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domenica 1 febbraio 2015

Accadde il  4 marzo del 1953  nella tenuta “Bartolotto” in agro di Castel Volturno


IL MARCHESE LUCIANO CHIANESE UCCISE I DUE FIGLI DEL SUO FATTORE

Pretendeva piantare un frutteto – Spalleggiato dai suoi  dipendenti assassinò  Salvatore e Giovannina Belardo . Una latitanza di anni coperta da una omertà a dai suoi soldi.  Una famiglia di contadini che In quella terra oltre a versare il suo sudore ha versato anche il sangue.


L’ANTEFATTO

Il 4 marzo del 1953, metà della famiglia Vincenzo Belardo ( i figli Salvatore e Giovannina )  cadeva tragicamente sotto i colpi di pistola di Luciano Chianese e Antonio De Rosa. Quale il motivo di questa strage? Sembra impossibile, ma la cruda realtà ci dimostra che il delitto fu  la reazione inumana alla giusta opposizione alla consumazione di un sopruso. Il delitto, perciò, nella sua essenza, oltre che per le conseguenze, è di una gravità eccezionale. Quella dozzina di colpi di pistola che stroncarono  due giovani vite è la esplosione più tipica della prepotenza.
I precedenti remoti e quelli immediati ci mostrano gli uomini con i loro veri volti  e illuminano il delitto. Vincenzo Belardo, lavoratore della terra, nel 1947 dal suo paese Giugliano in Campania,  si trasferì con tutta la famiglia nella desolata terra della tenuta “Bartolotto” in agro di Castel Volturno. Con un contratto di mezzadria ampiò il podere di proprietà di Luciano Chianese (il marchese apparteneva ad una nobile e ricca famiglia di Villaricca) e con  il lavoro delle sue braccia,  e di quelle della famiglia,   iniziò un lavoro improbo: il dissodamento di una terra incolta e molte volte ingenerosa. Gli anni passarono e la famiglia Belardo continuò il suo  duro lavoro con piena soddisfazione del Chianese. Fino ad allora, cioè dal 1947 al 1953, nessuno screzio era avvenuto tra il proprietario ed il mezzadro.
Dopo sei anni di massacrante lavoro, quando la terra era stata portata, a costo di enormi sacrifici, ad un discreto stato di coltivazione, tanto da potervi piantare un frutteto, i Belardo si accorsero che Chianese voleva scalzarli da quella terra.  Evidentemente Chianese riteneva esaurito il loro compito e tentava per vie traverse di allontanarli. Infatti, il proprietario sapendo di non poter battere la via maestra dello sfratto, sia per ragioni giuridiche  che per evidenti motivi di convenienza iniziò una manovra subdola.    Nel 1952, infatti, si fece cedere dal Belardo parte del terreno da questi condotto per piantarvi un frutteto, rendendogliene una equivalente estensione in altro posto. La ragione di  questa scelta è evidente: la terra di Belardo era stimata la migliore tanto da poter piantare una cultura pregiata come il frutteto. E’ questa la riprova del duro lavoro fatto in quegli anni dalla famiglia Belardo. Pur risolvendosi questa permuta ai danni dei Belardo, tuttavia questi ammettevano pur di non dispiacere il Chianese. L’anno seguente ciascuno ritornò al suo posto essendo il frutteto in gran parte fallito, però si convenne che il Chianese sarebbe rimasto proprietario delle piante superstiti (e qui è evidente il fraudolento mutamento da parte del Chianese del contratto di mezzadria) con l’obbligo, però, di non sostituire le piante morte. In sostanza il Belardo dopo un anno riaveva il suo fondo menomato dal fatto che in esso vi erano delle piante da frutta di cui egli non aveva diritto. Tuttavia, accettò la menomazione e continuò la lavorazione della terra.  

E’ opportuno ricordare ciò che i carabinieri scrivono nel loro rapporto a tal proposito: “Risulta allo scrivente che Chianese è persona facoltosa mentre i Belardo sono contadini i quali con sforzi sovrumani – perché hanno sempre lavorato come bestie – sono riusciti a trasformare il fondo e renderlo sempre più fertile e redditizio e procurandosi un discreto benessere in famiglia. Quanto ha dichiarato Vincenzo Belardo – scrivono ancora i carabinieri nella loro informativa – circa il terreno tenuto a mezzadria e le condizioni man mano imposte dal padrone è stato confermato da molti contadini del vicinato”. 
Chianese, dunque, menò piede nel terreno dei Belardo piantandovi un frutteto  rimasto di sua  esclusiva pertinenza, riavuto il terreno che aveva dato in permuta al Belardo tentò il colpo mancino. Nel marzo – ormai a coltivazione avanzata -  si presentò nel fondo e pretese, in dispregio a quanto era stato precedentemente convenuto,   di sostituire le piante morte. Ciò significava la estromissione completa del Belardo dal fondo perciò, giustamente costui si oppose alla illegittima e fraudolenta pretesa  del Chianese. L’opposizione dei Belardo creò il putiferio nell’entourage del marchese. Essa non venne neppure discussa si ricorse ai carabinieri. Il proposito del Chianese era di far intervenire i carabinieri, per timore dei quali i Belardo avrebbero cambiato opinione. Ma i carabinieri si dichiararono incompetenti e non si mossero. Chiesero se vi fossero state minacce da parte dei Belardo ma la risposta fu negativa. Allora  i carabinieri, proprio per non farli andare via a mani vuote,  promisero un intervento conciliativo per il giorno seguente. Chianese e De Rosa restarono delusi, i Belardo si erano opposti, i carabinieri non ne avevano voluto sapere e allora? Allora tirando le somme  non restava che  la brutta figura  che avevano fatto di fronte a se stessi, ai Belardo e agli operai  che avevano portato da Villaricca.    


IL DELITTO 
Qui conviene sorprendere gli imputati nei loro atteggiamenti per poter spiegare in ogni aspetto il rapido e sommario svolgimento del delitto. Fu nella caserma dei carabinieri che il delitto sorse irrevocabile nella mente degli imputati.  Chianese non poteva rassegnarsi al naufragio della sua pretesa, perché egli – come dirà qualche istante prima  della consumazione del delitto – in quelle terre la legge la fa lui -. Infatti, quando il brigadiere dei carabinieri aveva già scritto i biglietti di invito per i Belardo per l’indomani, quando sembrava che la questione dovesse decidersi sul piano della  discussione, sia pure con  l’intervento amichevole dei carabinieri, il marchese Luciano Chianese, nell’andar via dalla caserma chiese al piantone Enrico Bonavita: “E se quelli ( i Belardo) ci minacciano dobbiamo sparare?”.  
Che significa questo linguaggio? Se si era rimasti d’accordo che  se ne sarebbe parlato l’indomani, com’è che il Chianese ne  prospettò l’eventualità di essere minacciato? Se l’impegno preso era quello di non andare, per quel giorno, dai Belardo, dove la possibilità di ricevere minacce ad opera di questi? La verità è che Chianese e De Rosa si infischiarono della mediazione offerta dai carabinieri  e mentre questi tentavano di esperire una conciliazione, essi già andavano con la loro mente al sopruso e alla violenza. Questo è l’esempio tipico della rappresentazione dell’evento, anche se la sua gravità e intimità dipendono dalle circostanze contingenti.
Nell’infausta giornata del 4 marzo  Luciano Chianese e Antonio De Rosa (spalleggiati da Vincenzo De Rosa e Pietro Papa, armati di tutto punto) si recarono due  volte presso i Belardo: una prima volta al mattino ed una seconda al pomeriggio e fu in questa ultima occasione che avvenne il delitto. Ma quale la differenza dalla prima alla seconda gità del Chianese?  In mattinata andò in compagnia del sola De Rosa a chiedere di poter eseguire la sostituzione delle piante. In quel momento l’idea del delitto ancora non vi era e Chianese sapeva che doveva chiedere il consenso del mezzadro. Nel pomeriggio la situazione mutò. Chianese e De Rosa capeggiarono una vera e propria spedizione punitiva, così come esattamente la definisce la requisitoria del pubblico ministero. Eloquentissima la scorta armata di Pietro Papa e Vincenzo De Rosa! Ma perché De Rosa e Chianese decisero di andare nuovamente dai Belardo? Non certo per chiarire perchè Belardo la mattina era stato esplicito: “Solo se la legge ve lo consento vi farò mettere le piante”, tanto è vero che Chianese ricorse ai carabinieri. Non fu neppure per tentare un bonario componimento, perché tale tentativo era stato rinviato all’indomani.  
Chianese e De Rosa andarono dai Belardo decisi a seminare le piante – anche con la violenza. La presenza degli operai con i fasci di piante  indica la irreversibilità della decisione presa, mentre la scorta armata prova chiaramente di quali mezzi essi intendevano avvalersi per tradurla in atto.  Irreversibilità che balza evidente dalle prime parole che il Chianese pronunziò allorché ebbe al suo cospetto il Belardo. Questi infatti disse: “Giunti al cospetto il mio padrone disse: “ Belardo io debbo mettere le piante”. Io risposi: “ Vuie i piante non e mittite; vediamo quello che fa la legge”. Lui rispose: “Che legge e cazzo la legge la faccio io”. E rivolgendosi agli operai diede ordine di piantare le pesche”.
Lo stesso dialogo viene riferito da altra fonte attendibilissima dall’imputato Papa. “Il Chianese rivolgendosi a Vincenzo Belardo disse: “ Belardo io debbo mettere le piante e Belardo rispose: “ Vedete se la legge dice che Le dovete mettere e le mettete”. Il Chianese rispose: “ Mettete le piante la legge la faccio io”. E così dicendo,  sia il fattore che il mio padrone,  tirarono fuori le pistole e cominciarono a sparare”.
Il tentativo della difesa di dare una versione diversa è  miseramente naufragato. I testi edotti – oltre che essere in evidenti contraddizioni – tra di loro – cozzano contro le dichiarazioni di Pietro Papa e di  Maria De Rasmi. In sostanza la difesa vorrebbe accreditare che il primo a cadere fu Salvatore Belardo, ucciso da Antonio De Rosa mentre tentava di entrare in casa per armarsi e che la Giovannina Belardo, fu uccisa per errore e fu accidentalità nel tentativo da lui fatto di disarmare il Chianese.
Versione destituita da qualsiasi fondamento. Perché Vincenzo Belardo, Maria De Rasmi, e lo stesso Pietro Papa,  concordemente asseriscono,  che la prima a cadere sotto i colpi fu la Giovannina Belardo. Infatti, il Salvatore Belardo, vista la sorella cadere tentò di guadagnare la porta, ma fu inchiodato sulla soglia di essa, da ben 9 colpi di pistola,  di cui tre  lo  attinsero e gli altri si conficcarono nella porta.  Dall’autopsia del cadavere di Salvatore Belardo si rileva altresì che egli fu colpito prima ancora che tentasse di guadagnare la porta. Infatti uno dei colpi lo attinse mentre si trovava in posizione frontale al suo aggressore. Il numero di colpi esplosi – non meno di undici – ( sei sulla porta, tre sul cadavere di Salvatore Belardo, e uno su quello di Giovannina,  e uno alla gamba del Vincenzo Belardo), dimostrano che il De Rosa e il Chianese scaricarono quasi del tutto le loro pistole. Se non ci fu un terzo cadavere, lo si deve sola alla forza della disperazione che spinse Vincenzo Belardo ad afferrare la pistola del Chianese, tanto che se ne venne in mano un pezzo dell’arma rendendola così inutilizzabile.



 Il processo

Dopo ben 4 processi il marchese  venne condannato a 13 anni di reclusione. Diciassette per il suo complice. I Belardo vennero risarciti con 100 milioni.

Luciano Chianese, Antonio De Rosa, Pietro Papa e Vincenzo De Rosa,  tratti a giudizio per duplice omicidio,  innanzi la Corte di Assise di S. Maria C .V., presieduta da Giovanni Morfino, con l’esclusione  di Pietro Papa e Vincenzo De Rosa, (presenti al delitto ma che non vi presero parte) la Corte condannò il marchese Luciano Chianese ( con le attenuanti generiche e quelle del risarcimento del danno – i Belardo incassarono circa  100 milioni delle vecchie lire ) a 13 anni di reclusione ed a 17 anni il De Rosa. Nel processo furono impegnati per la Parte civile: Avv. Giuseppe Garofalo e Giovanni Porzio, per Belardo Vincenzo e D’Angelo Giuseppina. E per gli  imputati gli Avv.ti Luigi Palumbo, Ciro Maffuccini, Alfredo De Marsico,  Alberto Martucci, Pasquale Fortini, Orazio Cicatelli Carlo Savelli,  Velia Di Pippo, Giovanni Leone, Francesco Lugnano.
 L’avv. Porzio instaurò nella mente dei giudici il dubbio che il Chianse,  con le sue larghe disponibilità,  avesse potuto comprare giudici e giurati…”il denaro, il denaro…” Dal canto suo Giuseppe Garofalo,  tentò di parare il colpo,  fornendo una versione dei fatti più aderente alla realtà. “L’aggressione – disse tra l’altro  -  fu di una rapidità sconcertante  e ben riuscita, perché frutto di una ferma decisione. Dove sono le minacce ai danni di Chianese e De Rosa che la difesa   vorrebbe sostenere? Innanzitutto non ne parla nessuno, allinfuori di quei testi la cui attendibilità è da escludersi. Ma i Belardo non sono persone da minacciare alcuno. Gli stessi carabinieri li descrivono lavoratori indefessi e persone abituate a subire, tanto che l’anno prima padre e figlio furono percossi da una sola persona. Figuriamo se capaci di pronunciare  minacce di fronte a tante persone armate”.
“Pietro Papa fornisce un elemento significativo della mitezza di Vincenzo Belardo allorchè riferisce che il Belardo alla vista dei due figli cadaveri rivolto al Chianese disse:” Obbirite che mavito fatto?”. In una tragedia così immane nel fondo della voce del Belardo ci resta ancora il rispetto che egli ha umile lavoratore della terra per il suo padrone. La posizione processuale di Antonio De Rosa e del Luciano Chianese – chiarisce l’avvocato Garofalo nella sua lunga ed appassionante arringa in difesa della parte delle vittime – è  altrettanto chiara e altrettanto chiara è quella di Pietro Papa e Vincenzo De Rosa. E’ opportuno esaminare rapidamente la posizione di costoro, prima, durante e dopo il delitto per trarne delle conseguenze gravi. Innanzitutto è chiaro che entrambi gli imputati sapevano della questione avvenuta al mattino. Per uno era interessato alla questione e ne andava del prestigio del padre, per l’altro la questione interessava il suo padrone e non poteva non essere solidale. E’ gravissimo che entrambi si trovavano armati di fucili sul luogo del delitto. Essi non sono intervenuti onde evitare incidenti. E’ vero  che essi non avevano l’obbligo giuridico di intervenire per evitare reati ma  il loro mancato intervento è prova che essi erano a conoscenza delle intenzioni del Chianese e del De Rosa. E quando vi è la conoscenza delle intenzioni delittuosi di un individuo (limitate sia  pure ad un sopruso ) non si va con lui armato a sostenerlo.  a nulla vale in il dire che essi non sono materialmente intervenuti nella esecuzione del delitto non avendo fatto uso delle armi. In effetti non c’era più bisogno del loro intervento  perché ormai gli altri due avevano già sterminato quasi tutti i Belardo, non  c’era rimasto che il vecchio Vincenzo Belardo, ma questi era ferito e disarmato.

E’ opportuno esaminare rapidamente la condotta di ciascuno dei due prima, durante  e dopo il delitto per trarre delle conseguenze gravi. Vincenzo De Rosa è armato sul posto del delitto a fare spalla forte al padre e al Chianese suo datore di lavoro. Fugge insieme ai due dopo il delitto. Si diede  alla latitanza e, arrestato, nega la sua presenza sul luogo del delitto. Se egli non ha nulla da rimproverarsi perché nega la sua presenza sul luogo del delitto? Presenza provata da tutti i testimoni.
Pietro Papa assume preliminarmente di essere stato armato da Antonio De Rosa che lo aveva invitato ad accompagnarlo dai Belardo per sostituire delle piante. E’  facile rilevare che questo lavoro non si va a fare armato di fucile! Il fucile sarebbe stato scarico. E’ l’ultima tavola di salvezza a cui tenta di aggrapparsi. Da quando in qua i contadini girano per le campagne inospitali di Castelvolturno con i fucili scarichi? E che se ne fa egli del fucile scarico  se glielo ha dato De Rosa? Inconsciamente – sostiene ancora l’avv. Garofalo – l’imputato si è tradito. Fugge dal luogo del delitto insieme agli altri e se questa circostanza può essere giustificata per Vincenzo De Rosa – che doveva fare causa comune con il padre – non può esserlo per il Papa Se egli fosse stato estraneo al delitto sarebbe rimasto sia pure per tentare un ormai inutile soccorso alle vittime.  Si rende latitante per alcuni giorni. Interrogato dai carabinieri deduce di non ricordare nulla e nega di essere stato presente al delitto. Solo in seguito al confronto con la teste Maria De Rosmi – che lo riconosce – ammette di essere stato presente. Chianese e De Rosa furono latitanti per anni





    

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