere gradualmente
la sua parabola perché l’azione incontrollata valicò all’istante le decisioni. Doveva essere un trapasso e un ammonimento, e
fu, di là dalle intenzioni, l’epilogo”.
“Che cosa opporreste, se
tutto si fermasse qui, per sciogliere il dubbio? Ma voi dimenticate che dopo averlo colpito, Barbarulo
fugge, e raggiunto dalla voce che il
padre è morente, cerca il medico. . . Egli e vivo, nella sua rappresentazione; ed
egli vuole che viva. Di lì a poco, impietrito, dinanzi al cadavere, dinanzi
alle ferite che lo accusano, dirà che il
padre è urtato contro una piastra di
ferro E voi commentate mentiva per scusarsi, era dunque padrone di sé. Invece è
chiaro: se mentiva manzi a ferite che conclamavano la sua colpa, era il ritorno
alla ragione ed alla coscienza morale, che negavano, rifiutavano come proprio
il delitto”.
E il prof. Alfredo De Marsico, avviandosi alla
conclusione della sua appassionante arringa, chiosò una frase che sconvolse le
coscienze dei giudici, invocò e chiese pietà per il suo assistito.
“Ora egli è qui innanzi a voi, a chiedervi
quale destino gli decretiate. Destino di
lavoro e di elevazione stava per essere, ed è stato di catene e di pianto. Ma innanzi a voi, sono in due: lui e l’altro. “Che
cosa hai fatto di tuo padre?”, voi gli domandate, ma, senza attendere la risposta,
domandate all’altro: “E di tuo figlio,
tu, che cosa hai fatto?”. All’incrocio
di queste due domande è l’incontro, o signori, della giustizia e della pietà, e
la giustizia vi chiede che la pietà la sorpassi”.
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