I
delitti più efferati di Terra di Lavoro
Accadde sul Ponte Annibale in tenimento di Caiazzo nel marzo del 1960
IL TRUCE
DELITTO DEL MEDICO SAMMARITANO AURELIO TAFURI
Uccise il fidanzato della sua “singolare” amante –
Colpì furiosamente con una sbarra lo
studente Gianni De Luca e lo finì trafiggendogli il cuore con un punteruolo.
Getto’ il cadavere nel Volturno e si
andò a costituire in carcere.
Un delitto con lo sfondo del sesso, del sesso, del voyeurismo e della follia. Il delitto di un uomo normale travolto da una passione ignominiosa
Mancava,
in quel 1960, una manciata di anni alla legalizzazione della pillola
anticoncezionale. Ma le case di tolleranza avevano chiuso da soli due anni e le
ragazze madri venivano ancora chiamate donne
perdute, trattate da poco di buono e considerate pericolose per gli uomini
per bene. Tutte sciocchezze, naturalmente, perché il pericolo in realtà veniva
quasi sempre dagli uomini. Anche da professionisti seri e stimati come il
dottor Aurelio Tafuri, trentadue
anni, medico di Santa Maria Capua Vetere dove aveva uno studio accorsato, cioè molto ben avviato.
Tafuri, innamorato senza speranza di Annamaria
Novi, ballerina, indossatrice e madre nubile, il 9 marzo 1960 colpì
furiosamente con una sbarra lo studente Gianni
De Luca e lo finì trafiggendogli il cuore con un punteruolo. Il cugino
Giannino Tafuri, farmacista vevier e
frequentatore della dolce vita napoletana li presentò.
Lei rimase colpita dall’aspetto distinto e
dai modi galanti - soprattutto il baciamano - del medico. Lui, all’inizio,
quasi da nulla: “A prima vista non era un
granché. La faccia era minuta, ossuta, con il mento lievemente appuntito”
scriverà il dottore anni dopo in un suo memoriale rievocando quel primo
incontro. “Indossava un grosso maglione e
una gonna larga a campana. Dal suo atteggiamento e dal suo modo di parlare
dedussi poi che era una donnetta comune, socialmente modesta. Anche la voce, in
falsetto, era alquanto sgradevole. Una cosa però mi colpì: i suoi occhi, di una
bellezza stupefacente.”
Aurelio se ne innamorò. Perse la testa per Annamaria
che lui chiamava Nenné o semplicemente Anna («Non
mi sono mai piaciuti i nomi doppi») con l’ingenuità di un trentenne che non
ha mai nemmeno sfiorato una ragazza. Aurelio
non diventò mai l’amante dell’amata Nenné. Quel che invece è certo è che un giorno, a un
défilé cui Annamaria partecipava come mannequin
si presentò un nuovo giovane pretendente: Gianni De Luca, studente, di buona
famiglia. Gianni ha solo diciannove anni ed è passionale e impetuoso come può
esserlo un ragazzo di quell’età. Annamaria ne è molto presa. Dopo tante avventure
e storie sbagliate, s’illude che quella con Gianni possa essere quella giusta.
È felice e si confida con il suo cavaliere
pallido. Che la mette in guardia: «Attenta,
è troppo giovane, non saprà farti felice». Ma accetta l'ingresso di Gianni
nella vita della sua protetta. Sarebbe meglio dire che lo subisce soffrendo
orribilmente, in silenzio. Non tace, invece, il giovane e veemente Gianni, che
nel frattempo si è trasferito nell'appartamento di Annamaria e l'ha pure messa
incinta. A lui quel medico così condiscendente e untuoso proprio non va giù.
Chiede alla sua donna di troncare ogni rapporto. Lei nicchia: Aurelio un po' le
serve, un po' le fa pena.
La
sera del 6 marzo 1960 Annamaria, Gianni e l’onnipresente Aurelio cenarono con
un altro amico della coppia, il sarto omosessuale, Carlo D’Agostino, in una trattoria di
piazza dei Martiri. A un certo punto fra Gianni e il sarto scoppiò una lite.
«D’Agostino l’aveva offeso dandogli dello sfruttatore» racconterà Nenné. La
lite degenerò in una zuffa. Gianni si beccò un calcio al basso ventre, il sarto
un pugno che gli fece sanguinare il naso. Aurelio, al solito, vestì i panni
del nobile cavaliere che divise i corpi, sedò gli animi e si prese cura della
piangente e arrabbiatissima damigella. Convincere Annamaria a passare una
notte tranquilla, da sola, in un albergo di Caserta lontana dal Gianni
furioso non fu diffìcile. L’accompagnò lui stesso, con la sua Giulietta, mentre
Gianni, per nulla d’accordo, li seguiva su un’utilitaria.
Strana
situazione. Troppo strana anche per Nenné, che più tardi scrisse un biglietto di addio al medico. In realtà la ragazza non
andò da nessuna parte ma rimase chiusa in casa per due giorni, tentando forse
di sfuggire ai due pretendenti, o forse cercando per una volta se stessa. Fu
svegliata da Gianni mercoledì 9 marzo, all’alba. «Venne
da me con una notizia curiosa: gli aveva telefonato Tafuri dicendo di avergli
trovato un lavoro come rappresentante di medicinali per la zona di Caserta.»
Tipico di Aurelio, pensò Annamaria. Aurelio così buono e generoso da occuparsi
della sua protetta trovando un lavoro al rivale in amore e, come aveva
aggiunto, pure una casetta per la nuova famigliola. Una notizia così bella da
sembrare finta. Tanto che da casa di Annamaria Gianni ritelefonò a Tafuri per
avere conferma di quella meravigliosa promessa. «Tutto vero, tutto a posto» lo rassicurò il medico, che subito dopo
gli chiese notizie di Nenné. «È partita
per Milano, da lì raggiungerà dei parenti a Udine» mentì il giovane. I due
si diedero quindi appuntamento per le nove di quella stessa sera, in piazza
Medaglie d’oro.
Mentre la sua Nenné dormiva serena,
Aurelio condusse Gianni al ponte della Scafa, una località in aperta campagna
nella piana di Caiazzo, dove avrebbero dovuto incontrare il fantomatico
“datore di lavoro”. A un certo punto il medico fermò la Giulietta e, adducendo
il sospetto di una foratura, chiese a Gianni di scendere e controllare una
ruota. Quando il giovane si chinò, Tafuri lo colpì al capo con una sbarra di
ferro, quindi infierì a lungo sul corpo esanime e infine gli trafisse il corpo
con un punteruolo. Era lucido quando sollevò il cadavere, lo chiuse nel bagagliaio
dell’auto e girò per la campagna in cerca di un luogo dove disfarsene. Lo trovò
al ponte di Annibale, presso Caiazzo. Nessuno lo vide quando tirò fuori il
corpo dall’auto e lo scaraventò nelle acque torbide del Volturno.
Il medico poi si costituì in carcere e
confessò l’atroce delitto. Ma nessuno gli credette. Sembrava a tutti
impossibile un delitto “di un uomo
normale” eticamente, però, si scoprì in seguito, deviato da una ignominiosa
passione. Poi gli inquirenti
cominciarono a credere alla confessione del medico. Però restava il problema
del cadavere: Tafuri sosteneva di averlo buttato nel fiume, ma nessuno riusciva
a trovarlo, e senza un corpo era difficile procedere. Si fece strada l’ipotesi
che il medico mentisse, che avesse nascosto il cadavere in un altro luogo o che
l’avesse sciolto nell’acido nella farmacia del padre. Ci vollero molti
sopralluoghi e la determinante collaborazione di Tafuri che guidò
personalmente le ricerche per ritrovare, nove giorni dopo, la salma del
giovane, nuda e orrendamente martoriata, in un’ansa del Volturno, nei pressi di Capua.
Imprigionato nello stesso carcere dove
aveva lavorato fino al giorno del suo arresto, Aurelio Tafuri iniziò quasi subito
a scrivere il suo memoriale: non lesinò le accuse a se stesso e alla madre.
Conservò intatto il suo amore per Nenné. Si illuse, addirittura, di averne
ottenuto se non il cuore, il perdono, forse perfino un po' dell’antico affetto.
Annamaria, invece, avrebbe voluto cancellare
per sempre il ricordo di quell’uomo che
aveva distrutto i suoi sogni.
Il delitto fece molto scalpore. Per i
protagonisti: lei “bella e dannata”,
lui tardo epigono del dottor Jekill.
E per la torbidezza della storia: sesso,
voyeurismo, follia. Anche Annamaria,
come Aurelio, scrive un memoriale: “Ho
sempre sognato una vita borghese, tranquilla. Ma per colpa del mio temperamento
mi sono trovata al centro di avvenimenti più grandi di me”. Chiede solo di
essere dimenticata, anche se non potrà mai scordare la tragedia di cui è
stata protagonista e vittima. La rivivrà per sempre negli occhi di Gianni, il
bimbo che partorisce cinque mesi dopo, alla fine di una torrida estate.
reclusione. Definito uno schizofrenico. La pubblica accusa chiese
l’ergastolo. Gli
avvocati difensori non riuscirono a farlo passare per
pazzo. Dalla sua vicenda è stato tratto il
libro “Il Caso Tafuri”.
Su Annamaria Novi e Aurelio
Tafuri, invece, calò il silenzio. Riemersero dall’oblio tre anni dopo, il 16
maggio 1963, al processo di primo grado dove lei, vittima del delirio di
Tafuri, rischiò il linciaggio del pubblico che ancora l’additava irragionevolmente
come pietra dello scandalo, causa nemmeno tanto indiretta del delitto. Nessuno,
invece, se la prese con chi, più di chiunque altro, aveva armato il cervello
prima ancora che la mano dell’assassino, la madre del dottore, Maria
Merola. Alla vigilia del processo i giornali dell’epoca si premurano anzi
di descriverne la vita oltremodo pia: ogni mattina, da tre anni, la signora
Maria esce di casa all’alba per assistere alla messa in suffragio di Gianni De
Luca che lei stessa ha dato incarico di officiare al parroco della chiesa del
Cuore Immacolato di Maria, a Caserta. Prega per la vittima del figlio mamma
Maria, ma non risponde alle lettere che il suo ragazzo le scrive dal carcere:
lettere strane, scritte a stampatello, piene di asterischi. Parla, invece, con
i giornalisti chiedendosi come sia stato possibile che un ragazzo con un animo
così gentile si sia macchiato di un così orrendo delitto.
Nessuno tranne la sua
coscienza. Poche ore dopo, infatti, Aurelio si costituì. Provò a farlo
direttamente in carcere, dove si era presentato regolarmente il mattino seguente
per le visite mediche ai carcerati: cercò Enrico
Matano, direttore del carcere, ma era in licenza e poi il rag. Alfredo Grieco, incaricato dell’Istituto di pena, ma questi,
credendo che si trattasse di un problema d'ufficio ed essendo occupato, gli
aveva chiesto di rinviare l’appuntamento al pomeriggio. Aurelio si diresse
allora al suo ambulatorio, dove visitò altri pazienti. Quindi tornò a casa, e
lì trovò mamma Maria. Non aspettava altro: le confessò tutto. E lei gli
credette subito, a differenza degli inquirenti che in un primo momento
pensarono invece di trovarsi di fronte a un mitomane: per il profilo sociale
del reo confesso e anche perché non c’era traccia del cadavere.
In un primo momento il medico
disse di aver ucciso il rivale nel corso di una lite. Ma Annamaria, avvertita
per telefono del fatto e immediatamente convocata in carcere, pur doppiamente
incredula (sia alla scomparsa del fidanzato sia alla confessione di Tafuri)
disse subito ai carabinieri che la storia della lite non reggeva: «Gianni è
giovane e forte, Aurelio no: basta un niente a fargli volare via gli occhiali e
a metterlo nell'impossibilità di muoversi».
Che Aurelio sia pazzo? L'interrogativo
aleggia nell’aula della Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere ( Presidente
Giuseppe Sant’Elia, a latere Guido Tavassi, pubblico ministero Federico Putaturo ) per un mese e
mezzo e ventisei udienze. Alle dieci e trenta del 30 giugno 1963, la Corte, composta
dai giurati: Armando Bassi, da Pietravairano; Maria Caratenuto, da Sparanise; Luigi Ciardulli, da Gricignano; Ubaldo Ciccarelli, da S. Cipriano; Antonietta Fusaro, da Mondragone; nonché i supplenti: Giuseppe Migliozzi, da Capua; Giovanni D’Angelo, da Sessa Aurunca; Maria Ciaramella, da S. Nicola La Strada e Noè D’Angelo, da
Sparanise, si ritira in camera di
consiglio.
Fuori, nella canicola estiva,
l’intero paese di Santa Maria Capua Vetere discute del processo, del
fantomatico produttore cinematografico che, forse, da quella vicenda trarrà un
film e della scelta della famiglia De Luca, che ha deciso di dirottare ogni
indennizzo per la morte del figlio all'Ente comunale di assistenza della città.
Aurelio viene considerato sano di mente e condannato a ventisei anni di
carcere.
Quattro processi decretarono
la sua condanna definitiva a 22 anni di
reclusione. Definito uno schizofrenico dai consulenti di parte fu difeso dagli
avvocati Giovanni Leone, Errico Altavilla,
Alfonso Martucci, Giuseppe Marrocco, Ciro Maffuccini e e Giuseppe Garofalo.
Il P.M. chiese l’ergastolo. La parte civile fu rappresentata dagli avvocati Alfredo De Marsico e Michele Verzillo. Un
anno dopo il verdetto venne parzialmente riformato grazie al fondamentale
apporto di Giovanni Leone, che alternava la toga di principe del Foro alla
casacca democristiana. Grazie alla sua competenza giuridica e alla sua arte
oratoria, venne riconosciuto a Tafuri un parziale vizio di mente e la pena
ridotta a ventidue anni. Dalla sua vicenda ho tratto il libro “Il Caso Tafuri”.
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