NICOLA
GIACUMBI UCCISO DALLE BRIGATE
Nicola Giacumbi sapeva di essere in pericolo. Nelle
settimane precedenti c’erano stati segnali in tal senso. Ma aveva rifiutato la
scorta: “Non voglio che per colpa mia debbano morire altre persone”, aveva
detto.
Il magistrato sammaritano Nicola Giacumbi |
Una voce
anonima chiama al telefono la redazione di “Telecolore”, una tv locale di
Salerno: “Qui Brigate rosse, colonna ‘Fabrizio Pelli’. Abbiamo ucciso il boia
fascista Giacumbi”
Tutti condannati i brigatisti
della “colonna Pelli”
A Nicola Giacumbi è intitolato un premio
istituito nel I980 dal Club Rotary Sala Consilina-Vallo di Diano, assegnato
ogni anno al figlio di un componente delle forze dell’ordine che si sia
particolarmente distinto in ambito scolastico.
“Finalmente siamo
arrivati”. Il breve tratto di strada dal
cinema fino a casa, in corso Garibaldi, Lilli lo fa commentando con
suo marito Nicola il film appena visto: Kramer contro Kramer. Di
domenica ogni tanto ci vuole anche un film per
interrompere la tensione della vita quotidiana. Sono andati a vederlo
al cinema “Capitol” di Salerno, la
città dove vivono, lasciando il figlio
Giuseppe dai genitori di Lilli. È un film che fa discutere,
perché di mezzo ci
sono le cose più care per ogni genitore: i figli. Racconta di una coppia
divorziata che finisce davanti al giudice per ottenere l’affidamento del
figlio. Un impatto traumatico per tutti, a partire dal ragazzo. Una realtà
ancora sottotraccia nel 1980 e che negli
anni a seguire, invece, riguarderà la vita coniugale di tante coppie. La
discussione tra Nicola e Lilli è appassionata. Ma stanno troppo bene insieme
per pensare che quella situazione possa un giorno
appartenergli.
“Vai a prendere tu Giuseppe, mentre io
preparo la cena?”, chiede Lilli. Pochi altri passi e Nicola Giacumbi sarebbe arrivato a casa e poi al garage per
prendere l’auto e dirigersi dai suoceri per recuperare il figlioletto. Sono
quasi le otto di sera
e piove. I due coniugi non sanno che ad aspettarli ci sono due persone, due
giovani. Uno è fermo all’angolo della strada, sulla destra del portone
d’ingresso. Un altro sulla sinistra, a una decina di metri. E mentre Nicola
gira la chiave nella toppa del portone per entrare in casa, i due si
avvicinano. Hanno il volto coperto, dalla cintola estraggono ognuno una
pistola, sono due 7,65. Fanno
fuoco su . Nicola, alle spalle. Il rumore degli spari è attutito
perché le armi hanno il silenziatore. Un colpo passa anche vicino al collo di
Lilli, che sente il sibilo ma non viene colpita per miracolo. I killer sparano quattordici colpi, tutti a segno, sul
corpo di Nicola. Si afferra a Lilli mentre cade a terra lentamente.
Allunga la
mano per prendere quella di Lilli, la trova, quasi l’accarezza, cerca di
stringerla, poi il nulla.
Il grido di dolore disperato della donna squarcia
l’aria nella piovosa serata di uno dei quartieri più centrali di Salerno.
Qualcuno che sta passando di lì sente le urla e
si accorge così di un uomo a terra e di una donna piegata su di lui. Poco
più in là si odono i passi dei giovani killer che scappano. “Aiutatemi, chiamate un’ambulanza”, grida
ancora Lilli. Nicola è a terra e non si muove più. Il sangue gli cola dal
corpo, la sua
camicia e la sua giacca ne sono intrisi. Lilli stringe a sé Nicola, ha le
mani rosse del sangue di suo marito. Cerca di bloccare il sangue che
scorre dalle ferite, Il sangue cola sull’asfalto e forma piccole chiazze
scure. Lilli continua a gridare e a stringere il corpo del suo uomo. Poi non ce
la fa più e sviene. I passanti accorrono, fermano un’auto e lo caricano su per
portarlo in ospedale a tutta velocità Nicola, intanto, si è già
spento.
Nicola Giacumbi, 52 anni, da qualche giorno aveva assunto la funzione di
procuratore della Repubblica di Salerno. La moglie, Lilli, è Carmela Di Renna, 34 anni. Giuseppe,
che ha 5 anni, è l’unico figlio. È ancora dai nonni e non sa che non
ha più un padre. Poco più tardi arriva la firma di coloro che hanno ucciso il
Procuratore. Una voce anonima chiama al telefono la redazione di “Telecolore”, una tv locale di Salerno: “Qui Brigate rosse, colonna ‘Fabrizio
Pelli’. Abbiamo ucciso il boia fascista Giacumbi” . L’ assassinio
viene rivendicato con un volantino lasciato sotto il lavandino del bagno di un
bar sul lungomare di Salerno, “Natella
& Beatrice”. Un agguato studiato lungamente e compiuto a due anni
esatti dal rapimento di Aldo Moro. Primogenito di tre figli, Nicola
Giacumbi era nato a Santa Maria Capua Vetere l’ 8 agosto del 1928 e qui aveva compiuto i suoi studi, al
liceo Principe Tommaso di Savoia. Ed è sempre qui, nel tribunale sammaritano,
che aveva cominciato la sua carriera, prima come uditore giudiziario e poi come
pretore. In seguito venne trasferito a Roma e poi a Cosenza. Anche il padre Giuseppe era stato presidente di
Sezione nel Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. La famiglia era originaria
del Cilento, ma il papà si era trasferito in provincia di Caserta proprio per
motivi di lavoro.
Nicola abitava a Salerno perché era diventato
magistrato nel tribunale della città. Lì aveva conosciuto Carmela Di Renna,
un’insegnante di lettere più giovane di diciotto anni. Si erano sposati e dal
matrimonio era nato Giuseppe. La mamma di Nicola, dopo la morte del marito,
aveva seguito il figlio a Salerno e aveva vissuto con lui fino al suo
decesso.
Nicola Giacumbi sapeva di essere in pericolo. Nelle
settimane precedenti c’erano stati segnali
in tal senso. Ma aveva rifiutato la scorta: “Non
voglio che per colpa mia debbano morire altre persone”, aveva detto. Eppure
Giacumbi stava indagando sulle Br. Aveva avocato a sé il fascicolo su un
attentato incendiario della locale filiale Fiat, dove erano state fatte
esplodere numerose autovetture con cariche di tritolo piazzate nell’autosalone.
“Mio
marito non aveva voluto la protezione - racconta Lilli Di Renna
in una delle rare occasioni in cui ha rilasciato dichiarazioni pubbliche,
raccolte da un cronista di un quotidiano di
Salerno, il 3 aprile 2003 - perché non voleva far rischiare la vita ad altre persone, com’era
accaduto in via Fani con la scorta di Moro, proprio due anni prima”.
Lilli rivela anche qualche altro particolare delle preoccupazioni
dei marito, che alcuni giorni prima dell’agguato le aveva detto: “Non ho paura di quello che potrebbe
capitare a me, Ma sono preoccupato per te e per nostro figlio”. Il cruccio
della moglie è che suo marito sia stato dimenticato, “come se fosse stato ucciso accidentalmente”. Il dito accusatore è
puntato proprio contro le istituzioni e sul palazzo di Giustizia di Salerno.
Per lei i colleghi del marito sono stati i primi a dimenticare il sacrificio di
Nicola Giacumbi. “Ho visto e sentito
spesso invece Alfredo Greco, Luciano
Santoro, i cui figli sono stati compagni di scuola di Giuseppe. E,
all’epoca dei fatti, Alfonso Lamberti,
segnato anche lui da una tragedia familiare difficilmente comprensibile”.
“Avevo cinque anni
quando ammazzarono mio padre e, ovviamente, non conoscevo neanche il
concetto di morte - Giuseppe Giacumbi, (l’unico figlio di Nicola, oggi ha 42 anni ed è
un ingegnere chimico. Va con la memoria indietro nei tempo), notai solo l’assenza di mio padre. Mi fu
spiegato in termini semplicistici che papà non c’era più fu l’unica cosa che mi
fu detta in quei momenti. Ho sempre pensato che vi sia un vantaggio a non rendersi conto di quello
che accade quando si è piccoli. Pensavo che un dolore vero e proprio lo si può
percepire solo da adulti. Negli anni mia mamma mi ha protetto, facendomi anche
da padre. Sono cresciuto, nei limiti del possibile, sereno e abbastanza
equilibrato, maturando la convinzione che gli effetti, di questo trauma da
adulto li avrei sopportati meglio o addirittura annullati. Invece col passare
del tempo mi sono reso conto che essere piccoli al momento di una tragedia può
essere anche uno svantaggio Non c’è solo lo shock del momento, ma rimane come
un’onda lunga, che si propaga in maniera meno irruente, ma persistente. E in
mia mamma poi la sofferenza non sì affievoliva mai. Vederla dopo anni e anni
soffrire ancora in qualsiasi manifestazione in ricordo di mio padre, era come
un’onda che si rifletteva e si specchiava. Tutto questo generava nuovo
dolore”
E chiarisce “Mi sono reso conto di
aver fatto un errore di valutazione da ragazzino, perché pensavo che il dolore
si esaurisse o si stabilizzasse e che sarei arrivato a un punto in cui avrei
potuto vivere una vita simile a quella delle persone che non hanno subìto
questo trauma. Invece poi crescendo mi sono reso conto che diventava sempre
peggio. Ho dovuto essere pronto a una seconda accettazione dell’uccisione di
mio padre Mi sono reso conto che avrei dovuto convivere a lungo con gli effetti
della tragedia che ha colpito la mia famiglia” “Per fortuna - conclude Giuseppe,
stavolta sorridendo – la vita non e
solo dolore un mese dopo la morte di mia madre è nato mio figlio Nicola. Ora mi
auguro solo che almeno lui possa finalmente vivere sereno”.
Otto brigatisti vengono accusati dell’omicidio
del magistrato sammaritano: Vincenzo De
Stefano, Raffaele Fenio, Immacolata Gargiulo, Arturo Ardia, Michele Mauro,
Ernesto Massimo, Carlo Aquila e Antonio
Villani.
Al processo diranno che
Giacumbi era stato ucciso per vendicare la morte di Valerio Verbano, militante della sinistra extraparlamentare,
ammazzato a Roma il 22 febbraio I980, da militanti di gruppi armati
della destra eversiva. “Giacumbi era anche lui un fascista”, questa la loro giustificazione.
L'Avv. Senatore Francesco Lugnano |
Quattro si pentiranno quasi
subito, mentre gli altri si dissoceranno dalla
lotta armata. Avranno tutti uno sconto della pena. A Nicola Giacumbi è intitolato
un premio istituito nel I980 dal Club Rotary Sala Consilina-Vallo di Diano,
assegnato ogni anno al figlio di un componente delle forze dell’ordine che si
sia particolarmente distinto in ambito scolastico.
Nel 1982 a Giacumbi è intitolata anche l’aula della biblioteca della Procura della
Repubblica, nel vecchio Palazzo di Giustizia di Sala Consilina. Lilli Di Renna è deceduta il 7 settembre 2011, all’età di 64
anni, per un tumore ai polmoni. Una morte che ha segnato nuovamente la
vita di Giuseppe. Ma lui preferisce non parlarne. Anche della tragedia del
padre vuole concedere solo la parte pubblica: “Non abbiamo mai voluto polemizzare cmi nessuno e abbiamo cercato
di evitare i mass media -
Giuseppe lo dice con i convinzione - Quello che è accaduto, per quel che
concerne la parte pubblica, riguarda le istituzioni, perché papà era un
uomo delle istituzioni. Sono loro che devono pensare a ricordarlo.
La vita privata invece - insiste Giuseppe - è tale, e vorrei
evitare i commenti in merito. Era la linea di condotta di mia
madre e io la condivido pienamente. Questa sofferenza appartiene
solo a noi”.
1982: Le Br assaltarono la caserma Pica a Santa Maria Capua Vetere
Furono sottratti due bazooka 88, due mortai da 6o,
quattro MG mitragliatori, due fucili
mitragliatori, diciannove fucili automatici cal. 7,62 NATO, una pistola Beretta
cal. 7,65, diciotto fucili Garand,
ciascuno con due caricatori completi di munizioni).
Secondo il rapporto del 22 febbraio 1982, inviato dai carabinieri al Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, il giorno 9 febbraio, ai carabinieri arrivati
sul posto, i militari di pattuglia e le sentinelle diedero false testimonianze
sui fatti accaduti quella notte; mentre
successivamente il comandante della guardia, caporalmaggiore Silvio Bertolino sottoposto a interrogatorio,
confessò: “Raggiunta la stanza che
conteneva le armi, uno con un palo di ferro spaccò lucchetti e porta ed entrati
si impossessarono di bazooka, mortai, mitragliatori e tante altre armi. Poi in
tutta fretta caricarono l’auto parcheggiata nel cortile della caserma che,
seguita da una Fiat 5oo, si dileguò nel d buio. Era quasi l’alba!”.
Fu accertato successivamente
che dal deposito della caserma erano stati sottratti due bazooka 88, due mortai
da 6o, quattro MG mitragliatori, due fucili mitragliatori, diciannove fucili
automatici cal. 7,62 NATO, una pistola Beretta cal. 7,65, diciotto fucili Garand, ciascuno con due
caricatori completi di munizioni). Il giorno dopo, una telefonata all’agenzia Ansa di Genova segnalò la presenza di un comunicato con una
fotografia Polaroid della armi rubate. Quella notte erano presenti 18 militari.
Uno era addetto alla sorveglianza armata, gli altri dormivano. La
sentinella fu disarmata e immobilizzata,
gli altri - sorpresi nel sonno – furono legati e imbavagliati. Durante l’assalto i
terroristi hanno dichiarato di appartenere alle “Brigate rosse”.
“Hanno affrontato quattordici uomini con
metodo militare”, osservò il sergente maggiore al sostituto procuratore Ettore Maresca del Tribunale di S.
Maria C.V., che per primo lo aveva interrogato. Per piombare nell’edificio, i terroristi
avevano scelto la masseria di Luigi Ventriglia, al numero 259 del
corso Aldo Moro poco distante dal carcere. “Ecco
la strada scelta”, disse il sammaritano Ventriglia precipitandosi, nella caserma dei
carabinieri. “Avevo la scala distesa sotto
il pergolato - raccontò- l’ho ritrovata appoggiata al muro di
confine”. L’Ansa aggiornò la notizia con un altro lancio che parlava
addirittura di arresto di tutti i
militari presenti nella caserma Pica: “Fermati
i 18 militari di guardia alla caserma assaltata dalle Br. L’accusa è di
“violata consegna”: avrebbero allentato la sorveglianza alla caserma assaltata
dalle Br. Si conoscono i nomi di quattro dei sei terroristi del commando: Sono
Mauro Acanfora, Vittorio Bolognesi,
Antonio Chiocchi e Crescenzo Dell’Aquila.
Dal primi risultati delle indagini -
coordinate dal sostituto procuratore Ettore
Maresca, tra i brigatisti che
avrebbero partecipato all’azione di guerriglia, ci sarebbe stato il prof. Mauro Acanfora, 32 anni, un
organizzatore delle Br nel Sud
comparso nell’inchiesta sul sequestro dell’assessore democristiano Ciro Cirillo. Gli altri due individuati, attraverso gli
identikit - il commando ha agito a volto
scoperto -. sarebbero Antonio Chiocchi e Crescenzo Dell’Aquila, giovani
studenti casertani che avevano aderito a
Prima linea e successivamente erano passati nelle file delle bierre. Sei giorni
dopo la rapina delle armi – venne scoperto un covo di terroristi dai
carabinieri a Cosenza. Tre persone che si trovavano all’interno furono
arrestate: Gennaro Cesario,
di 20 anni, nato a New York, ma residente a Caserta, Crescenzo Dell’Aquila, di 21 anni, studente universitario in
economia e commercio, di Caserta, e Silvio Stasiano, di 22 anni, studente in
ragioneria, di Napoli. Il processo di
primo grado alla colonna napoletana
delle Brigate Rosse, iniziò con le indagini istruttorie sul sequestro Cirillo e
sui connessi duplice omicidi. Fu incrementato quando ad esso furono riuniti gli
atti relativi all’aggressione subita dai
soldati del corpo di guardia della caserma dell’esercito A. Pica di S. Maria
Capua Vetere. Nel processo fu coinvolto il professore casertano Ferdinando Iannetti, difeso dal Sen.
Avv. Francesco Lugnano, del Foro di S. Maria C.V., (insegnava filosofia all’Università di Salerno ) ma poi
fu assolto. L’istruttoria fu portata avanti del giudice Carlo Alemi (casertano). Condannato un favoreggiatore per il covo
di Castelvolturno. La Corte condannò all’ergastolo dodici brigatisti e inflisse pesantissime condanne ( da 5 a 16
anni) per tutti gli altri.
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