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domenica 9 novembre 2014

Accadde a Cancello Arnone il 2 agosto del 1954
UNA SPOSINA FA STRAGE DELLA FAMIGLIA DEI SUOCERI


LA STORIA


     Questa è la storia di Concetta Rea 23enne, che  il 2 agosto del 1954, in agro di Cancello e Arnone, con una  rivoltella, uccise la suocera Filomena Lanzella, di 53 anni, il cognato Giovanni Purcaro, di 24 anni e ferì al braccio un altro cognato Vincenzo Purcaro di anni 30,  nel Podere dell’O.N.C. Ma per capire meglio il movente e la dinamica del duplice delitto facciamo un passo indietro. Due anni prima Mauro Purcaro ( il più giovane dei tre figli maschi di Luigi Purcaro, assegnatario del Podere n° 654 dell’O.N.C., sito in via Diaz in località “La Riccia”) si imbatteva ad Acerra in Concetta Rea, una avvenente ragazza del luogo. Fu un vero e proprio colpo di fulmine per il giovane contadino. Mauro si invaghi perdutamente della bella femmina e di conseguenza lasciò il lavoro, trascurò la famiglia, gli amici per fare la spola tra Cancello Arnone ed Acerra.  
     La relazione, però, non ebbe l’appoggio incondizionato della famiglia – vuoi per motivi di interesse -  vuoi per la presunta incapacità della promessa sposa per i pesanti e gravosi lavori di campagna. Mauro, però, 5 mesi prima del delitto sposò Concetta e nella impossibilità – almeno temporanea di crearsi una propria casa – la coppia andò a vivere presso i genitori nel Podere dei Purcaro. I Purcaro – come del resto tutti i contadini delle nostre parti – erano legati alla terra sia da vincoli di egoismo che di proprietà, e gli eredi legittimi erano Vincenzo e Giovanni Purcaro ( alle donne in genere si lasciano soldi con tanti e non beni immobili ) gli altri due fratelli di Mauro. E’ inutile sottolineare che i fratelli dello sposo non accettarono di buon grado la nuova coppia.

     Per i primi tempi però  –  per il buon senso dei vecchi genitori – tutto filò liscio come l’olio. La giovane si adattò al lavoro dei campi, con grande sacrificio  anche se fisicamente non era dotata per tale attività pur tuttavia collaborava per quanto possibile. Ma sotto le ceneri covava il più arduo dei fuochi, la più accesa avversità. Ed il viscido “serpentello” del disaccordo non doveva tardare ad avvelenare l’ambiante con l’aggravante di una impossibile coabitazione. Bastava un nonnulla, una frase qualsiasi per accendere le ostilità.    
    E su tale fertile terreno l’odio più acceso ed implacabile maturò e sconvolse anche i più cari e sacri affetti. Negli ultimi tempi la situazione si era resa ancora più impossibile tale da consigliare  Mauro e Concetta sul da farsi. Ma per uscire da quel ginepraio di odi e ostilità non vi  era -  per la giovane coppia – che una sola via di uscita – quella che parlava di abbandonare il podere 654.
     Una strada, però, da dover affrontare senza correre rischi. Magari con un discreto  gruzzolo in saccoccia realizzabile attraverso le revisione dei beni di famiglia. Mauro non indugiò ad esternare  ai suoi fratelli i suoi  propositi. Il che avvenne esattamente il pomeriggio del giorno del delitto. Quando tutta la famiglia – dopo il lavoro nei campi – si trovava riunita intorno al rustico e comune desco.
     Una prima versione dei fatti così ricostruì l’accaduto. Mauro fu di poche  ma secche parole: Espose la difficile situazione  di vita creatasi intorno al suo matrimonio e chiese al vecchio genitore la prematura divisione dei beni di famiglia. La proposta – come era logico  attendersi – doveva suscitare  un pandemonio con conseguente lite fra i vari fratelli e relativo passaggio a via di fatto. La lite, appunto,  stava per degenerare in rissa – dalla quale Mauro non poteva – perché solo di fronte ai due fratelli – che uscirne a mal partito.

     Fu allora che Concetta Rea mise in atto il suo sanguinoso disegno. Mentre i tre fratelli se le davano di santa ragione, la giovane, corse difilata in camera sua dove  - in un vecchio cassettone - si trovava custodita una vecchia rivoltella Cal. 38. Concetta impugnò l’arma e senza pensarci su due volte ridiscese decisa a tutto – nella sottostante camera da pranzo dove i tre fratelli continuavano a lottare avvinghiati da una stratta selvaggia.
LA FUGA


      Spianare l’arma e far fuoco sui cognati fu questione di un minuto. Uno, due, tre, quattro  colpi Filomena Lanzella  - la vecchia suocera che aveva visto e compreso il gesto della nuora – che aveva provato con un balzo felino di  ergersi  a scudo degli inermi figlioli – fu la prima  a cadere senza vita,  colpita alla gola ed al torace,  da due proiettili.  Sul suo corpo si accasciò – subito dopo – il figlio Giovanni,  anch’egli colpito alla fronte da altre due pallottole. Poi Concetta – continuando nella sua furia omicida – rivolse l’arma contro Vincenzo – che intanto era riuscito a guadagnare la via dei campi  ma che veniva raggiunto ma sfiorato al braccio dal quinto proiettile.
    Compiuta la strage  Concetta obbligava cinicamente il marito a seguirla. Prima di allontanarsi però, Concetta risaliva ancora nelle camere superiori. Quivi si impossessava del denaro e degli oggetti d’oro dei suoceri e se la dava a gambe seguita dal marito e dal fratellino Aniello di 6 anni appena,  che trascorreva alcuni giorni di vacanza presso la sorella e che aveva da lontano assistito piangendo alla strage. 
     Dovette trascorrere quasi una mezz’ora  - dato  che il podere era in zona isolata -  che sul posto giungessero i carabinieri al comando del maresciallo Giovanni Coviello. Ma ormai, oltre alle contestazioni di rito, non c’era nulla da fare per le due vittime. Arduo, intanto, si presentava il compito degli inquirenti per accertare il movente del duplice delitto. Le voci popolari giunte ai carabinieri parlavano però non solo di interessi ma anche di onore e di vendetta. Correva la voce che Giovanni Purcaro, fratello di Mauro,  era stato fidanzato  con la  Concetta Rea prima del matrimonio del fratello.
     Alcuni dubbi  risaltarono  subito alla mente dei carabinieri: Come mai Mauro, a cui era stata uccisa la madre ed un fratello era fuggito, senza scarpe, assieme alla moglie assassina? Era stato suo complice nel delitto? Aveva commesso egli il matricida ed il fratricidio? Voleva far addossare la responsabilità alla giovane moglie adombrando un delitto passionale? Una ridda di ipotesi. Il ferito ed il vecchio agricoltore – come era nello stile dei contadini “mazzonari”, risultarono “omertosi”. Alle domande degli inquirenti si trincerarono dietro un incomprensibile mutismo. Intanto Concetta, dopo aver percorso un certo tratto di campagna a piedi aveva noleggiato a Casal di Principe un’auto con la quale si era fatta accompagnare alla periferia di Acerra.   
    
LA CATTURA

     Tre giorni dopo il delitto la Rea venne catturata,  trovata accovacciata tra i covoni di grano. Concetta Rea indossava una gonna rossa ed una camicetta  bianca appariva pallida e smunta. Recava una fasciatura ad un dito del piede sinistro ferita dal rimbalzo di un proiettile. Un colpo  - sostenne – sparato al suo indirizzo dal cognato Giovanni,  che aveva scaturito una legittima difesa  E così si appresero  altri particolari del delitto, del movente e della rocambolesca fuga. Ci furono anche versioni di testimoni oculari arrivati sul posto subito dopo il  duplice delitto, che  era avvenuto a tre chilometri dall’abitato,  nel podere n. 654, assegnato anni fa dall'Opera Nazionale Combattenti, dopo la bonifica, alla famiglia napoletana dei Purcaro. 
     “Quel tragico pomeriggio si udirono cinque colpi d’arma da fuoco, seguiti da grida e pianti” – avevano riferito i  contadini delle fattorie vicine -  subito accorsi, ed avevano trovato  nella camera a pianterreno due corpi inanimati fra il sangue: la vecchia madre Filomena e il figlio Giovanni; un altro figlio, Vincenzo, trascinatosi sull’aia, si appoggiava a un pagliaio con la camicia arrossata per ferite alla spalla ed al braccio destro.   Il malanimo era nato perchè i due vecchi avevano diviso parte dei sedici ettari fra i figli e le figlie, ma continuavano a coltivare il resto del terreno, assistiti da due di essi, Giovanni e Mauro, che partecipavano con i genitori agli utili del raccolto. La giovane sposa di Mauro vedeva male la simpatia dei suoceri per Orsolina, la moglie di Giovanni, e temeva che essi avessero fatto, in segreto, un testamento più favorevole all’altro figlio.

     Essa finì per suggestionare il marito, e per creare una pericolosa tensione fra i due fratelli. Perciò nacque, fra Mauro e Giovanni, una lite che, forse, non sarebbe andata oltre le parole irate se all’improvviso Concetta, che era presente, non avesse aperto un cassetto estraendo, fulminea, una grossa Colt, che puntava verso la suocera ed i cognati, premendo più volte il grilletto. Nella furia, anzi, sbagliava e colpiva di striscio anche il marito.
     L’ennesima ricostruzione dei fatti racconta che poi Concetta, armatasi di un fucile, d’una cartuccera e d’un pugnale e sempre impugnando l’arma costringeva il marito Mauro a fuggire con lei per la campagna. Secondo una voce, diffusasi nella serata  fra i contadini della  zona, la Concetta avrebbe poi ucciso anche il marito. Intanto su fonogramma della stazione di Cancello Arnone, i carabinieri di Acerra, il paese dell’omicida, fermarono  Salvatore e Raffaele Rea, padre e fratello di Concetta, accusandoli di aver fornito essi la pistola ed il pugnale alla donna, che più volte s’era lamentata con i suoi parenti dell’ostilità con cui la trattava la famiglia del marito.
     Passando tra una fitta folla, le salme della madre e del figlio furono sepolte nel pomeriggio. Il morto, Giovanni, lascia, con la moglie, tre bambini. Poiché si temeva che la Concetta - che in quelle  campagne era  tanto nota per il suo fiero carattere, da esser denominata  “la brigantessa” -  potesse spargere altro sangue, i carabinieri dei gruppi di Caserta e Napoli  tesoro una fitta  rete di controllo  per costringerla ad arrendersi; tra l’altro vietarono ai familiari degli uccisi di unirsi a loro nel tentativo di scoprire il nascondiglio dell’assassina. I carabinieri notarono che – nei giorni dei funerali – nessun congiunto aveva seguito il feretro e che questo atto dimostrava che “neanche la morte cancella l’odio in certe zone dei mazzoni”.
      Intanto, come detto, Concetta era  stata catturata fra i covoni in agro  Acerra.  La sua prima dichiarazione era stata quella di avere sparato per difendere il marito. Suo marito Mauro, che era fuggito con lei, era ancora latitante. Le indagini svolte dalla Procura della Repubblica del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere  e dai carabinieri dei gruppi di Caserta e di Napoli,  avevano  accertato che, subito dopo la strage, la donna, insieme al fratellino, Aniello, e al marito, si era buttata  per i campi. Poiché il marito, al momento della, tragica lite, si trovava in calzoncini, i tre si fermarono lungo il Volturno dove acquistarono per mille lire da un pescatore un paio di pantaloni lunghi, dirigendosi quindi attraverso i terreni coltivati, a Casal di Principe.

     Là giunti noleggiarono un’auto, recandosi nel paese natio dell’omicida, la contrada S. Giovanni, una frazione del comune di Acerra. La donna chiese e ottenne ospitalità da un suo zio, Cuono Rea, nella fattoria Curti. Ma i carabinieri erano stati informati del suo nascondiglio: nella nottata, accerchiarono la zona, perlustrando pagliaio e fienile con lampadine e lanterne. A un tratto, sollevando un covone, il brigadiere  Ferdinando Piccolo, scorse la assassina accovacciata. Le puntò contro il mitra, per impedirle ogni reazione, poiché la sapeva armata e decisa a tutto. Ma la donna non disse parola e seguì, docile, i militi.   
     Immediatamente veniva condotta nella caserma di Capua, e di là trasferita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove fu medicata per una ferita d’arma da fuoco al piede. Già  dopo la fuga la donna si era rivolta, per una medicazione, a un medico di Acerra. Il dott. Giovanni Cuomo, però, avendo intuito che si trattava di una ferita da arma da fuoco  aveva poi inviato ai carabinieri il referto. La notizia della cattura dell’assassina fu resa pubblica con ritardo per misura precauzionale, volendosi evitare che i superstiti della famiglia Purcaro compissero su lei la vendetta che avevano pubblicamente minacciata.
     Durante gli interrogatori, Concetta Rea - conosciuta in paese col nomignolo di “brigantessa” per il suo carattere fiero - negò d’aver agito per motivi d’interesse, dando  una versione diametralmente opposta a quella ricostruita dagli inquirenti. “La terra non c’entra”, disse. Poi  spiegò che il cognato Giovanni, al quale era stata in passato fidanzata, la insidiava da tempo. Più volte mentre era al lavoro in campagna, in assenza del marito, aveva dovuto difendersi dai suoi tentativi di violenza, finché, un giorno fu costretta a dirgli che in quella condizione non poteva più vivere.  “Domenica -   continuò  la donna - mio marito Mauro ha affrontato suo fratello Giovanni; è stato quest’ultimo ad impugnare la pistola e a sparare un primo colpo che certo avrebbe colpito mio marito, se io, dandogli un urtone al braccio, non avessi fatto deviare il proiettile, che mi ha ferita ad un piede. Allora gli ho strappato di mano l’arma e, accecata dall’ira, ho premuto a mia volta il grilletto, senza sapere che facessi. Poi sono fuggita   buttando la pistola in un cespuglio”.

     La pistola fu ritrovata nel luogo indicato dall’omicida. Era una vecchia arma militare a tamburo, modello 89, calibro 10,35. Dei sei colpi, uno solo era ancora in canna. Due avevano raggiunto la suocera, uccidendola, un terzo aveva ucciso il Giovanni e un altro aveva ferito Vincenzo Purcaro. Il quinto era quello che aveva colpito al piede l’omicida.
I PROCESSI

     Poi seguirono i processi.  La Corte Suprema di Cassazione,  ritenne  che i 27 anni inflitti alla giovane sposa casertana,  dall’Assise di  Appello di Napoli, in seguito alla  prima condanna della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  per lo spietato duplice omicidio era  l’equa sanzione della sua colpa.  Negata ancora una volta l’attenuante della provocazione invocata dalla difesa per le mortificazioni inflitte all’imputata, a cui la famiglia del marito rinfacciava la mancata “prova di illibatezza”.
     Un odio smisurato: questa la giustificazione che i giudici di merito diedero ai due tremendi delitti compiuti da una donna, per un movente, sia pure grave, ma mai proporzionato ad un crimine cosi aberrante. Ventisette anni di carcere per un duplice omicidio sono un prezzo più che giusto e la Corte di Cassazione per questo motivo la Corte di Cassazione respinse il ricorso dell’imputata, confermando la pena.
     “Quella di Concetta Rea è una vicenda che ha dell’inverosimile – ( emerse  una terza e nuova  versione dei fatti  sostenuta dalla pubblica accusa nei processi), la ragazza, appena ventitreenne, aveva sposato a Cancello Arnone, un comune in provincia di Caserta che conta meno di 3000 abitanti, Mauro Purcaro. La suocera “non aveva potuto constatare l’integrità della nuora”, come vuole una barbara usanza, che ancora vige in alcuni paesi del Sud.  Intanto era  nato in Concetta un odio sordo nei confronti della suocera e di tutti i familiari del marito con i quali era costretta a vivere. Tale sentimento malevolo era poi inasprito dal fatto che la suocera aveva mostrato maggiore simpatia per un’altra nuora, Orsola, moglie di Giovanni, un fratello di suo marito, convivente anch’essa con la patriarcale famiglia. Per cinque mesi i litigi si susseguirono incessantemente con reciproche accuse”.
     “Poi, improvvisamente, scoppiò la tragedia. Il 1° agosto 1954 Concetta Rea, per difendere il fratello, un ragazzetto di 12 anni accusato ingiustamente dal cognato di immoralità, aveva provocato l’intervento del marito che si era azzuffato con il fratello. Erano intervenuti il suocero e altri cognati a dividere i due fratelli, ma Concetta Rea era corsa in casa, si era armata di pistola e, ritenendo che il marito fosse vittima di un’aggressione combinata da tutti i familiari, aveva sparato sul cognato Giovanni che cadde morto”.  .
     Rinviata a giudizio per duplice omicidio e tentato omicidio, la donna si difese, in Corte d’Assise a Santa Maria Capua Vetere, prospettando -  assistita dal prof. Alfredo De Marsico -  numerose tesi difensive; l’eccesso colposo in legittima difesa, la provocazione e lo stato d’ira.  La sentenza dei giudici di secondo grado di Napoli, con la quale Concetta Rea fu condannata a 27 anni di reclusione, fece giustizia di quelli che l’estensore definì  “pretesti difensivi”. I giudici si limitarono a concedere all’imputata le attenuanti generiche, negando,  peraltro,  che essa fosse stata provocata e definendo “fantasie” ( la giovane sostenne che il cognato Giovanni, approfittando dell’assenza di suo marito, l’aveva insidiata e che il suo rifiuto aveva scavato fra di loro un odio insanabile),  le insidie delle quali sarebbe stata fatta oggetto da parte del cognato caduto sotto il suo piombo.

     Dello stesso parere furono i giudici della Corte d’Assise di appello di Napoli ai quali la sciagurata si era rivolta con la speranza di ottenere una riduzione della pena. La sentenza tuttavia fu integralmente confermata. Concetta Rea – attraverso i suoi difensori – fece ricorso in   Cassazione sostenendo che fu provocata dal comportamento della suocera, che la mortificò più volte, ricordandole la mancata riuscita della barbara prova della purezza e da quello del cognato, che, nonostante lo stretto rapporto di parentela, l’aveva insidiata, covando poi un profondo odio nei suoi riguardi dopo il reciso rifiuto opposto alle sue laide offerte. Ma anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione (I Sezione, presidente Gianpaolo Vista) avevano ritenuto che la condanna a 27 anni di reclusione era una pena giusta per il duplice delitto.    

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