Translate

domenica 26 luglio 2015


 UCCISE CON TRE COLPI DI PISTOLA IL CUGINO E FERI’ IL NIPOTE
Accadde a Marcianise il 4 agosto del 1949



Quando Marcianise non era solo camorra ed era il centro della lavorazione della canapa del casertano. Gli volevano soffiare un affare per la sua vasca di macerazione della canapa. Un morto e due feriti…per l’attrito tra i due.   

 

  

Marcianise – La tipologia dominante al cui interno si può inserire Marcianise è sicuramente quella di un centro tipicamente contadino e l’economia agricola ha costituito per lunghi secoli la ragione della sua storia e della sua cultura: posta al centro della fertile pianura di Terra di Lavoro, Marcianise appare sede di insediamenti  contadini fin da epoca molto remota  che sono stati attratti dalla feracità del suolo e dalla possibilità, quindi, di praticare un’agricoltura particolarmente produttiva e redditizia.   Nel 1872 il re Vittorio Emanuele II ha scritto un decreto nel quale dichiara che Marcianise è una città  e non più un piccolo centro agricolo. Ma è proprio nella Marcianise agricola che è scoppiato l’atroce delitto sdi cui oggi ci occupiamo. Con un dettagliato rapporto i carabinieri relazionarono alla Procura della Repubblica che il giorno 4 del mese di agosto del 1949, in località “Passo dell’Orso”, in agro di Marcianise, il possidente terriero Antimo Farina, era venuto a litigio – per motivi di interesse – col proprio cugino Antonio Farina che uccideva costui con tre colpi di pistola. Verso le ore 12 di quel giorno il Farina, come di consueto, si recò con la propria moto Vespa a controllare lo stato di maturazione della canapa esistente nella vasca di sua proprietà attigua ad altra vasca di proprietà del cugino Antonio Farina. 

In quel momento questi era intento  a parlare a gesti  con il sordomuto Martino Biancur. Sul posto vi erano presenti anche altri parenti, nipoti ed altri sensali: Antonio Farina,. Pasquale Farina e vari operai,  addetti alla lavorazione della canapa. Giunto sul posto Antimo, dai discorsi che il proprio cugino teneva con il predetto Biancur ebbe la sensazione che Antonio Farina intendesse sottrargli un affare essendosi in precedenza il Biancur impegnato con lui per la macerazione della propria canapa.  Le rimostranze che per tale motivo ebbe a rivolgere al cugino ne provocarono il risentimento, che l’altro disse : “di non aver bisogno di fare un simile mercimonio”. A questo punto Antimo si mosse contro il cugino il quale fece altrettanto per affrontarlo e la discussione, con reciproco scambio di ingiurie proseguì animatamente senza che alcuno dei due trascendesse a violenza o minaccia.
La rissa e la sparatoria


Ad un tratto Pasquale Farina, figlio di Antonio, semideficiente e ritardato mentale (per pregressa cefalopatia),  fu visto armarsi di una grossa mazza prelevata da un carretto ed avanzare con la stessa sollevata in aria – acconto al padre che nel frattempo si avvicinava al cugino Antimo – fino a giungere in atteggiamento risolutamente minaccioso fino a due metri di distanza da  quest’ultimo. Intanto Federico Casella, cognato di Antonio Farina,  che si trovava nella vasca di macerazione,  sentendo aumentare il tono della discussione uscì dalla vasca e pure si avvicinò ad Antimo ricevendo un pugno al collo.  Secondo la tesi di Pasquale Farina, però, sostenuta dal proprio zio Antonio, egli obbedendo all’ingiunzione di questi, aveva deposto la mazza a terra, quando Antimo Farina, estratto la pistola dalla fondina che teneva nella cintola dei pantaloni, aveva puntato tale arma  prima contro di esso Pasquale, facendo partire tre colpi ed infine due colpi dirigeva contro il cugino Antonio, il quale, pur essendo gravemente ferito, veniva da Antimo ripetutamente colpito al capo col calcio dell’arma.  Antimo Farina, invece, assumerà nei suoi interrogatori di essere stato affrontato dal cugino Antonio e dal cognato Federico Casella che avevano brandito delle “varre”, nonché dal nipote Antonio Farina,  fu Luca, pur essendo disarmato cercava ugualmente di colpirlo; che dopo essere stato colpito dai predetti aveva estratto la pistola ingiungendo agli altri di arrestarsi  ma poiché costoro invece incalzavano, avvicinandosi minacciosamente più vicino era stato costretto a fare suo dell’arma.

Le contrastanti versioni sulla dinamica del delitto e la legittima difesa


Federico Casella, cognato dell’assassino, sosterrà, invece,  di essere intervenuto quale paciere e di essere costretto ad armarsi di mazza soltanto in un secondo momento e quando già Antimo Farina aveva cominciato a sparare. Dalle accurate indagini degli inquirenti risultò comunque che Antimo Farina – dopo di avere esploso i detti colpi di pistola – contro i propri congiunti risalì sulla propria moto  e con la stessa si diresse verso Marcianise, ove nella casa del suo colono Vincenzo Valentino (il Valentino scamperà alla morte per una singolare circostanza nel delitto che Francesco Pasquariello consumò a Marcianise, dopo una ventina di giorni, e precisamente il 28 agosto del 1949, allorquando uccise il Preside Nicola Di Benedetto,  perché lo aveva sfrattato dal suo terreno; delitto da  noi riportato lo scorso 29 giugno) lasciava la pistola  una Beretta Cal. 7,65 e dalla nuora del Valentino, Rosa Piccolo, si faceva dare dell’alcool  per medicarsi un dito ferito – a suo dire – casualmente con la frizione della sua motoretta.  Si costituiva alle 17 di quello stesso giorno presso il Comando dei Carabinieri di Caserta confessandosi autore dei delitti commessi. Intanto Antonio Farina poco dopo moriva per le gravissime ferite e veniva trasportato cadavere a Recale. Gli altri due feriti venivano di urgenza ricoverati all’ospedale di Caserta.

Un morto e due feriti…per l’attrito tra i due    

Attraverso la perizia  generica - ordinata dalla magistratura – risultò  che Antonio Farina,  fu Pasquale, oltre a quattro piccole ferite contuse superficiali al capo, aveva riportato due  ferite da arma da fuoco transfosse  ma al torace col foro  di entrata ed uscita al nono spazio intercostale di destra. Causa determinante della morte - avvenuta dopo circa un’ora – furono le ferite al torace. In Pasquale Farina furono riscontrate varie ferite e conseguì la guarigione sul 40esimo giorno come pure altre ferite furono riscontrate su Antonio Farina fu Luca. L’assassino – nella stessa giornata della sua costituzione – veniva sottoposto a visita medica da parte del Dr. Luigi Iaselli, che constatò una piccola ferita  lacero contusa al mignolo sinistro. Nel carcere fu sottoposto a varie visite  dai sanitari  dottori Antonio Pucci e Giuseppe Cangiano e fu stabilita una guarigione in 20 giorni. Nell’interrogatorio reso il sei agosto (due giorni dopo il delitto) il Farina dichiarò che i rapporti con il cugino erano tesi ed ebbe la sensazione che lo stesso volesse sottrargli  clienti nella macerazione della canapa. Notò che il nipote Pasquale era armato di una “varra”  e gli veniva incontro in atteggiamento minaccioso. Ammise di aver colpito con il calcio della pistola il cugino perché questi – nonostante fosse ferito – lo teneva ancora avvinghiato mentre il Casella lo attendeva al varco impedendogli la fuga in Vespa. Antonio Farina al Pretore dichiarò che nel momento  in cui sopraggiungeva Antimo Farina il sordomuto Biancur aveva chiesto ad Antonio Farina (omonimo) di porre la canapa a macerare nella vasca. Federico Casella ed altri facevano da pacieri. Pasquale Farina ammetteva di aver  preso dal carretto una di quelle grosse  mazze che servono a sostegno laterale del carico di canapa e di essersi messo con la detta varra contro lo zio Antimo convinto che questi volesse aggredire il padre. Martino Biancur, (il sordomuto) ammetteva di essersi trovato a parlare con il Farina negava che aveva chiesto allo stesso di deporre la canapa a macero nella sua vasca.  I carabinieri interrogarono vari testimoni: Francesco Argenziano, Angelo Scaldarella, Vincenzo Valentino, Vincenzo Braccio e Alessandro Penna,  i quali confermarono – per la massima parte – la tesi dell’assassino sulla aggressione e quindi sulla legittima difesa. Si appurò, altresì, che esisteva un sordo attrito tra le famiglie specialmente da quando Antonio si era opposto alla collocazione di sostegni per la installazione di una motopompa. Dal canto suo Antimo si era rifiutato di concedere l’acqua per l’irrigazione del fondo di Antonio. Entrambi si facevano concorrenza nella clientela che si serviva delle loro vasche di macerazione. Il Pasquale Farina (nipote dell’assassino) essendo notoriamente deficiente poteva diventare pericoloso per il bastone che impugnava. In sostanza si accertò che il Biancur aveva un contratto preliminare  con l’imputato per la macerazione della canapa; che la vittima aveva chiamato “cornuto” il cugino ingiuriandolo e facendo intendere che la moglie gli aveva fatto le corna. Che Antimo Farina era stato ferito al mignolo e che aveva estratto la pistola  quando gli altri si avvicinavano minacciosi armati di varre,  tridenti  e zappe, che era stato colpito al braccio per fargli  cadere la pistola ma che questi aveva esploso tutti i 9 colpi dell’arma.  Una perizia espletata sull’imputato non potette, però, accertare con quale mezzo era stata prodotta la ferita al mignolo. Ci furono – nel corso della istruttoria formale – delle segnalazioni della difesa dell’imputato che segnalarono agli inquirenti una losca attività di tale Giuseppe Rossi, che si diceva essere diventato  il consigliere della vedova di Antonio Farina (un altro esposto  lo indicò come amante) e sulle deposizioni di Raffaele Galiero e Pietro Trucco,  si accertò che il Rossi aveva avvicinato i due (in Capua circa 40 giorni dopo il delitto) e promettendo loro una grossa somma di denaro (sessantamila lire dell’epoca) li aveva invitati a deporre contro Antimo Farina, modificando le loro deposizioni già rese alle Autorità.  I due,  però,  si erano rifiutati. Ma il Rossi incriminato per intralcio alla giustizia si era protestato innocente. Esibì un suo alibi adducendo che nel giorno indicato dai testi non si trovava a Capua bensì a Napoli. Anche la parte civile segnalò l’attività “truffaldina”  per subornare i testimoni ed una parte rilevante pare l’ebbe il sacerdote Antonio Farina (fratello dell’imputato) il quale, però, con apposito esposto denunciava Salvatore Iavarone e per subornazione. Quest’ultimo nell’interesse dell’imputato avrebbe fatto sì  che Fimiano  De Vivo, Golino e Perna, escussi poi quali testi nel processo – dicessero al Rev. Farina ciò che a loro risultava. Il  sacerdote scrisse il contenuto delle deposizioni che costoro avrebbero dovuto rendere. In un secondo momento però – avuto contatti con la vedova della vittima – induceva i quattro testi a modificare le deposizioni già rese - dietro promessa di denaro (una somma superiore a quella dell’imputato e cioè 80 mila lire). I predetti però si rifiutarono. Il Rev. Farina dal canto suo riferì che lo Iavarone si era a lui presentato con un foglietto su cui erano  vergati i nomi dei testimoni presentandogli i predetti. Sentito in merito il prete dichiarò che avendo appreso che gli stessi erano analfabeti aveva riassunto su due foglietti il contenuto delle loro dichiarazioni che aveva fatto firmare col segno della croce.  





Antimo Farina veniva condannato ad anni 24 di reclusione  per omicidio volontario in danno del cugino Antonio Farina e per tentato omicidio in danno di Pasquale e Antonio Farina.

In appello  stato  venne riconosciuta l’attenuante dello stato e le generiche. Condanna scese ad  anni 10 e mesi 9. Condanna ad 1 anni per Iavarone e assoluzione per Rossi. 



Gli imputati: Antimo Farina, Giuseppe Rossi e Salvatore Iavarone, il primo per omicidio, gli altri per concorso in omicidio e detenzione di armi da guerra,  vennero tratti a giudizio innanzi la Corte di Assise di S. Maria C.V.(Presidente Carlo Fellicò, giudice a latere, Victor Ugo De Donato, giudici popolari: Riccardo Ricciardi, Gennaro Cervo, Gaetano Papa, Giuseppe De Chiara, Domenico Barbato, Vincenzo Paero e Giovanni Pozzuoli, pubblico ministero,  Francesco Andreaggi, ufficiale giudiziario, Giuseppe Girardi, cancelliere Domenico Aniello). In dibattimento le cose si trasformarono e si fece a gara per mettere testimoni falsi per avvalorare da un lato la legittima difesa e dall’altro una proditoria aggressione. Parte civile e imputati con un cast di avvocati  valorosi si scontrarono più volte.   Nel dibattimento Antonio Farina fu Luca e Carmela Celiento ( anche in nome  e per conto del figlio minore Pasquale) si costituivano parte civile contro l’imputato. Questi a sua volta si costituiva  parte civile contro Rossi e Iavarone per subornazione dei testi a suo carico. A chiusura gli avvocati invocarono l’assoluzione dell’imputato per legittima difesa, in subordine, eccesso colposo con la concessione delle attenuanti generiche. Per Rossi e Iavarone la richiesta fu di assoluzione per insufficienza di prove. La Corte, con verdetto del 28 luglio del 1951, condannò con la continuazione (omicidio e tentato omicidio) Antimo Farina alla pena di anni 24 di reclusione; il Rossi ad un anno e mesi 4 e lo Iavarone ad anni anno. La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza del 9 marzo del 1953,  composta dal presidente Nicandro Siravo, dal giudice a latere, Gennaro Guadagno, e dai giudici popolari: Raffaele Merola, Aldo Fruscella, Giovanni Russo, Emilio Rusi, Guglielmo Amorante, Alfonso Apicella, con la partecipazione del procuratore generale Tito Manlio Bellini, emise il verdetto contro Antimo Farina, Giuseppe Rossi, e Salvatore Iavarone, tutti appellanti contro la sentenza della Corte di Assise del Tribunale di S. Maria C. V. 



Nel merito,  i giudici  di secondo grado,  stigmatizzarono  il contrasto esistente tra le deposizioni e ritennero che Antonio Farina (la vittima) ebbe il torto di non prevedere le conseguenze delle sue rimbeccate espresse nella frase: “Non ho bisogno di fare questo mercimonio. O di leccare questi piattelli”, ferendo così l’orgoglio ed il prestigio economico dell’Antimo che rispose: “Perché io ne ho bisogno e tu no?”.  Inoltre i giudici di appello scrissero che era “censurabile la valutazione dei fatti  compiuta dai primi giudici per la superficialità  del metodo adoperato nell’esame delle prove  della lacunosa ricostruzione”. Negarono la legittima difesa (mancava il pericolo imminente) mentre concessero  l’attenuante dello stato d’ira e le attenuanti generiche per l’incensuratezza. La condanna definitiva ( confermata anche dalla Corte di Cassazione) fu di anni 10 e mesi 9. Condanna, lieve, invece,  ad un  anno  per Iavarone e assoluzione per Rossi. Nel processo di primo,  secondo grado  e Cassazione furono impegnati gli avvocati: Vittorio Verzillo, Cesare Di Benedetto, Alberto Martucci, Lorenzo Ferillo, Alfredo De Marsico, Gaetano Farro, Amerigo Crispo, Giuseppe Fusco e Federico Simoncelli, (il nonno dell’attuale avvocato Simoncelli). 




   

Nessun commento:

Posta un commento