IL
LIBRO E’ IN VENDITA ESCLUSIVA
PRESSO IL BANCO EDIZIONI GIUFFRE’
ALL’INTERNO
DEL
PALAZZO DI
GIUSTIZIA
DI SANTA MARIA CAPUA VETERE
TUTTI I GIORNI FERIALI
Per
richiedere una copia del libro “Il Caso
Tafuri” di Ferdinando Terlizzi: ferdinandoterlizzi37@gmail.com
– tel. 388.429.38.28 – Oppure Stampa Sud telefax 0823. 84.44.00 - Via
Nazionale Appia 44 Curti ( Ce) e mail stampasud@tin.it -
Incipit e finale dell’arringa dell’avvocato Alfonso Martucci
in difesa di Aurelio Tafuri, accusato di
omicidio volontario con l’aggravante dell’occultamento di cadavere, crudeltà e
premeditazione, pronunciata innanzi la
Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere il mese di luglio del 1963
Eccellentissimo Signor
Presidente, Signor Consigliere, Signore e Signori della Corte di Assise di S. Maria C.V.; Il 10 marzo 1960, la giornata grigia ed uggiosa, viene percorsa da una notizia che costituisce, per la nostra
città, come un brivido; il Dott. Aurelio
Tafuri ha ucciso un uomo. L’annuncio
serpeggia nelle strade, nelle piazze, ai
crocicchi, penetra nei circoli, negli uffici, nelle case; si contorna di dettagli:
“questa mattina il dott. Aurelio Tafuri
si é costituito alle carceri e si è confessato autore di un omicidio. Sì, e ha
dichiarato di avere ucciso un giovane
napoletano, un certo Gianni De Luca.
E di avere gettato giù nel fiume Volturno, il cadavere”.
Nei giorni seguenti l’11 e 12
marzo, la notizia resta ben salda al vertice della attenzione, della curiosità,
dell’interesse dei cittadini di S. Maria
C.V e poi, via via di quelli della provincia, man mano che la stampa, con
articoli a carattere di scatola, si
impadronisce dell’episodio, dei
cittadini di tutta la nazione e forse
oltre!
Signor presidente, signor
consigliere, signore, signori della
corte: Nel prendere concedo da voi consentitemi di manifestarvi, in tutta
sincerità di animo il mio disagio per non potere portare a compimento, fino in
fondo, la mia pur modesta opera di primo difensore di Aurelio Tafuri.
Sento il bisogno di parlarvi delle aggravanti,
la premeditazione, della crudeltà; ma
devo reprimere la mia esigenza di apertura dell’anima e della mente, nel rispetto della divisione dei compiti tra
noi difensori stabilita; del tempo di
cui ho largamente abusato.
Due aggravanti, che
agevolmente i colleghi della difesa dimostreranno insussistenti - la premeditazione e quel breve decorso di
tempo tra l’insorgere dell’idea del delitto con la telefonata annunciata della
partenza di Anna Maria Novi per
Udine e l’esecuzione dell’omicidio - le
ore 14 la prima le ore 22 la seconda -
troppo poco tempo pur nella interpretazione più avara della Cassazione
ed anzi la mancanza assoluta di un vero e proprio spazio temporale, tra ideazione ed esecuzione, giacché subito
dopo quella telefonata Tafuri provvederà alla preparazione dell’omicidio; il suo scatenamento lo fa passare già
direttamente nella fase della esecuzione.
Ma quanti altri problemi di
carattere giuridico e psichiatrico il tema della premeditazione prospetta? E noi dobbiamo risolutamente reprimere il
bisogno di parlarne. La crudeltà,
chiaramente una superstizione dell’accusa, l’aggravante di carattere
soggettivo la quale é caratterizzata dalla compiacenza di far soffrire, di
sottoporre la vittima a sofferenze non necessarie, laddove tutti riconoscono,
fin dal Procuratore Generale nella
requisitoria scritta, che il Tafuri inferse quel maggior numero di colpi di
punteruolo alla vittima, nella tema che il De Luca non fosse morto, e cioè per
accelerarne la morte, per eliminargli
l’aggroviglio di sofferenze; in definitiva per ragioni proprio opposte a
quelle per le quali la legge penale prevede l’aggravante della crudeltà. .
Ma il mio rammarico di non
potere parlare approfonditamente di questi argomenti, di vedere incompleta,
stroncata questa mia opera di difensore, non suoni assolutamente come una polemica nei vostri confronti, signor Presidente.
Io attesto verso di voi il
rinnovato senso della mia gratitudine per avermi consentito, primo di cinque
difensori, di levare comunque la mia parola in difesa di Aurelio Tafuri, la gratitudine che si estende ai componenti
autorevoli della Corte, all’insigne Procuratore
Generale, ai colleghi tutti, a quanti altri hanno voluto seguire questa mia
disadorna, incompleta, ma fervida
fatica, con un attenzione, con un interesse che altamente mi onorano.
Certo, le nostre
argomentazioni di avvocati daranno, dal più modesto che vi ha parlato, al più
insigne tra quelli, che vi parleranno, il contributo alla soluzione giudiziaria
della tragica vicenda e la dialettica si comporrà, in questa, come in tutte le
cause nella vostra decisione, signori giudici, la sintesi di sempre, troverà il
suo fondamento e la sua affermazione nella vostra decisione.
So che non vi mancano
intelligenza e cultura, sensibilità e coscienza, perché il verdetto che andrete
a pronunciare in questo processo, corrisponda il più possibile alla realtà
storica. Una realtà tanto più difficile da ricostruire in guanto si tratta
della realtà dell’anima di un uomo; i fatti,
tutti chiari, andranno ricondotti nell’alveo della tormentata, personalità
dell’imputato.
Opera sublime, ma ardua,
quella del giudice, l’opera umana più di tutti vicina a quella divina, la
penetrazione nell’animo di un uomo; il giudizio sulla sua azione, sul suo grado
di responsabilità. Ed per questo, signori,
che io ho fiducia, non vi mancherà l’aiuto di Dio,
nell’assolvimento della vostra opera.
E la vostra sentenza
rappresenterà una porta che si chiude, su questo torbido, tumultuoso passato,
di una storia inesorabilmente sfociata in un assurdo delitto, che rappresenterà, nel giudizio sereno,
pacato, obiettivo, una formula di riconoscimento per tutti i protagonisti del
dramma che in questi giorni di dibattimento siamo andati costruendo.
La sentenza del giudice, ha
anche questo grande valore, morale, storico, di chiuderla definitivamente una
vicenda; di far calare conclusivamente il sipario sulla scena, di spegnere
risolutivamente i riflettori sulla retrospettiva. E tutti finiscono per
riconoscere questa funzione di definizione di chiusura.
E’ nella aspirazione degli
uomini di acquietarsi per il passato,
tanto più se triste e luttuoso, é nell’istinto di conservazione, di
proiettarsi verso il futuro, è nell’esigenza psicologica e sociale dell’uomo,
quindi, aggrapparsi alla sentenza del giudice come allo invito, pur rigoroso
dell’autorità della legge, a considerare impressa la parola fine, al quel capitolo
di storia.
Forse é anche la coscienza di
limitatezza, di finitezza dell’uomo, la sua incertezza nel possesso sicuro di
una verità umana, nell’avvertimento che essa gli sfugge sommersa in una
altalena di relatività, forse sull’orizzonte più ampio di una verità sovrumana:
”Regiudicata pro veritate habetur!”.
La vostra decisione finirà
per trovare tutti proiettati verso un futuro, più o meno preciso, sia quello
della rassegnazione dei genitori, quelli della vittima, quelli dell’imputato;
le anime in pena di sempre, bisognevoli anche loro, di riprendere la vita,
accompagnando la malinconia del bene perduto, alla dolcezza di altri affetti
familiari; alla necessità degli impegni, che la lotta quotidiana comporta, sia
quella del pentimento, o della pervicacia dei soggetti più squallidi e più
infami di questa storia: la Novi, il D’Agostino, ripiegati su uno
smarrimento che imponga loro una ricostruzione più valida della loro esistenza,
su valori morali più validi, così come io loro auguro, oppure avviati nuovamente
verso altri lidi di sfruttamento, di truffa, di cinismo, così come io per loro
temo.
Ma tutti, i maggiori ed i minori protagonisti sopravvissuti della
vicenda, avviati verso un futuro che non cancella, ma che certo attenua, sfuma,
addolcisce le linee del passato. Tutti, tranne uno, tranne lui: Aurelio Tafuri.
Qualunque sia il vostro verdetto, a qualunque
delle contrapposte tesi vorrà aderire, questo è sicuro che troverà Aurelio Tafuri, ancora vinto ed
imprigionato da quel dannato schema mentale, che lo ha portato alla perdizione
del delitto, lontano da ogni interesse, indifferente ad ogni affetto,
distaccato dal mondo circostante, disinteressato allo stesso esito, della lunga
vicenda giudiziaria, disancorato da un qualunque programma, da un qualunque
volto del futuro; Aurelio Tafuri
resterà chiuso nella sua cella sporca, crogiolato nella pigrizia e nella
solitudine, fisso, bloccato su quel suo convincimento, su quella sua
invocazione: ”La volontà di Anna! la
volontà di Anna! la volontà di Anna!”.
Nella formula vuota, distorta
dalla logica, distaccata dalla realtà, egli continuerà ad illudersi di trovare
la spiegazione del suo delitto, fino a quando la forza di aspettare un sole
scialbo che sorga ogni alba, lo troverà, lo accompagnerà; cosi la vostra sentenza
e per lui non avrà significato di acquietamento, di conclusione, di proiezione
verso il futuro. Ma anche per lui
signori, soprattutto per lui, essa sarà emanata per quell’umanità anomala,
sofferente, tormentata, per quella umanità malata, in nome della quale sovente
la giustizia penale compie il suo cammino.
Nessun commento:
Posta un commento