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domenica 28 dicembre 2014

IL LIBRO E’ IN VENDITA ESCLUSIVA 

PRESSO IL BANCO  EDIZIONI GIUFFRE’ 

ALL’INTERNO 


DEL 

PALAZZO DI GIUSTIZIA


DI SANTA MARIA  CAPUA VETERE 


TUTTI I GIORNI  FERIALI




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Incipit e finale  dell’arringa dell’avvocato Alfonso Martucci in difesa di Aurelio Tafuri,  accusato di omicidio volontario con l’aggravante dell’occultamento di cadavere, crudeltà e premeditazione,  pronunciata innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere il mese di luglio del 1963




Eccellentissimo Signor Presidente,  Signor Consigliere,  Signore e Signori  della Corte di Assise di S. Maria C.V.;  Il 10 marzo 1960, la giornata grigia  ed uggiosa, viene percorsa  da una notizia che costituisce, per la nostra città, come un brivido; il Dott. Aurelio Tafuri ha ucciso un uomo.  L’annuncio serpeggia nelle strade, nelle piazze,  ai crocicchi, penetra nei  circoli, negli  uffici, nelle case; si contorna di dettagli: “questa mattina   il dott. Aurelio Tafuri si é costituito alle carceri e si è confessato autore di un omicidio. Sì, e ha dichiarato di avere ucciso  un giovane napoletano, un certo Gianni De Luca. E di avere gettato giù nel fiume Volturno, il cadavere”.
Nei giorni seguenti l’11 e 12 marzo, la notizia resta ben salda al vertice della attenzione, della curiosità, dell’interesse dei  cittadini di S. Maria C.V e poi, via via di quelli della provincia, man mano che la stampa, con articoli a carattere di scatola,  si impadronisce  dell’episodio, dei cittadini di tutta la  nazione e forse oltre!

Signor presidente, signor consigliere,  signore, signori della corte: Nel prendere concedo da voi consentitemi di manifestarvi, in tutta sincerità di animo il mio disagio per non potere portare a compimento, fino in fondo, la mia pur modesta opera di primo difensore di Aurelio Tafuri.
 Sento il bisogno di parlarvi delle aggravanti, la premeditazione, della  crudeltà; ma devo reprimere la mia esigenza di apertura dell’anima e della mente,  nel rispetto della divisione dei compiti tra noi difensori stabilita;  del tempo di cui ho largamente abusato.
Due aggravanti, che agevolmente i colleghi della difesa dimostreranno insussistenti -  la premeditazione e quel breve decorso di tempo tra l’insorgere dell’idea del delitto con la telefonata annunciata della partenza di Anna Maria Novi per Udine e l’esecuzione dell’omicidio -  le ore 14 la prima le ore 22 la seconda -  troppo poco tempo pur nella interpretazione più avara della Cassazione ed anzi la mancanza assoluta di un vero e proprio spazio temporale,  tra ideazione ed esecuzione, giacché subito dopo quella telefonata Tafuri provvederà alla preparazione dell’omicidio;  il suo scatenamento lo fa passare già direttamente nella fase della esecuzione.
Ma quanti altri problemi di carattere giuridico e psichiatrico il tema della premeditazione prospetta?  E noi dobbiamo risolutamente reprimere il bisogno di parlarne. La crudeltà,  chiaramente una superstizione dell’accusa, l’aggravante di carattere soggettivo la quale é caratterizzata dalla compiacenza di far soffrire, di sottoporre la vittima a sofferenze non necessarie, laddove tutti riconoscono, fin dal Procuratore Generale nella requisitoria scritta, che il Tafuri inferse quel maggior numero di colpi di punteruolo alla vittima, nella tema che il De Luca non fosse morto, e cioè per accelerarne la morte, per eliminargli   l’aggroviglio di sofferenze; in definitiva per ragioni proprio opposte a quelle per le quali la legge penale prevede l’aggravante della crudeltà.         .
Ma il mio rammarico di non potere parlare approfonditamente di questi argomenti, di vedere incompleta, stroncata questa mia opera di difensore, non suoni assolutamente come una  polemica nei vostri confronti, signor Presidente.
Io attesto verso di voi il rinnovato senso della mia gratitudine per avermi consentito, primo di cinque difensori, di levare comunque la mia parola in difesa di Aurelio Tafuri, la gratitudine che si estende ai componenti autorevoli della Corte, all’insigne Procuratore Generale, ai colleghi tutti, a quanti altri hanno voluto seguire questa mia disadorna, incompleta,  ma fervida fatica, con un attenzione, con un interesse che altamente mi onorano.
Certo, le nostre argomentazioni di avvocati daranno, dal più modesto che vi ha parlato, al più insigne tra quelli, che vi parleranno, il contributo alla soluzione giudiziaria della tragica vicenda e la dialettica si comporrà, in questa, come in tutte le cause nella vostra decisione, signori giudici, la sintesi di sempre, troverà il suo fondamento e la sua affermazione nella vostra decisione.
So che non vi mancano intelligenza e cultura, sensibilità e coscienza, perché il verdetto che andrete a pronunciare in questo processo, corrisponda il più possibile alla realtà storica. Una realtà tanto più difficile da ricostruire in guanto si tratta della realtà  dell’anima di un uomo; i fatti, tutti chiari, andranno ricondotti nell’alveo della tormentata, personalità dell’imputato.
Opera sublime, ma ardua, quella del giudice, l’opera umana più di tutti vicina a quella divina, la penetrazione nell’animo di un uomo; il giudizio sulla sua azione, sul suo grado di responsabilità. Ed per questo, signori,  che io ho fiducia,  non vi mancherà l’aiuto di Dio, nell’assolvimento della vostra opera.
E la vostra sentenza rappresenterà una porta che si chiude, su questo torbido, tumultuoso passato, di una storia inesorabilmente sfociata in un assurdo delitto,   che rappresenterà, nel giudizio sereno, pacato, obiettivo, una formula di riconoscimento per tutti i protagonisti del dramma che in questi giorni di dibattimento siamo andati costruendo.

La sentenza del giudice, ha anche questo grande valore, morale, storico, di chiuderla definitivamente una vicenda; di far calare conclusivamente il sipario sulla scena, di spegnere risolutivamente i riflettori sulla retrospettiva. E tutti finiscono per riconoscere questa funzione di definizione di chiusura.
E’ nella aspirazione degli uomini di acquietarsi per il passato,  tanto più se triste e luttuoso, é nell’istinto di conservazione, di proiettarsi verso il futuro, è nell’esigenza psicologica e sociale dell’uomo, quindi, aggrapparsi alla sentenza del giudice come allo invito, pur rigoroso dell’autorità della legge, a considerare impressa la parola fine, al quel capitolo di storia.
Forse é anche la coscienza di limitatezza, di finitezza dell’uomo, la sua incertezza nel possesso sicuro di una verità umana, nell’avvertimento che essa gli sfugge sommersa in una altalena di relatività, forse sull’orizzonte più ampio di una verità sovrumana: ”Regiudicata pro veritate habetur!”.
La vostra decisione finirà per trovare tutti proiettati verso un futuro, più o meno preciso, sia quello della rassegnazione dei genitori, quelli della vittima, quelli dell’imputato; le anime in pena di sempre, bisognevoli anche loro, di riprendere la vita, accompagnando la malinconia del bene perduto, alla dolcezza di altri affetti familiari; alla necessità degli impegni, che la lotta quotidiana comporta, sia quella del pentimento, o della pervicacia dei soggetti più squallidi e più infami di questa storia: la Novi,  il D’Agostino, ripiegati su uno smarrimento che imponga loro una ricostruzione più valida della loro esistenza, su valori morali più validi, così come io loro auguro, oppure avviati nuovamente verso altri lidi di sfruttamento, di truffa, di cinismo, così come io per loro temo.
Ma tutti, i maggiori ed  i minori protagonisti sopravvissuti della vicenda, avviati verso un futuro che non cancella, ma che certo attenua, sfuma, addolcisce le linee del passato. Tutti, tranne uno, tranne lui: Aurelio Tafuri.
 Qualunque sia il vostro verdetto, a qualunque delle contrapposte tesi vorrà aderire, questo è sicuro che troverà Aurelio Tafuri, ancora vinto ed imprigionato da quel dannato schema mentale, che lo ha portato alla perdizione del delitto, lontano da ogni interesse, indifferente ad ogni affetto, distaccato dal mondo circostante, disinteressato allo stesso esito, della lunga vicenda giudiziaria, disancorato da un qualunque programma, da un qualunque volto del futuro; Aurelio Tafuri resterà chiuso nella sua cella sporca, crogiolato nella pigrizia e nella solitudine, fisso, bloccato su quel suo convincimento, su quella sua invocazione: ”La volontà di Anna! la volontà di Anna! la volontà di Anna!”.

Nella formula vuota, distorta dalla logica, distaccata dalla realtà, egli continuerà ad illudersi di trovare la spiegazione del suo delitto, fino a quando la forza di aspettare un sole scialbo che sorga ogni alba, lo troverà, lo accompagnerà; cosi la vostra sentenza e per lui non avrà significato di acquietamento, di conclusione, di proiezione verso il futuro.  Ma anche per lui signori, soprattutto per lui, essa sarà emanata per quell’umanità anomala, sofferente, tormentata, per quella umanità malata, in nome della quale sovente la giustizia penale compie il suo cammino.






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