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domenica 10 maggio 2015


 Accadde a S. Felice a Cancello 12 maggio del 1949


UN BARBARO DELITTO PER  UN  PICCOLO APPEZZAMENTO DI TERRENO  




Il fatto

Filippo Piscitelli di anni 48 all’epoca dei fatti, da S. Felice a Cancello, venne tratto in arresto e accusato di omicidio volontario. Il 12 maggio del 1949,  i carabinieri di Maddaloni vennero informati da tal Antimo Di Nuccio,  che  in località Isola era stato ucciso Giuseppe Piscitelli di anni 52, in via Cancello  n° 88, vicino alla sua casa. Una pattuglia di carabinieri,  al comando del brig. Giovanni Morcaldo,  che si trovava in zona,  fu subito dirottata verso il luogo del delitto. I carabinieri rinvennero il cadavere dell’uomo che si presentava con le scarpe sbottonate ed in abito discinti in un prato coltivato a fagioli. Ma data l’ora tarda il corpo del malcapitato fu piantonato e rinviato al giorno successivo l’arrivo del magistrato inquirenti per i rituali del caso. Si appurava così che l’ucciso, era celibe e viveva da solo, ma era in serio disaccordo con il fratello Andrea Piscitelli e la moglie di questi, Alessandra  Di Nuzzo, abitanti nella medesima masseria ma in abitazioni diverse. Si accertò inotlre che nel 1938,  Andrea Piscitelli, era venuto in possesso di alcuni moggia di terreno, già di proprietà del  fratello, che era oberato di debiti,  per un valore di circa venti milioni di lire.  Il Piscitelli aveva fatto il tutto per salvare la faccia della famiglia ed anche le proprietà che stavano per essere espropriate dai creditori facendo redigere un atto al notaio Giuseppe Iorio, ma pagando il corrispettivo del terreno direttamente ai vari creditori e non al fratello Giuseppe che ne era stato il proprietario fino a quella data. In effetti lo sconsiderato aveva alienato tutti i suoi beni con gioco e donne ed era rimasto con un solo moggia di terreno che coltivava personalmente. Per tale fatto le liti erano  frequenti.  Vi furono  numerose  querele per ingiurie, ricorsi al Pretore, perizie e stime – nel corso degli anni – fino a giungere al 1949. Per questi trascorsi, fu indiziato del delitto  Andrea Piscitelli che, però, al momento della irruzione in casa fu trovato a letto affetto da una infezione viscerale, ma, siccome non  aveva febbre fu immediatamente fermato unitamente al nipote Raffaele Piscitelli, figlio di Filippo, da Maddaloni di anni 20. Quest’ultimo, infatti, in località Scarpati in agro di Maddaloni,  aveva rinvenuto,  a circa  150 metri dalla propria masseria, il cadavere di un uomo, assieme ad un altro contadino tale Alessandro Di Nuzzo ed alla zia Carmela Piscitelli.


Testimoni falsi o reticenti
Subito interrogati dai carabinieri  in particolare Andrea Piscitelli (il primo indiziato del delitto) dichiarò che era malato da vari giorni per una intossicazione viscerale e dal letto aveva appreso verso le 16 di quel giorno l’uccisione del fratello Giuseppe, tale notizia gli era stata fornita dal nipote Raffaele. Disse che il morto era in disaccordo con tutti per via del terreno. Lui viveva nella stessa masseria ma in una appartamento diverso da dove viveva lui e la moglie.  Fu un racconto ingarbugliato e contraddittorio che i carabinieri – come era evidente – accettarono con il beneficio di inventario.
“Questa mattina – disse Andrea Piscitelli -  è venuto a trovarmi mio cognato Filippo Piscitelli, per vedere come stavo e l’ho mandato a chiamare suo cognato Ciro Petrella in Acerra e mio cugino Raffaele Piscitelli a S. Felice a Cancello, per tentare, a mezzo di loro, una riappacificazione con mio fratello Giuseppe. Filippo non era agitato, né ebbe a rappresentarmi animosità verso mio fratello. Non ho udito spari vicino alla masseria dopo che mio cognato ha lasciato la mia casa. Non so chi abbia potuto uccidere mio fratello. Nessuno mi ha detto dell’atroce delitto. Escludo di avere istigato o rafforzato l’idea di uccidere mio fratello nei riguardi di mio cognato Filippo Piscitelli qualora lui avesse commesso il delitto”.
 Alessandra Di Nuzzo, interrogata, a suo volta confermò che esistevano dissidi con il morto ed in particolare riferì che: “Mio cognato Giuseppe Piscitelli, fratello di mio marito, abitava nei pressi della nostra casa e l’ho visto  verso le ore 16,00. Era celibe e viveva solo. Era in lite con tutti ed i dissidi erano all’ordine del giorno sempre per la questione del terreno. Non ci siamo trattati da molti anni. Ieri è venuto mio nipote Raffaele Piscitelli – verso le ore 14,00 – figlio di Filippo Piscitelli piangendo, e mi ha detto che mio cognato era morto e che il suo cadavere era stato trovato dietro le case coloniche della nostra zona. Mio cognato era in dissenso con la sorella Carmela e col marito Filippo Piscitelli – sempre per ragione di interessi – il quale vantava diritti sulle proprietà di Carmela. Ho sentito dei colpi di pistola ma non mi sono allarmata perché spesso qui si spara.
A sua volta Carmela Piscitelli, sottoposta a stringente interrogatorio,   dichiarò di avere appreso della morte del fratello  dal nipote, Tommaso Izzo di anni 21; confermò i dissidi tra tutti i membri della famiglia,  ma escluse categoricamente che ad uccidere l’uomo possa essere stato suo marito ( il quale,  peraltro,  era fortemente indiziato dell’omicidio) “Perché lui è partito per Foggia,  con un automezzo,  dovendo acquistare del  bestiame”.  Confermò, però, che tra i due non c’erano buoni rapporti.


La svolta nelle indagini


Raffaele Piscitelli, chiamato ad esporre la sua versione dei fatti raccontò che - la sera   precedente al giorno del delitto – dopo cena il padre Filippo Piscitelli aveva detto che l’indomani sarebbe partito per Foggia per partecipare ad una Fiera di bestiame. “Questa mattina  però, precisò il giovane – l’ho visto verso le 7,30 rincasare,  scomposto nei panni che indossava, dicendomi che non ci saremmo più visti perché aveva litigato con mio zio Giuseppe Piscitelli e mi pregava di andare sul monte  – dietro la casa del predetto mio zio per vedere se era vivo o morto. Recatomi subito ho fatto delle ricerche nella zona senza rintracciare nessuno, poi ci sono nuovamente ritornato spingendomi più oltre il monte ed ho trovato il cadavere a ridosso di un rialzo di roccia. Dopo tale scoperta ho subito dato l’allarme a mio zio Andrea Piscitelli ed a sua moglie ed alle loro grida sono occorsi i vicini, tra gli altri  Antino Di Nuzzo al quale diedi incarico di avvisare i carabinieri”.
Il giovane precisò poi che tra il padre e lo zio non correvano buoni rapporti,  perché lo zio offendeva spesso il proprio genitore con parolacce,  ed una volta, addirittura gli aveva sputato in viso. “Non so precisamente come mio padre abbia ucciso mio zio,  in quanto non me lo ha detto, non so se avesse avuto una pistola io non glielo mai vista”.
Giuseppe Di Nuzzo, vicino di casa dei fratelli Piscitelli dichiarò che era andato a casa di Giuseppe Piscitelli propria quella mattina per farsi restituire la somma di lire 2500 che gli aveva prestato ma non trovandolo lo aveva cercato per i campi. Ritornò alla sua casa ma verso le ore 7,00 aveva sentito degli spari provenire alla casa di Giuseppe Piscitelli. Confermò, anche che “vox populi”, indicava che Filippo aveva ucciso il fratello in casa e poi lo aveva trasportato fuori in campagna. I carabinieri ipotizzarono anche che, complici nel trasportare il cadavere altrove, fossero stati la moglie ed il figlio  dell’assassino tutto ciò per ritardare le indagini.
Pasquale Pascarella,  soprannominato a’ Volpe,  da S. Felice a Cancello, non confermò, però,  il racconto dell’assassino. Smentì di avere incontrato Filippo Piscitelli né confermò che l’uomo che aveva visto scappare dopo aver udito i colpi di pistola fosse il Piscitelli.  Francesco Parisi, guardia giurata, da S. Felice a Cancello, confermò di essere stato in compagnia del Pascarella la domenica del delitto, e dichiarò che mentre si dirigeva verso Cancello, con la propria bicicletta aveva udito i colpi e subito si era recato sul posto assieme a Tommaso Izzo dove rinvennero il cadavere. Questa dichiarazione confermò la tesi dei carabinieri che ritenevano che il delitto fosse avvenuto altrove e non sul luogo ove venne rinvenuto il cadavere.
Tommaso Izzo, fu Vincenzo, da S. Felice a Cancello, dichiarò che aveva incontrato il Filippo Piscitelli  il quale,  piangendo, gli raccontò di essersi sparato con  il cognato Giuseppe Piscitelli,  e che doveva andare in carcere. Tommaso Izzo, fu Filippo, a sua volta dichiarò che quella domenica mattina andò a casa sua Filippo Piscitelli, cugino del padre,  e gli riferì,  piangendo, che il cognato Andrea Piscitelli era grave e che avrebbe desiderato parlare con il fratello Giuseppe, pregandolo di andare ad Acerra,  a chiamare il cognato Ciro Petrella, pregandolo di andare dal malato.  Questa dichiarazione, però, venne smentita da Michele Piscitelli, 79 anni da Acerra,  il quale dichiarò di non essere stato affatto avvisato e di non essere stato in grado di parlare con la vittima per la sua ostinatezza.  Anche un altro parente,  Raffaele Piscitelli, 38 anni da S. Felice a Cancello, confermò di essere ignaro di tutto.

Gli inquirenti con queste “deposizioni-confessioni”  ebbero la certezza che ad uccidere era stato Filippo Piscitelli, anche perché, questi si era dato alla latitanza. Intanto era stato disposto il fermo di Andrea Piscitelli e di Raffaele Piscitelli, che gli investigatori sospettavano complici nel delitto. Le donne, tutte, invece, furono liberate.

Il racconto dell’assassino e la pistola fantasma  

Nel mentre il magistrato inquirente aveva dato incarico di procedere alle perizie balistiche e autoptiche. Il perito settore incaricato  il Dr. Luigi Del Vecchio, diagnosticò che Giuseppe Piscitelli  era stato ferito mortalmente all’emitorace e alla regione tiroidea da ben tre colpi di rivoltella. Nel frattempo, mentre era stato prorogato il fermo dei due indiziati il vero assassino si costituì ai carabinieri. 
“Domenica mattina mi recai a casa di mio cognato Andrea Piscitelli,  già ammalato da tempo,  per chiedergli se avesse avuto bisogno di me. Nella circostanza mi rinnovò la preghiera – anche per il suo stato di salute -  di adoperarmi affinchè egli avesse fatto pace col proprio fratello Giuseppe. Nello stesso tempo mi aveva pregato di far andare presso di lui alcuni parenti: zio Michele Piscitelli, che abita ad Acerra ed i figli di costui, Raffaele che abita a S. Felice a Cancello e mio cognato Ciro Petrella, pure di Acerra. Aveva in animo di fare una  riappacificazione generale.  Mi recai subito da Tommaso Izzo a Cancello Scalo  e lo incaricai di andare a chiamare tutti gli altri. Intanto io tornai verso l’abitazione dei miei cognati Andrea Piscitelli e Giuseppe Piscitelli per cercare quest’ultimo e tentare di farlo riappacificare con il fratello. Scortolo sulla strada campestre che dalla sua casa conduce alla propria Pagliara, a circa 100 metri dalla propria abitazione, mi sono diretto colà e gli dissi che il fratello malato si era aggravato e stava male e quindi sarebbe stato il caso di riappacificarsi. Mi rispose di no! Mi invitò, con violenza ad andare via sputandomi, addirittura in viso. Poi mi minacciò estraendo dal suo fianco una  grossa pistola.  A tale vista estrassi anch’io la rivoltella che portavo addosso e dopo che mi sparò un colpo con la sua arma, risposi c on la mia sparando tre o quattro colpi da una distanza, credo, non più di 3 o 4 metri.  Il colpo sparato contro di me era andato a vuoto. Poi visto che lui barcollava,  sono fuggito. Durante il tragitto – piangendo – ho incontrato due o tre persone – tra le quale  Pasquale a’ Volpe, e a loro domanda dissi che avevo  fatto. Poi andai a casa mia – distante meno di un chilometro dal luogo del delitto – raccontai il tutto a mio figlio, raccomandandogli di andare   sul posto per vedere se Giuseppe era morto oppure no. Pensando che lui potesse essere solo ferito poi mi sono dato alla latitanza per sistemare le cose. Appreso ieri della morte - per evitare che venissero arrestati degli innocenti – tra  i quali mio cognato Andrea e mio figlio Raffaele – fermati da voi e sospettati del delitto, mi sono costituito. Io sono l’unico responsabile del delitto e l’ho commesso per legittima difesa. Ho sparato dopo essere  stato minacciato ed ho visto la mia vita in pericolo. Non ho spostato il cadavere. Sarà  precipitato  da solo nel canalone. Nessuno mi ha istigato. Non so dove può essere finita la sua rivoltella. La mia l’ho nascosta in campagna,  ma ho già dato disposizioni ad alcuni amici per rintracciarla  per farvela consegnare.  In seguito alla sua confessione venivano subito liberati i due che erano stati fermati per presunto concorso nell’omicidio. Il racconto, però, aveva rappresentato molte perplessità per gli inquirenti specialmente per quanto atteneva il luogo dove era stato trovato il cadavere e la scomparsa della fantomatica pistola della vittima.




La  Corte di Assise di S. Maria C.V. aveva   inflitta una condanna a 14 anni di reclusione  per omicidio volontario aggravato e tentato omicidio, senza la concessione delle attenuanti generiche.  In appello la pena scese a 11 anni.

 I giudici, dal conto loro, si convinsero delle asserzioni mendaci fatte ai carabinieri dall’omicida,  al fine di fare apparire di avere agito in stato di legittima difesa, della quale -  dissero - “non era neppure il caso di parlarne”, perché oltre ad essere di assai dubbio che il Giuseppe Piscitelli avesse potuto possedere una pistola – “per lo stato di miseria i cui viveva” -  l’arma con la quale egli avesse minacciato e sparato a vuoto contro Filippo si doveva trovare e non era stata rinvenuta,  nonostante i carabinieri avessero minuziosamente ispezionato,  ogni  angolo del terreno. Non è neppure vero  che il Piscitelli avesse incaricato il figlio di andare a vedere se lo zio era morto o meno e non era vero il fatto che era andato dalla vittima per farlo riappacificare in quanto anche egli aveva avuto un appezzamento di terreno con lo stesso sistema usato dal fratello  Andrea  (cioè intestarselo,  pagando i creditori,  ad un prezzo inferiore al valore reale).  Si tratta di un piano delittuoso – precisarono i giudici nella loro sentenza – proposto con la complicità di  Andrea Piscitelli il quale, tra l’altro, possedeva anche una pistola. Fu eliminato insomma colui che dava fastidio alla famiglia con il suo modo di vivere; il cadavere fu spostato e portato fuori l’abitazione per similare il presunto atto di legittima difesa, con il concorso anche degli altri membri della famiglia. Inoltre ad aggravare la sua posizione si seppe che nel periodo che si era dato alla latitanza era stato a Santa Maria Capua Vetere presso lo studio di un noto avvocato.  Infine i giudici della Corte di Assise si soffermarono sulla singolare deposizione di un monaco  (ritenuto inattendibile ma in buona fede). Si era, infatti, presentato presso la caserma dei carabinieri   - dopo pochi giorni dal delitto - tale padre Giuseppe Mercogliano, monaco  cappuccino, riferendo che la sera precedente, recatosi nel fondo dell’ucciso, per constatare lo stato di crescita delle piantine che erano state seminate per suo conto nel fondo dell’ucciso  e nel frangente la moglie di Filippo Piscitelli, sorella della vittima, gli aveva dato una elemosina e  lui, mentre vagava per il campo, aveva trovato  una pistola…ricoperta da uno strato di terra. Nella nota riservata,   però,  già i carabinieri, avevano prima denunciato il prete e poi adombrato che quello era l’ennesimo tentativo della difesa per avallare la tesi della legittima difesa, alla quale il monaco si era prestato. Indagato per favoreggiamento e sottoposto a procedimento penale, si era protestato innocente. I giudici non bevvero la…storia… del cappuccino…!

Avv. Vittorio  Verzillo

I  magistrati della Corte di Assise, per avere conferma della validità della loro condanna rifecero ab origine la storia della famiglia, dei possedimenti, delle relative acquisizioni, dei rapporti intercorsi; degli attriti, delle querele e delle istanze fatte dai Piscitelli prima del delitto. Accertarono, infatti, che nel 1938 dovendo essere espropriati i beni di Giuseppe Piscitelli, che aveva contratto molti debiti (con gioco e donne), il fratello Andrea, li acquistò a mezzo di rogito redatto dal notaio Federico Iorio di Maddaloni, per una somma complessiva di 20 milioni di lire. Con tale somma l’acquirente soddisfece i creditori. I beni acquistati consistevano in 2 moggia di terreno in Maddaloni. Il prezzo parve equo per tutti. Secondo l’assunto dell’imputato Andrea Piscitelli, - il fratello era rimasto con lui nella stessa masseria fino al 1944 ma nel 1945 si allontanò per andare a convivere con una prostituta incominciando a farneticare che doveva rientrare in possesso della sua proprietà. Appare manifesto – scrissero i giudici – che tale idea maturò e si rinforzò nella mente di Giuseppe, allorché il valore dei feudi rustici ascese ad un livello superiore agli aumenti registrati in altri campi dovuto alla svalutazione monetaria in atto. 
Probabilmente, se l’acquirente fosse stato un estraneo,   il venditore Giuseppe, si sarebbe  rassegnato ad un negozio mal riuscito – per cause non dipendenti dal compratore – ma, essendo stato il fratello, per deplorevole pervertimento il rancore e l’invidia dovettero agitarlo alla constatazione che il patrimonio di costui aumentava e che tale vantaggio avrebbe potuto usufruirne lui qualora non avesse venduto. Egli, infatti, nel 1948 si rivolse all’avv. Salvatore Correra,  assumendo falsamente di non aver  riscosso il prezzo del terreno. Era nota, però, la circostanza, secondo la quale il fratello – sapendo della sue mani bucate – con il corrispettivo dei terreni aveva soddisfatto direttamente i  suoi creditori. Il suo avvocato – in coscienza –dopo aver esaminato gli atti – riferì che non vi era più nulla da fare perché era stato inserito nell’atto di vendita che il pagamento era stato effettuato prima del rogito. Iniziò da allora, una lotta del tutto illegale ed immorale contro il fratello che si rivolse all’Autorità Giudiziaria senza passare mai a via di fatto. Ci furono atti innanzi al Pretore che ribadirono la legalità, sia del pagamento che del possesso dei feudi ma il Giuseppe Piscitelli (pur ammettendovi fatti) si rifiutò sempre di sottoscrivere i  verbali. Alle sue azioni di spoglio il Pretore reintegrò nel possesso Andrea  Piscitelli. Lo stesso Avv. Correra dovette riferire al suo assistito che non vi erano motivi per opporsi alle decisioni del Pretore. Si susseguirono ricorsi, spogli e reintegre. Giuseppe Piscitelli dava spesso molestie al fratello ingiuriando la  moglie: “Sei una puttana… tela fai con tutti…”. Ma non era vero! Ci fu anche una querela per tali gravi offese. Nonostante ciò Andrea aveva cura del fratello, pagava i generi alimentari, e tutto quello che occorreva e non tralasciava momenti per una riappacificazione. Lo confermarono, nelle loro deposizioni, Clemente Crisci, Pasquale Di Nuzzo, Francesco Lombardi e Michele Piscitelli, che avevano fatto anche da paciari. Infine,  fu stabilito, addirittura per quiete vivere che Andrea avrebbe ceduto a Giuseppe l’usufrutto dei beni controversi e fu all’uopo disposta una riunione innanzi al notaio Giuseppe Barletta in Maddaloni, che avrebbe dovuto stipulare il contratto, per un giovedì del mese di aprile. Furono presenti Andrea con il suo avvocato Fabio Brancaccio  e l’avv. Salvatore Correra. L’interessato, però, si fece attendere invano. In quanto a Filippo Piscitelli, marito della sorella dell’ucciso, pur risultando dagli atti,  che anche lui aveva acquistato alcuni beni del cognato alle stesse condizioni di Andrea Piscitelli, nessun rancore la vittima covava nei suoi confronti. Il delitto fu ricostruito dai giudici e si ritenne che avvenne nella casa della vittima. In definitiva Andrea Piscitelli fu Assolto con formula piena. Filippo non premeditò il delitto e il cappuccino fu tratto in inganno (infatti fu assolto perché il fatto non costituiva reato). Dopo due anni Andrea ritornò libero. La  Corte di Assise di S. Maria C.V. aveva   inflitta una condanna a 14 anni di reclusione  per omicidio volontario aggravato e tentato omicidio, senza la concessione delle attenuanti generiche.  La sua difesa, affidata in prime cure all’avv.to Ciro Maffuccini, e successivamente – fino al ricorso innanzi alla Suprema Corte di Cassazione – agli avvocati Giuseppe Fusco, Fausto D’Ortona e Vittorio Verzillo, non modificò di molto la definitiva condanna a 14 anni.  Con la sentenza  del sei luglio 1951, della Corte di Assise  di Appello di Napoli, (Presidente  Nicandro Siravo, giudice a latere Gennaro Guadagno,  Procuratore Generale Francesco Ventriglia) condannava  a 11 anni di reclusione,  con la concessione delle attenuanti generiche.

  

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