L’agguato di mafia
che assassinò il generale e la moglie accadde a Palermo il Venerdì 3 settembre
1982
IL CARABINIERE DI SCORTA AL GENERALE DALLA CHIESA UCCISO ERA DOMENICO RUSSO DI S. MARIA C.V.
La Civica Amministrazione gli ha intitolato una strada – Il
ricordo della famiglia – La moglie ed i figli vivono in Sicilia – Un incontro a
Capua con Nando Dalla Chiesa -
“Quella sera Mimì seguiva con la sua Alfetta nelle strade di
Palermo la A 112 del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa, il nuovo prefetto, insieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, trentadue anni,
che aveva deciso di uscire per andare a
cena. Erano pochi i momenti intimi vissuti in quei mesi concitati nella lotte
contro la mafia. Era stato fatto tutto cosi in fretta. Carlo Alberto nominato
prefetto di Palermo il 30 aprile del 1982. Sull’onda emotiva dell’uccisione del
segretario regionale del Pci, Pio La
Torre. Poi il matrimonio, il 12 luglio dello stesso anno, e dunque il
trasferimento a Palermo. E poi l’isolamento in cui si era venuto a trovare il
prefetto. Lo aveva denunciato anche attraverso i giornali in una intervista a Giorgio Bocca. Emanuela quella sera lo
voleva tutto per sè il generale. Tanto che si mise a guidare l’auto, come per
dire: Stasera esisto solo io. Era una
delle poche volta che poteva godersi il marito. Normalmente le sue giornate il
prefetto le cominciava elle sette del mattino e le finiva dopo la mezzanotte.
Domenico
Russo, Mimi, faceva da
autista e da scorta al generale. Era I’unico agente di scorta perchè all’epoca
non esisteva un servizio come quello di adesso. E l’auto non era nemmeno
blindata. Uscirono da villa Whitaker,
dov’è ospitata la prefettura. Attorno alle
ventuno. Dietro di loro si avviarono anche due auto e una moto. Una Bmw,
una Fiat 132 e una moto Suzuki. In quelle macchine c’erano gli uomini che
alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di mitra. Alle ventuno e quindici in via lsidoro Carini, i sicari si
materializzano. Affiancarono la A112 con dentro il generale e la moglie e un’altra
affiancò l’ Alfetta guidata da Domenico
Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emanuela fu colpita per
prima. L’auto sbanda. Finisce la corsa
vicino ad un marciapiede. Per lei e per il generale non c’è più niente da fare.
Anche per Mimì, sventagliate di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui
entra in azione la motocicletta che, secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto Scarpuzzedda. La sua auto va a sbattere dietro la A112 con dentro i
corpi del generale e della moglie. Mimì scende dall’auto per difendere il
prefetto e la giovane consorte. Si rende subito conto che il gruppo di fuoco
era troppo numeroso e con la sua pistola d’ordinanza avrebbe potuto fare ben
poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di fermare i killer. Non resistette
a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo i mafiosi ebbe subito ragione
del povero carabiniere scelto. In due minuti il massacro era compiuto. I killer
si fermarono. Volevano essere certi che il prefetto rompiscatole, la moglie e il carabiniere di scorta fossero morti. Nel
giro di pochi minuti è tutto finito. Le auto dei killer partono a tutta
velocità. Le troveranno poco dopo incendiate e quasi irriconoscibili.
Ma Mimì
non era morto, era ferito gravemente. Trasportato in ospedale, i
medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà dopo tredici giorni di agonia. Qualche ora dopo, a Santa Maria
Capua Vetere, quando la notizia si diffonderà, toccherà ad un carabiniere, un
collega di Mimì, avvisare i suoi parenti.
Sono appena passate le dieci di sera, quando un militare dell’arma suona al
citofono in via dei Gladiatori, vicino all’anfiteatro romano. “Buonasera. Cerco i parenti di Domenico
Russo”, dice con voce tremante e imbarazzata. “Prego, dite, dite pure”, risponde Secondino Russo, l’anziano papà
di Mimì, mentre apre la porta per far
entrare il giovane che indossa una divisa
a lui familiare e cara. Al suo fianco la moglie Maria e un figlio, Giuseppe. “Ma è successo qualcosa a Mimì?”, chiede la mamma, presagendo che chi aveva bussato fosse un messaggero di sventure. “Sapete”, riprende imbarazzato il carabiniere, “c'è stato un conflitto a fuoco a Palermo. Domenico è stato ferito e si
trova in ospedale”. E mentre ancora il carabiniere cercava di minimizzare l’accaduto, arrivò Teresa, la sorella primogenita di Mimì, che invece aveva sentito la
notizia al telegiornale. Nessuno dei familiari credette al ferimento. Sapevano
bene che in questi casi le bugie sono
dette a fin di bene, per non far spaventare i congiunti.
Nella notte il papà di Mimì e il fratello
Giuseppe vennero accompagnati a Palermo. Assistiti e sostenuti nel miglior modo possibile. Si resero ben
presto conto di ciò che era accaduto
e che per Domenico Russo era solo questione di ore. Non ce l’avrebbe fatta. l medici l’avevano dichiarato clinicamente
morto. Dopo tredici giorni di agonia la
sua vita si spense senza che avesse
mai ripreso conoscenza.
l funerali di Domenico Russo ebbero luogo
in forma privata il 16 settembre 1982 nella
chiesa di Santo Spirito nel cimitero palermitano di Sant'Orsola. Con i familiari c’era anche il sindaco di Santa Maria Capua Vetere e una delegazione di
amministratori comunali. Al funerale c’erano centinaia di suoi colleghi
carabinieri, ma anche di poliziotti.
La salma, che per volontà della moglie rimase
in Sicilia fu portata a spalla dai colleghi nel breve tragitto che separava la
chiesa dal loculo dove fu tumulato. Tra le
autorità presenti ai funerali, c’erano una delegazione del Pci siciliano, il sottosegretario all’lnterno
Angelo
Sanza, il presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana Salvatore Lauricella, il prefetto Emanuele
De Francesco, il ministro della Marina mercantile Calogero
Mannino e il sindaco di Palermo, Nello Martellucci.
Mimì aveva trentadue anni. Lavorava
in Prefettura a Palermo già da qualche anno. Era nato a Santa Maria Capua
Vetere il 27 dicembre del 1950. Era sposato con una ragazza siciliana, Fina da cui aveva avuto due figli, Dino e Toni. Era orgoglioso di sua moglie e si notò sin da quando, ancora
giovane carabiniere era Palermo e portò
a casa la fidanzata siciliana per farla conoscere ai parenti.
“L’ho conosciuto Domenico Russo”, racconta Gennaro Nuvoletta, carabiniere, fratello di un altro giovane
carabiniere Salvatore Nuvoletta,
ucciso dalla camorra a Marano il 2 luglio del 1 982. “Io facevo già da autista e da scorta al generale Dalla Chiesa da
quattro anni. Quando venne nominato prefetto a Palermo il 30 aprile, mi portò
con sé. Domenico Russo, bravissimo ragazzo, lavorava alla Prefettura di
Palermo. Facemmo subito amicizia, perché
lui era campano come me. Il prefetto lo scelse come autista e come agente di
scorta. Il generale mi chiese di istruirlo per una ventina di giorni perché
conoscevo già le sue abitudini e i suoi metodi di lavoro. Avevamo in dotazione
una Croma blindata col telefono a bordo che portai a Palermo i primi di maggio
di quell’anno. Il ragazzo di Santa Maria Capua Vetere si dimostrò subito all’altezza.
Poi tornai a Marano perché il 4 luglio
dovevo sposarmi. Il prefetto si doveva sposare il 12 luglio e mi propose di
andare a vivere a Palermo. Mi avrebbe fatto alloggiare in un appartamento a
Villa Pajno dove alloggiava insieme alla moglie. “Mia moglie lì non conosce
nessuno e nemmeno tua moglie. Così le facciamo stare insieme e si fanno
compagnia a vicenda”, mi aveva detto Il generale Dalla Chiesa, intanto, mi
teneva informato delle sue attività. Continuava a girare per le scuole. “È dai
ragazzi che bisogna cominciare se vogliamo cambiare qualcosa, caro Gennaro”, mi
ripeteva continuamente. “lo lo faccio, ma gli altri?”. “La situazione, però,
precipitò. Il 2 luglio la camorra ammazzò mio fratello. Rimandai il matrimonio.
Il generale si sposò e ripartì per Palermo. Il 3 settembre l’agguato e la
tragica fine per mano dei mafiosi in cui morì anche Domenico Russo, mise fine a
tutto”.
“Io
sono la prima”, dice Teresa Russo,
la sorella di Mimì, “nonostante siano passati tanti anni dalla morte di mio
fratello, non riesco a parlane con serenità. Ogni volta che parlo di Mimì o mi
ricordo dell’accaduto, mi sento male. Mi fa sempre lo stesso effetto, non ci
posso fare niente”. E mentre parla scoppia a piangere. Anche
l'altro fratello Giuseppe non riesce a parlare di Domenico: “Che volete da me?… E passato tanto tempo. Lasciateci stare”.
(Dichiarazioni riportate nel libro “Al di là della notte”, storie di vittime
innocenti della criminalità di Raffaele Sardo )
Qualche anno fa i fratelli di
Mimì si sono incontrati a Capua con il figlio del generale Dalla Chiesa, Nando. Un incontro davvero commovente.
Si sono detti solo poche parole. É bastato poco per dirsi con gli sguardi e con
qualche lacrima tutto il dolore che si portavano dentro da quel 3 settembre del
1982. La moglie di Mimì e i due figli maschi vivono ancora a Palermo. Sono
stati aiutati dallo Stato. Lei lavorava nei grandi magazzini. Fu assunta in
Prefettura a Palermo come impiegata civile. Dino e Toni, dopo il diploma, sono
stati assunti alla Regione Sicilia. Il Comune di Santa Maria Capua Vetere ha
intitolato una strada a Domenico Russo. Proprio la via dove abitava da ragazzo.
Vicino all’Anfiteatro.
Al giovane carabiniere ucciso
con il prefetto di Palermo e la moglie, è stata anche assegnata la medaglia d’oro al
valor civile con la seguente motivazione: “Di scorta automontata per il servizio di
sicurezza ad eminente personalità, assolveva al proprio compito con sprezzo del
pericolo e profonda abnegazione. Proditoriamente fatto segno a numerosi colpi
d’arma da fuoco esplosi a distanza
ravvicinata da parte di alcuni appartenenti a cosche mafiose, tentava di reagire
al fuoco degli aggressori nell’estremo eroico tentativo di fronteggiare i
criminali, immolando così la vita nell’adempimento del dovere. Palermo 3
settembre 1982”.
Mimi,
carabiniere in terra di mafia
L’agonia
e la morte del giovane carabiniere sammaritano riportata da un dispaccio
dell’Ansa dell’epoca
Ansa –
Palermo – 16 settembre 1982 - Morto
l’agente ferito nell’agguato di Palermo. Era la guardia del corpo di Dalla
Chiesa — Il carabiniere Domenico Russo, di 32 anni, che era stato
gravemente ferito la sera del 3 settembre scorso nell'agguato al generale Dalla
Chiesa e alla moglie Emanuela Setti Carraro è morto ieri nel centro di rianimazione
dell'ospedale civile. Russo era entrato nel corpo sette anni fa per assicurarsi un lavoro non
precario - hanno detto i congiunti. Dopo
sposato fu trasferito a Palermo dove fu
assegnato, come autista, al prefetto. Lascia la moglie e due figli. Antonio e
Pino, rispettivamente di due e quattro anni. La morte dell'agente Russo e
avvenuta per collasso cardiocircolatorio. Da alcuni giorni considerato
clinicamente morto — essendo il suo encefalogramma piatto — veniva tenuto in
vita dalle apparecchiature di rianimazione. La salma è stata trasferita nella
sala mortuaria del cimitero di Sant'Orsola per l'autopsia. La camera ardente
sarà allestita, dopo l'autopsia, nella chiesa di Santo Spirito all'Interno del
cimitero. Anche i funerali, per volere del familiari dell'agente, si
svolgeranno stamani nella stessa chiesa. Domenico Russo, era nato a Santa Maria
Capua Vetere (Caserta), al momento dell'agguato seguiva la macchina nella quale
erano il generale e la moglie. Il carabinieri venne colpito da sei proiettili. Quello
risultato letale lo aveva raggiunto alla testa provocando lo scoppio del
cranio. Il proiettile aveva prodotto una lesione encefalica rimanendo
conficcato all’interno della scatola cranica. Il carabiniere era stato sottoposto
ad un lungo e difficile intervento chirurgico, ma i danni provocati dalla
ferita alla testa erano purtroppo irreversibili. A Palermo, chiamato dall'alto
commissario contro la mafia Emanuele De Francesco, era giunto il prof.
Guidetti, neurochirurgo di fama internazionale, il quale però aveva confermato
la diagnosi di “morte cerebrale” fatta dall'equipe di medici palermitani
guidata dal prof. Vanadio. Da quel giorno Domenico Russo è stato mantenuto in
vita meccanicamente e pur essendovi la certezza che non c'era più nulla da fare
il prof. Vanadio “da cristiano e da padre di famiglia” si è sempre rifiutato di
staccare la spina dell'apparecchio che permetteva al forte cuore dell'agente di
continuare a battere. All'ospedale civico, per rendere omaggio alla salma, si sono
recate le più alte autorità cittadine, i
più alti gradi della magistratura ed inoltre funzionari ed agenti di polizia e i
responsabili del comandi dell'Arma del carabinieri.
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