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domenica 17 agosto 2014

Marcianise agosto 1949
GAETANO BARBARULO UCCISE IL “PADRE-PADRONE”
CON 7 MARTELLATE


La Corte di  Assise lo condanno’ a 7 anni di carcere, riconoscendogli la provocazione - I concittadini  sottoscrissero un contributo per la sua difesa affidata agli avvocati Ciro Maffuccini e Alfredo de Marsico. Il delitto dell’imputato, un attimo: il delitto del padre, venti anni.


 


      Marcianise.  Gaetano Barbarulo, 26 anni, uccise il padre-padrone con 7 martellate, il 3  agosto del 1950,  in una povera abitazione di Marcianise, a pochi passi dalla sua bottega di riparatore di biciclette,  perché il padre ( ubriaco e con una mano ad uncino )  stava picchiando a sangue la madre per futili motivi.
Tratto a giudizio per omicidio volontario e sottoposto al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua             Vetere, che  concesse la provocazione  e il motivo di particolare valore morale, e lo condannò  a dieci anni di reclusione di cui tre condonati.
“Tremate: qui c’è un parricidio – scrisse l’Avv. Raffaele Russo su “L’Eloquenza” - il delitto per eccellenza, come il tradimento alla Patria, che mette l’esecutore al bando della convivenza sociale. Ebbene, cento e cento cittadini di Marcianise si sono stretti in un vincolo di solidarietà con il parricida, e chi più chi meno, hanno offerto spontaneamente il loro obolo per rendere meno duro il castigo di questo figlio che ha avuto la sventura di essere stato generato da un simile padre”.
“Ritengo che nella fosca cronistoria del parricidio non esista un grido di giustizia e di pietà uguale a questo dei cittadini di Marcianise. Perchè, apporre la propria firma su un foglio di carta e versare il proprio denaro per concorrere alla difesa di un figlio che ha ucciso il genitore con sette colpi di martello, non è la stessa facile, banale ed irresponsabile cosa che sottoscrivere contro l’uso della bomba atomica americana in nome della pace. . . per rendere più agevole lo sterminio dell’umanità con l’uso delle altre micidiali armi russe”.
“Ma taluni magistrati, quando siedono al banco della pubblica accusa, certe cose o non le capiscono per naturale incapacità oppure si sforzano a non volerle capire per abito professionale. Hanno il metro nelle mani, un metro comune, e quello deve servire per tutte le misure. E se invece di arrivare ai cento centimetri te ne conteggiano novantaquattro per esempio, ti riterranno immeritevole di ogni considerazione qualora non ti mostrerai grato per la grazia che ti hanno accordata”.
“In questo processo  il Pubblico Ministero  chiese, oltre alle attenuanti generiche, che fosse concessa la provocazione ma, sottolineo, di grado lievissimo, vale a dire  una sfumatura di provocazione, un velo di provocazione, due centimetri di pro- vocazione dei cento del metro”.

“Ma la Corte di Assise, più giusta e più umana, accordò le attenuanti generiche, la provocazione al 100% ed il motivo di particolare valore morale per giunta e condannò l’infelice a dieci anni di reclusione di cui tre condonati”.
Raccontano le cronache dell’epoca che fu un processo seguitissimo, e che alla lettura della sentenza molti cittadini di Marcianise presenti in aula applaudirono il verdetto. Ma lasciamo la parola al Prof. Alfredo De Marsico, che in unione al grande avvocato sammaritano Ciro Maffuccini si assunse la difficile difesa del parricida.
“Ciro Maffuccini ha raggiunto la vetta delle aquile”. Inizia con un elogio al collega e alla Corte, ma era una prassi, che all’epoca i grandi avvocati si permettevano con sfoggia di citazioni culturali. L’arringa di valore, che faceva accapponare la pelle? Non esiste più.  Ecco, per la delizia dei nostri lettori, un ampio stralcio della difesa del grande avvocato napoletano. 
“Signori della Corte –  esordì De Marsico -  vorrei che la discussione finisse con l’arringa di Maffuccini: le sue parole sono giunte al fondo della causa e degli animi, mentre le mie rischieranno di riportarli alla superficie. Ma proprio lui mi vieta di tacere, ed eccomi, non a rifare l’indagine ma ad esaminare il ragionamento del Pubblico Ministero e a dimostrarvi che il nostro pensiero è il suo, che sue non sono, apertamente, le nostre richieste ma suo più che nostro sarebbe lo stupore se voi non le accoglieste”.
“Vi dimostrerò che la coscienza dell’ufficio ( cioè del pubblico ministero d’udienza  N.d.R.) gli ha spento sulle labbra le parole che stava per pronunciare e che noi abbiamo la maggiore possibilità e il diritto di pronunciare. Vi dimostrerò insomma che non vi sono due visioni della causa, ma una, necessaria perché la sola umana; che questa causa non è un conflitto tra parti ma un dramma che tutte le parti vivono con un solo cuore”.
“Già, ovunque si parli dell’uccisione di un padre o di una madre, è sempre lo stesso disagio, lo stesso tormento. Questi delitti sembrano sfasciare il nostro equilibrio interiore, schiodarne i perni, e suggerire alla mente che per ricostruirli una cosa sola possa farsi: negare la giustizia come proporzione, affermarla come vendetta; cancellarvi il fine dell’emenda, infondervi la funzione del supplizio. Dove l’imputato sembra uomo che torni belva, belva diventi anche il giudice. Il crollo di certi altari esigerebbe sacrificio di sangue e, se questo non è possibile, almeno di libertà. Così, la religione degli affetti sarebbe placata. Un eccesso, cioè, a compenso di un altro: due squilibri per risalire all’equilibrio”.  


“Io rammento – proseguì De Marsico -  una causa di matricidio discussa molti anni fa alle Assise di Napoli. Un giovane, stanco di una madre che dissipava il suo onore e gli averi del marito defunto con una lurida figura di amante, ad un ennesimo rifiuto di un po’ di danaro che gli occorreva per sposare, la uccise con un colpo di coltello. Un figlio che uccide la madre non ha mai diritto all’attenuante della provocazione, fu scritto nella sentenza. Soffrii la frase e il concetto come una scudisciata sul volto; chiesi alla Cassazione se io fossi ancora in grado di sentire l’amore del figlio per la madre, ebbi ragione. Sacri i doveri del figlio verso la madre, essa disse; altrettanto sacri i diritti”.
“Maffuccini, in uno squarcio suggestivamente lirico della sua arringa, è giunto alla medesima conclusione. Ed io non tenterò ritesserne o riecheggiarne il canto. Chi riesce a fissare in note vocali un palpito del cuore, canta per tutti. Riassumerò il suo discorso, che sembrava estratto dagli animi di tutti noi, tanto ci interpretava e ci esprimeva, con una considerazione che deriverò da una fonte inconsueta in queste aule: la scienza del linguaggio . È ormai nozione inconfutabile che  “padre” è parola nascente da una delle poche radici comuni a tutte le lingue umane: “pa”, la quale riappare in ogni parola  da capanna a patria, da pascolo a pane -  in cui s’insinui  o appena si riverberi l’idea di protezione o di nutrimento.   Che cosa fece di questi doveri l’ucciso? La risposta è l’urlo di un paese”.
“Il Pubblico Ministero ha creduto ridurne, sbiadirne le colpe applicando alla prova il metro comune. Voi gli attribuite percosse, lesioni continue - egli ha detto - e qui non v’è un referto; maltrattamenti incessanti, e non v’è una querela; negazione di cibo, e i suoi figli sono lì, vivi e sembra sani se non vegeti tutti. Violento? Ma, menomato com’era da una mutilazione, bastava per piegarlo o ammansirlo assai meno di quel che occorra per piegare o ammansire chi ha integre entrambe le braccia. Se non fu eccessivamente amorevole, non fu crudele; la crudeltà è colore sparso oggi su una scialba realtà di ieri dall’interesse o dal favore difensivo”.
“Ma il metro comune non giova. Il pubblico ministero ha dimenticato che questa gente taceva per paura; che la moglie osò giungere una volta alla porta della caserma dei carabinieri di Marcianise, e tornò indietro. E non ha visto, no, pochi minuti fa, nella pausa del nostro lavoro, l’imputato mostrare ai carabinieri una cicatrice sul vertice del capo, che il padre gli produsse con quell’antibraccio di legno cinghiato di ferro che resta tutta la eredità da lui lasciata e della quale, come di tante cose, proprio l’imputato non ha voluto parlarvi”.
“Ma il metro comune finisce per infrangersi su una evidenza. Solo stamani ‘ ho visto questo elenco di centinaia di firme e di oboli per la difesa dell’imputato. Nessuno dei suoi concittadini manca: da cinque lire a dieci, a cento, tutti in Marcianise hanno teso la mano all’infelice, povero e caduto. Voi sareste disposto a considerare prova la dichiarazione di qualcuno, o un paio di referti, e vi rifiuterete di vedere la prova nel grido e nel gesto di un paese?

“Proprio perché l’uccisione di un padre solleva l’orrore contro l’assassino, questa unanimità che non inorridisce è tutto un paese che depone, giudica e - quasi assolve. I cenci di questa famiglia non avrebbero autorità e fascini per creare false e vaste solidarietà. Il paese ha assistito, lunghi anni, alle atrocità dell’uno, al martirio degli altri, e da queste firme pare affacciarsi intero, compatto ed ansioso, nell’aula, invocando perdono per il colpevole”.
“Egli -  sembra dirvi - ha ucciso il padre ma - è ancora simile a noi; quanti, quanti di noi sarebbero stati più forti? E il parricidio, che è il distacco dell’uomo dall’umanità, sembra superato, cancellato. Io non esalto, o signori, anche se la parola si accende: cerco comprendere, precedervi nel comprendere. Anch’io preferirei il figlio che si facesse abbattere dal padre e non levasse la mano sul padre, ed egli non sarebbe innanzi a noi”.  
“Innanzi a noi non vengono che uomini, fragili uomini - continuò  De Marsico - e a questi soli arriva la giustizia, non a quelli che sono più in alto. La pietà, dunque, ha già respinto l’orrore, e non v’è che da misurare le colpe, le colpe di ciascuno, e fissarne il rapporto. Quel che graverà sull’uno, sarà tolto all’altro. Le colpe del padre? Guardatelo in bottega, al desco, nel riposo: uno sciagurato, immemore di tutti i doveri, insensibile ad ogni impulso di bontà”.
“Con un avambraccio e una mano di legno, egli decise di smettere anche il - suo commercio di venditore ambulante e si arrogò, come un diritto, il lusso di passare il tempo fra la botteguccia del figlio e la bettola. Lì sorvegliava il lavoro; la clientela e, sopra tutto, i guadagni: qui, dopo averli arraffati, li scialacquava. Le riparazioni del figlio alle biciclette servivano a lui - per comprare e tracannare vino...“.
“A mezzogiorno, non il sorriso - del padre tra i figli raccolti intorno all’umile mensa in compenso del pane scarso, del companatico mancante: ma la maniera sprezzante, il lancio della minestra sulla tovaglia sdrucita, il levarsi imprecando, l’allontanarsi rabbioso, fermando il cappello sul moncherino di legno e stracciandolo coi denti in tre pezzi”.  
“La notte, nell’unica camera - accogliente il figlio e le figlie, l’imbestiarsi nel furore sessuale, il prendere e riprendere la  sua femmina tra il disgusto e il dolore soffocati dalla misera donna, senza un pensiero per lo scandalo alle due giovanette che, in un letto attiguo, non dormono ma trattengono coi denti il doppio spasimo della curiosità e del terrore, mentre talora la madre, la vittima, fugge singhiozzando”.

“La squallida casa, tutto meno che casa: mattatoio, lupanare e calvario: casa, cioè rifugio ed asilo di pace pur nella miseria, no. Tali la volontà e la condotta sua, incapace egli diceva al lavoro, esuberante di istinti inferiori, di lussuria e di ferocia. Così, non da ieri, da sempre.  Il delitto dell’imputato, un attimo : il delitto del padre, venti anni. Or che cosa ci trattiene dal chiedere la legittima difesa?”.

“All’atto brutale del padre, Barbarulo voi avete detto ( rivolto al pubblico ministero N.d.R.) lasciò anche lui la tavola, scese in bottega, si rimise al lavoro; colpito dalle grida della madre,  madre sì, non matrigna, poiché lo raccolse che aveva un anno  - uscì senza deporre il martello, e nell’angolo delle scale la vide a terra, curvo su lei  il padre a percuoterla,  colpevole di essergli corso dietro e avergli domandato se, invece della minestra di granturco, preferisse un po’ di pasta; la vide poi rialzarsi e fuggire, ma egli, il figlio, non fuggì: in quell’attimo, voi avete detto, “ricordò il passato” e colpì. Ossia, cedette a un impulso in cui il dolore del momento, accrescendosi del dolore di tutto il passato, assunse un peso intollerabile, che ruppe le ultime, le affievolite resistente sue. Il passato che si ricorda in una sofferenza che lo riassume, lo si rivive tutto : è come non bere soltanto un calice di dolore, ma affogare in una fiumana di dolore ed annegarvi. E come combattere la tempesta su un battello intorno a cui risalgano dalle voragini dell’oceano e tornino a rovesciarsi cento altre tempeste. Potrà scongiurarsi il naufragio? e può mai esser lieve un naufragio?
“Poi, Signor Pubblico Ministero, avete aggiunto: colpì, in un momento di. . .  e qui avete esitato, lungamente esitato, e infine avete detto: in un momento di « scoppio ». Volevate dire di follia; avete rimangiato la parola, avete cercato l’altra da sostituirle, e sostituendola, quella è diventata più trasparente, più visibile”.
“Scoppio, cioè la distribuzione fulminea di tutti i freni che, insiti nella dosata contrapposizione di elementi, di efficienze, di forze diverse, costringono ingredienti esplosivi alla inerzia e che, sciogliendosi, tutti e di colpo, avventano il miscuglio verso una conflagrazione micidiale, lo scagliano a bruciare, a incenerire, a demolire. Lo scoppio di un cervello non è che questo: uno sciogliersi di nessi, un crollare di inibitorie, uno spezzarsi di freni. Voi, Signor Procuratore Generale, avete creduto di evitare la follia con lo scoppio, e l’avete soltanto meglio descritta plastica- mente, nel suo effetto. Ne avete evitato il nome e vi siete trovato nel suo divampare”.  
 “Se la famiglia è fucina di alleanza, di amore e di pace,  nella dedizione al dovere e nello spirito di sacrificio, se è dono  incessante di sé a ciascuno degli altri suoi componenti, un  delitto scatenato dal suo degenerare in tormento è anche rivolta  contro questa profanazione della più pura fra le società terrene, è delitto, cioè, attenuato anche dal motivo. Ma può in un figlio,  che sopprime il padre,  vedersi il vindice della famiglia offesa? Si sarebbe tentati a negarlo  d’istinto, perché sembrerebbe il sovvertimento di una legge: il figlio, colui che, per definizione, obbedisce, non può essere il simbolo di  una giustizia che si armi anche contro il padre, colui che, per  definizione, comanda”.


“Chi negherebbe almeno l’attenuante di un simile motivo al figlio che sorprendendo il padre nell’atto di profanare una fanciulla violentandola, o di bruciare per vilipendio un cadavere, o di comunicare al nemico della patria un segreto, si lasciasse trascinare a violenze omicide?”.
“Barbarulo perciò – Signori della Corte -  agì stretto dalla tenaglia di impulsi generosi e brucianti, che in lui non lasciavano se non un residuo di imputabilità.  Poiché vendetta della realtà contro le formule  logistiche – l’ira e il dolore non sono che stati emotivi da cui la capacità di intendere e la capacità di volere restano vulnerate, talvolta così profondamente da superare di molto quella stessa grande menomazione loro in cui il vizio parziale di mente consiste.   Ma se agì con l’animo e il cervello presi fra le branche di una così possente tenaglia, volle uccidere? Poté voler uccidere? Ebbe intera la capacità di volere o di non volere?”.  
“La domanda è, di una limpidità che la risolve. Sette colpi di martello voi obiettate signor Procuratore, al capo, violenti.  Il punto preso di mira. . . Ma se l’ira, quell’ira, è una benda, ha mai un senso la frase? Si può mirare di dietro una benda? In un cervello tanto iniettato o tutto infiltrato d’ira, linfa avvelenata, in un cervello tutto tanto bendato, era integro e sano quell’introvabile centro nervoso che presiede alla numerazione  dei colpi, alla scelta del bersaglio? In questo cervello sconvolto chi avrà il magico potere di leggere che alla rassegnazione durata tanti anni subentrò in un attimo l’estrema ribellione, la decisione di finirla? Quest’attimo, voi dite, si colmò di tutta la tensione di quegli anni, e non poté essere quindi che volontà di strage: quest’attimo, io vi  rispondo, poté essere il primo di una fase di ribellione che non ebbe tempo di percorrere gradualmente la sua parabola perché l’azione incontrollata valicò all’istante le decisioni.  Doveva essere un trapasso e un ammonimento, e fu, di là dalle intenzioni, l’epilogo”.
“Che cosa opporreste, se tutto si fermasse qui, per sciogliere il dubbio?  Ma voi dimenticate che dopo averlo colpito, Barbarulo  fugge, e raggiunto dalla voce che il padre è morente, cerca il medico. . . Egli e vivo, nella sua rappresentazione; ed egli vuole che viva. Di lì a poco, impietrito, dinanzi al cadavere, dinanzi alle  ferite che lo accusano, dirà che il padre è urtato contro una  piastra di ferro E voi commentate mentiva per scusarsi, era dunque padrone di sé. Invece è chiaro: se mentiva manzi a ferite che conclamavano la sua colpa, era il ritorno alla ragione ed alla coscienza morale, che negavano, rifiutavano come proprio il delitto”.

E  il prof. Alfredo De Marsico, avviandosi alla conclusione della sua appassionante arringa, chiosò una frase che sconvolse le coscienze dei giudici, invocò e chiese pietà per il suo assistito. 
  “Ora egli è qui innanzi a voi, a chiedervi quale destino gli decretiate.  Destino di lavoro e di elevazione stava per essere, ed è stato di catene e di pianto.  Ma innanzi a voi, sono in due: lui e l’altro. “Che cosa hai fatto di tuo padre?”, voi gli domandate, ma, senza attendere la risposta, domandate all’altro:  “E di tuo figlio, tu, che cosa hai fatto?”.  All’incrocio di queste due domande è l’incontro, o signori, della giustizia e della pietà, e la giustizia vi chiede che la pietà la sorpassi”.



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