Marcianise Estate 1938: l’atroce delitto –
GIUGNO 1942: il
clamoroso processo
Otto anni di reclusione per la figlia Maria, che
poco dopo la sentenza si uccise gettandosi dalle scale della prigione.
Una ragazza di 18 anni bruciata nel suo destino da una
nonna “megera” ed un padre assassino.
Nella ricostruzione di questi cruenti fatti - specialmente di quelli molto vecchi - come questo, per esempio, del 1938, che vado pubblicando e che continuo nella mia ricerca archeologica della cronaca nera, ricostruisco gli eventi per la massima parte con i giornali dell’epoca. Le mie fonti sono – in primo luogo l’Emeroteca del Museo Campano, poi per i casi più complicati l’Emeroteca Tucci di Napoli e molto ho anche attinto dall’archivio Storico di Caserta. - Altre volte, invece, come in questo caso, usufruisco dei libri delle arringhe dei vecchi avvocati che riportano la cronaca. Quindi questa di oggi è una lezione di eloquenza e di dialettica per i giovani avvocati penalisti.
“Questa
di cui oggi discutiamo è la cronaca, per chiunque, di tragedia vera,
incomparabile. Tragedia anche per la semplicità e la certezza delle sue linee, che
fanno del volume degli atti un ingombro, perché a narrarla basta la denunzia
brevissima, e non v’è un particolare
solo che richieda un accertamento, perché il fatto è lì, semplice e immenso, ad
orli lineari e paurosi, senza rivestimento di circostanze che li adombri o li
ammorbidisca. Un delitto che non esige indagini ed al quale una istruttoria è
stata superflua; ma due protagonisti, a leggere nella cui mente l’intuizione e
la sapienza umane non possono presumere di bastare. Non ha esitato la Corte Suprema, a proclamare che l’ergastolo inflitto dalle
Assisi di Santa Maria a Giuseppe Conte, non apparirà giustificato se non intervenga
una valutazione profonda della sua personalità, e che all’esame del perito non basta a chiudere il varco la
mancanza di precedenti personali morbosi, poiché è il fatto stesso - è questa
l’essenza del pronunciato di annullamento - a porre il problema se siamo qui,
entro o fuori le frontiere del normale, entro o fuori potrebbe dirsi le frontiere dell’umanità”.
“Il Procurator Generale ha difeso
l’ergastolo ( l’imputato fu condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di
Santa Maria C.V. nel primo giudizio e confermato in Appello a Napoli ) ed
espresso il voto che non ne siano allentate le sbarre. La Cassazione avrebbe
scambiato, tratta in inganno dalla magìa di alcuni concetti astratti, il
morboso con l’efferato; il perito, pur limitandosi al vizio parziale di mente,
la degenerazione morale con la menomazione psichica. Lasciatemi rilevare che, disse
l’Avv. Alfredo De Marsico, nel corso della sua arringa nel quarto giudizio di Appello, qualunque sarà la vostra decisione - noi stiamo celebrando un processo che ha
finito di essere repugnante ed orrendo, in cui la catarsi del colpevole è già
avvenuta nella morte della sua sostanza umana, che colpirà col suo epilogo non
un uomo ma il bruto avanzo vegetativo di un uomo che si è già spento”.
“Io lo osservo da ieri, e voi non lo avete
osservato meno intensamente di me. Egli non è solo lontano da noi, ma assente: nulla
potrebbe ravvicinarcelo. Non è impassibile, ma immoto e insensibile, e niente
riesce a scuoterlo od interessarlo. Ha
udito la vostra relazione, Presidente e voi siete di quei magistrati che nella
austerità nuda della esposizione sanno raggiungere il massimo rilievo, ha udito
deporre quel vecchio che, fra la tomba che chiude la moglie e il carcere perenne
che chiude il figlio, ha compreso come il solo fragile filo che ancora può
unirlo alla vita viene dal carcere non dalla tomba, e ha mentito per porgergli
un aiuto; ha udito la requisitoria implacabile, e non ha mosso ciglio nè costa,
non ha di un battito spostato il suo sguardo dal suolo che lo inchioda, non ha
di un pollice spostato il suo corpo sulla scranna. È lecito perciò domandarci:
vede ancora quest’uomo? circola ancora il sangue nelle sue vene? sanno ancora
la stanchezza o l’impazienza i suoi arti e i suoi tendini? No, egli respira ma
non ode, la follia ha chiuso il suo ciclo, la devastazione si è compiuta; il
tempo lo porta come l’onda una foglia morta, senza ch’egli si avveda del suo
fluire, senza ch’egli si avveda fra quali sponde esso scorra”.
“Noi discutiamo di un quesito che
appartiene al passato se Giuseppe Conte,
al momento, del delitto, nell’estate del 1938, era imputabile o meno quando di
Giuseppe Conte non resta che la maschera fisica, l’involucro mortale e morente.
Ma la legge è anche un canone; un imperativo alla cui affermazione non occorre
un uomo, potendo, come ora, bastare un fatto che ne solleciti il ricordo e il
ripristino. Se dell’uomo trova la scoria biologica, non esige di più: perché la
parabola lungo la quale la sua sovranità ascende e sfolgora non devii troppo,
consiglierà come qui di procedere almeno a un giudizio retrospettivo di
stabilire se il crollo di oggi non autorizzi a ritenere che ieri, nell’ora del
delitto, vi fosse già un crepaccio, se l’uomo sia cominciato a cader dopo o non
fosse cominciato a cadere fin d’allora”.
“Il perito di ufficio esclude la
simulazione e dalla gravità delle convergenti anomalie di oggi deriva la opinione
convinta di una diminuzione della
capacità in atto nel momento del delitto. Il consulente tecnico fruga i
vari settori della personalità, sensi intelletto sentimento, e sale dalla
opinione alla certezza, spinge la minorazione della personalità verso
l’abolizione, l’anomalia verso l’annientamento. Ora, ad escludere l’inganno, un
elemento già soccorre: la simulazione è statica, non progressiva. Sceglie il
suo schema e vi si fissa: mutando, temerebbe essere scoperta; incalzando,
sarebbe sicura di tradirsi.
“Tecnici e giudici si ostinano a vedere
due questioni da risolvere: se Conte sia un pazzo o un semipazzo oggi; se vi
siano ragioni per far risalire a quattro anni fa una diagnosi di attuale infermità.
Io ne vedo una terza, la più ardua, la più ampia, e la più attraente e
conclusiva e degna della solennità di questa sede: se la ricerca dell’epilessia sia
da circoscriversi all’imputato o per meglio e sinceramente accertarla in
questo, non debba essere cercata nell’uccisa e nella figlia - condannata e poi suicida dell’imputato, negli
artefici e nella vittima insieme del delitto, in tutti i rami del fusto
familiare. E’ questo il campo delle investigazioni che ai periti non è neppur
trapelato, mentre esso offre il carattere tipico e - assai più del fatto
materiale il carattere tragico del crimine incomparabile”.
“Andremo per ordine e vedremo che, si
studi Conte nel passato o nell’attualità, come marito come padre o come figlio,
nella condotta o nel pensiero, lo sbocco è uno e fatale. Qui non è soltanto la
epilessia nel delitto, ma la epilessia che, allacciando nelle sue spire tutti i
virgulti del ceppo gentilizio, prepara il terreno, l’occasione, l’atto:
insomma, il delitto dell’epilessia, e poiché epilessia, nel grado che vedremo,
e delitto sono termini in contrasto, la tragedia dell’epilessia. Ma
un’osservazione urge per dissipare molti equivoci. È stata messa in dubbio o
negata l’epilessia perché sono stati messi in dubbio o negati gli attacchi
convulsivi. Due soli - il simulatore! - ne avrebbe sofferti, uno in carcere, l’altro
in manicomio, entrambi dopo la condanna. I sanitari li definiscono epilettici,
sulla base dei sintomi pazientemente investigati: l’illustre accusatore non lo
esclude ma non lo ammette, perché la garanzia della constatazione immediata
sarebbe mancata. Infranta o scalfita la
base, l’edificio si sfascerebbe: tolti gli attacchi, tolta l’epilessia. Si aggiunge che dell’epilessia manca un altro
segno distintivo: l’amnesia, perché invece Conte ricordò ciò che fece e lo
riferì nei suoi interrogatori, e solo oggi mostra aver dimenticato. Su questi binari, si sarebbe ancora
all’epilessia come convulsione ed amnesia. E la scienza ha percorso un lungo,
immenso cammino. Tanto che, al suo termine, si domanda se l’epilessia debba
rimanere come definizione a sè stante di una forma particolare e ben accertata di malattia mentale o non sia destinata
a sparire”.
“Ecco la parabola miseranda del carattere
della mente dell’animo di Conte: ancora violento nel settembre di quattro anni
fa, preda di una involuzione malinconica
nel periodo di detenzione preventiva, decisamente inconsapevole ed incapace di
percepire la realtà circostante dopo la condanna, cerebralmente inerte, psichicamente
assente oggi, già ghermito forse dall’agonia anche della vita. Egli è lì, da
ore, al letto della figliuola che contende con la morte. Il pensiero della
paglia da collocare lo assale. Il rifiuto della madre lo ottenebra. Si arma,
scende, ferisce. Il Procuratore Generale osserva: è odio, non raptus. Quest’uomo è capace di orientarsi, distribuire
il suo sentimento fra odi ed affetti: normalmente ama ed assiste la figliuola
inferma, odia la madre: il male ch’egli opera sale dalle stesse radici normali
- del bene di cui egli è capace. Illusione, non argomento”.
il prof. Avv. Alfredo de Marsico |
“Maria, autrice di strage, nell’età in cui
non dovrebbe che aspirare l’amore, ispirare la dolcezza, non è, in questo
istante, una creatura avente una sua volontà ed una sua anima, impulsi di
decisione propri ed una propria vita: è
un altro arto del corpo paterno che vive fuori di quel corpo ma è mosso dai
medesimi impulsi, sicché ne divide e ne continua i movimenti e gli atti vorrei
dire, gli spasimi. La irrazionalità, la cecità infernale del delitto di Maria è la prova della follia paterna, della
follia materna. Ella è il gradino più alto, cui si giunge per altri,
inferiori. Decisiva, per la rivelazione
del crollo dell’intero ceppo, è Maria: in lei la follia dà al ceppo il colpo
che lo abbatte, e la data di quel colpo non è il giorno in cui ella si copre di
sangue, ma quello in cui nel grembo di sua madre l’amore ne segnò lo sboccio e
le linfe ataviche fissarono il destino. I suoi diciotto anni sono serviti al
male per rivelare in lei subitamente, nel padre disgregandone l’edificio
mentale pietra per pietra - la immensità della distruzione avvenuta, ma in
quell’attimo, l’attimo del concepimento, il piccone invisibile aveva già
squarciato la ragione del padre se disfece il germe che egli accendeva alla
vita. Spezzate questo vincolo di filiazione, date una causa al delitto di
Maria, e negheremo la follia del padre. Ma se non lo potremo, ci fermeremo a
stupire ed a compiangere, poi se dovremo – condannare”.
“Maria, riguadagnato dopo l’arresto il
chiarore della coscienza, scrisse le lettere pietose in cui si gridò unica
colpevole dell’assassinio. In lei furono egualmente impeccabili, dopo la crisi,
la coscienza morale e il giudizio. Non colpevole era ai suoi occhi il padre,
vittima e tramite della bufera: colpevole lei, che non ne aveva arrestato il
braccio e ne aveva accettato l’ordine e l’arma. Il padre si è andato a poco a
poco estinguendo, pure negli ultimi fievoli guizzi della vita mentale e psichica,
fino a diventare qual’é, ligneo come lo scanno su cui siede. Dopo la condanna,
Maria, fra la coscienza che soffre e le resistenze che occorrerebbero a godere la bellezza dell’espiazione ma le
mancano, si uccide gittandosi dalle scale
del carcere. Il padre non vive da un pezzo ma respira ancora quanto basti
ad essere trascinato per le vie del mondo che non vede, segnacolo di una legge
che non comprende più”.
“È vero, è eternamente vero, che dove
una madre è trucidata, si fanno il vuoto e la morte, non per un’ora ma per
sempre. La madre scomparsa nel sangue, il figlio nella follia, Maria nel
suicidio. E nel quadro della natura che urla squarcia e
risana, anche la più alta delle voci umane, quella dei giudici, non può essere
che mite”. E mite fu. L’ergastolo venne cancellato. La pena ridotta a 21 anni
di carcere.
2
La Corte d’Assise di S. Maria Capua
Vetere condannò il matricida all’ergastolo e a 8 anni di reclusione la figlia Maria. In appello De Marsico fece ridurre la pena a
21 anni.
Il fatto, paurosissimo,
accadde in una masseria in agro di Marcianise nella primavera del 1938.
Una madre ha vissuto per anni irritando con la sua stessa irascibilità il
figlio; questo giunge a cinquant’anni, saturo della convinzione di esserne odiato, e un giorno, avuto dalla madre il
rifiuto di far collocare sotto un arco del suo cortile un mucchio di paglia,
lascia d’improvviso il capezzale di una figlia che si dibatte fra i pericoli
della polmonite, scende nel cortile, vibra due colpi d’una pesante affilata
mannaia nella nuca della vecchia, chiama la figlia Maria, le consegna l’arma, e le grida il truce comando: “Finisci di ucciderla tu” , assiste
all’eccidio che la diciottenne consuma con altri tre colpi che maciullano il
cranio dell’ava; cade in ginocchio sul cadavere; di lì ad alcuni istanti si
rialza, e consigliato da qualche astante fugge con la sanguinaria alleata,
mentre suo padre, che alle prime grida si è affacciato ed ha visto, lo insegue
con la parola che maledice ed accusa: ”assassino”…
Queste – nella ricostruzione
dei fatti - le parole che echeggiarono
nell’aula della Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere in quel giugno del 1942, quattro anni dopo il tremendo
delitto. Basta la narrazione di questo
delitto per comunicare il brivido più raccapricciante nell’animo di chi
legge! La Corte d’Assise di S. Maria
Capua Vetere condannò il matricida all’ergastolo e a i 8 anni di reclusione la
figlia Maria, che poco dopo la sentenza si uccise gettandosi dalle scale della
prigione. Un dramma nella tragedia. Una ragazza di 18 anni bruciata nel suo destino
da una nonna “megera” ed un padre assassino.
Ma vediamo l’evolversi,
attraverso i processi, della truce
storia. Dopo la prima e seconda condanna con la conferma dell’ergastolo,
in seguito all’accoglimento del ricorso
per Cassazione, il processo fu rinviato alla
Prima Sezione della Corte d’Assise di Napoli, Presieduta dal
magistrato Nicola Cedrangolo, pubblico
ministero Vincenzo Prisco, la quale, dopo aver sottoposto, nel frattempo,
a diverse perizie psichiatriche l’imputato, al termine del processo, con la valida difesa
del Prof. Avv. Alfredo De Marsico, e
dell’Avv. Vittorio Verzillo, con la concessione del “vizio
parziale di mente” condannò il
matricida Giuseppe Conte, da
Marcianise a ventun anni di reclusione.
“Può essere ritenuto seminfermo di mente un matricida?”
La domanda se la pose l’Avv. Raffaele Russo, direttore della rivista
giuridica “L’Eloquenza” che riportò i termini dell’ibrido matricida. “La
legge risponde di sì, e sì risponde anche la scienza; ma l’animo degli uomini,
di tutti i figli che vivono nel mondo, conclama che il matricida è il criminale
più feroce oppure il malato più compassionevole.
Il delitto era feroce,
terribile, perché toccava la corda più
sensibile dell’animo: la santità del sentimento filiale negli uomini. Occorreva
che la sentenza avesse quietato, cancellato l’allarme prodotto dal gesto
esecrando del matricida. Dimostrare, insomma, che Giuseppe Conte era un temibile criminale; oppure dimostrare che Giuseppe Conte era la vittima
incolpevole di una devastatrice infermità mentale. Vi era la perizia d’ufficio
che aveva concluso per il vizio parziale? Comunque, in contrasto con la perizia
d’ufficio vi era quella del consulente tecnico che aveva concluso per la totale
infermità. Due consigli dunque che escludevano la piena capacità d’intendere e di
volere dell’imputato.
Nella decisione della Corte di
Cassazione, vi è il segno deciso di quella logica che, resistendo alle
suggestioni delle precedenti sentenze, respinge ogni possibilità di soluzione
intermedia per un simile delitto e con
vigore afferma la piena responsabilità del matricida.
Certo
è però che il delitto in se stesso è un
inoppugnabile documento rivelatore di uno stato mentale abnorme. Conte inizia
la strage della madre, ma non la esaurisce. Perchè? È già stanco per
l’accensione del furore che ha folgorato
ed in un istante, consunto tutte le
forze della sua carne e del suo spirito? Se così non fosse, per quale ragione
egli avrebbe dato alla figlia il terribile comando: ”Finisci di ucciderla tu” e che cosa rappresenterebbe questa delega
di esecuzione?
E ancora, v’è la cieca e fulminea adesione
della figlia a completare la strage.
Come spiegarla se nel gesto della giovane che prende la mannaia
insanguinata dalle mani del padre e reitera i colpi sulla nuca della nonna non
si riconosce il segno della devastazione psichica e morale causata dall’insidia
di un male che covava nel midollo del ceppo gentilizio e che si era propagato
in tutti i suoi virgulti? La più logica
risposta è il suo drammatico suicidio
quando si buttò dal 4° piano del carcere di Pozzuoli.
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