Accadde a S. Cipriano d’Aversa
il 20 Ottobre del 1948
Nella
terra dove lo schiaffo rappresenta una caparra per la morte. Di ritorno dalla
festa patronale di Casapesenna due gruppi di giovani si sfidarono. Volarono schiaffi e la successiva vendetta causò due morti. Mezzogiorno di fuoco nella piazza
centrale con una sparatoria dove morì un
ignaro barbiere. La vittima prima di morire sparò contro il suo avversario
senza colpirlo.
La storia
S.
Cipriano d’Aversa – La contesa “canora”, i fischi, la zuffa, gli
schiaffi, ebbero inizio la sera del 20
ottobre del 1949, allorquando due gruppi di giovani casalesi provenienti da
Casapesenna, dopo aver assistito ai festeggiamenti in onore del Santo Patrono,
si incrociarono nei pressi di S. Cipriano d’Aversa. Dal primo gruppo si levò un
canto cui fece eco qualche fischio lanciato da un giovane del secondo gruppo.
Il cantante dilettante, lo stornellatore, era il giovane Raffaele Pirozzi, ed i
fischi che erano a lui diretti lo fecero arrabbiare. Si adombrò fino al punto che
affrontò risolutamente i giovani che seguivano, chiedendo loro di rivelare il
nome di quello che aveva fischiato. Il giovane Pasquale Goglia, amico del Pirozzi, allo scopo di evitare
incidenti, dichiarò di essere stato lui a fischiare. Ma l’espediente non conseguì
il fine. Il Pirozzi, non credendo che il suo amico avesse potuto fischiare la
sua stornellata insistette per conoscere chi era stato
veramente l’autore dei fischi. Agevolmente individuato dal Pirozzi - per chiare allusione degli altri – Filiberto Di Bello, autore della
fischiata, si fece innanzi ed accettò l’addebito. Il Pirozzi, allora,
dicendogli: “Credi che per te non vi sia
il mio bastone?”, gli vibrò un forte colpo alla testa. L’intervento degli
astanti impedì che l’incidente degenerasse in zuffa. Alcuni giorni dopo e
precisamente il 26 ottobre Raffaele Pirozzi veniva aggredito e percosso dai
fratelli Filiberto e Luigi Di Bello, mentre discorreva in prossimità del quadrivio
di via Diana e via Roma, con gli amici Giovan Battista Di Girolamo e Vincenzo
Martinelli. Umiliato e dolorante si
avviò verso casa e per la strada incontrò l il fratello Luigi al quale confidò quanto gli era capitato. Il Luigi, irritato
per il racconto del fratello decise immediatamente di agire e si portò nel
posto dove era stata perpetrata l’aggressione ai danni del fratello. Vide sul
posto – seduto sul sellino di una bicicletta – un cugino dei Di Bello, a nome Ubaldo;
opinò che questi avesse agito d’intesa coi
cugini Di Bello o fosse lì a spiare le mosse dei familiari dell’aggredito e
proditoriamente senza proferire parola gli assestò 4 sonori ceffoni.
Si girò verso l’avversario esplodendogli
contro più colpi di pistola ma uccise anche l’ignaro barbiere.
Ubaldo
Di Bello (appartenente ad una famiglia di guappi: due zii erano
nel manicomio giudiziario, uno per
lesioni e violenza privata, l’altro per
omicidio premeditato) serbò pieno dominio si sé, senza scomporsi, si chinò a
raccogliere la bicicletta e simulò la ritirata. Fatti pochi passi in direzione
di Piazza Marconi repentinamente si girò verso l’avversario esplodendogli
contro più colpi di pistola simultaneamente estratta. Uno dei colpi raggiunse
il barbiere Tommaso Fichele, di anni
44, che era uscito sull’uscio del salone dopo aver sentito il primo sparo che
aveva già freddato Luigi Pirozzi. Questi,
ferito, trovò l’energia ed il coraggio sufficiente per affrontare ed inseguire
il suo feritore, sparando al suo indirizzo due colpi di pistola che, però, andarono a vuoto. Intanto
Ubaldo Di Bello, pure in fuga continuava a sparare fino all’esaurimento del
caricatore. Subito dopo si rifugiò in casa di cugini, in via Luigi Caterino
dileguandosi al calar della notte assieme agli stessi attraverso le campagne. Il
barbiere Fichele, colpito da un proiettile -
a tragitto trasversale – con
forame di entrata al braccio sinistro e forame di uscita alla ascellare
anteriore destra moriva istantaneamente. Luigi Pirozzi, ricoverato di urgenza
presso la clinica del Dr. Nicola Di
Bello a Napoli, per lesioni di arma da fuoco passante alla regione
epigastrica destra, con forame di uscita
alla regione lombare sinistra, decedeva
in S. Cipriano poche ore dopo il trasporto da Napoli – diciassette giorni dopo
la sparatoria – per “peritonite settica”. L’11
ottobre – tre giorni dopo il decesso del Pirozzi – l’omicida venne intercettato a Santa Maria
Capua Vetere mentre scendeva dallo studio del su avvocato e tratto in arresto.
Quando la zona di Casale e S.
Cipriano era il Far West
Subito interrogato dal Giudice
Istruttore inquirente in merito all’omicidio volontario in persona di Luigi
Pirozzi e di omicidio “aberrante”, in
persona di Tommaso Fichele, Ubaldo Di Bello dichiarava di avere sparato contro
il Pirozzi solo quando costui – non pago dell’umiliazione inflittagli -
estrasse la pistola per colpirlo alle spalle mentre egli si allontanava. Adombrò,
insomma, una legittima difesa. Avvertì, cioè, la situazione di pericolo nella
quale si trovava – grazie al precipitoso disperdersi degli astanti alle prime
avvisaglie dell’aggravamento dell’episodio, egli fece appena in tempo a girarsi
ed a notare nelle mani dell’avversario una pistola. La reazione fu pressocché simultanea dell’altro al punto che egli non
poteva precisare chi dei due avesse sparato per primo. Dichiarava, infine, che
il barbiere Fichele non era presente quando venne schiaffeggiato dal Pirozzi. Dei
testi escussi in istruttoria relativamente all’episodio finale – tutti, ad eccezione di tre – concordavano
nell’affermare che il Pirozzi si limitò a schiaffeggiare Ubaldo Di Bello il
quale dopo essersi allontanato di pochi
passi, fulmineamente, estrasse l’arma e
giratosi fece fuoco contro il Pirozzi. In contrasto con queste deposizioni Rocco Itraco, Alessandro Antonelli e Giovanni Diana, secondo le cui asserzioni sarebbe stato il Pirozzi a
far ricorso all’arma dopo di aver schiaffeggiato il Di Bello senza che questi
avesse fatto il benchè minimo cenno a reagire cruentemente contro la violenza
dell’altro. In ordine all’uccisione del barbiere veniva ribadita la circostanza
che lo stesso cadde prono con la testa verso la sua bottega e i piedi verso il
dentro della strada.
Subornazione dei testi? Un
modus operandi per i processi della zona
Circa il suo intervento tra i
litiganti per ristabilire la calma deponevano in istruttoria la suocera dello
stesso Elena Nappa, e Nicola
Fabozzi. Qust’ultimo dichiarò – in un primo momento - di aver visto il barbiere Fichele prendere per un braccio Luigi
Pirozzi ed allontanarlo dall’avversario, ritrattando, successivamente, tali
affermazioni che avrebbe fatto per istigazione di uno zio del Pirozzi, sindaco
di allora di Casal di Principe il quale gli aveva corrisposto – per tale falsa
deposizione – ben diecimila lire. Gli
ultimo testimoni, invece, dichiararono in proposito di non aver notato il
barbiere prima del suo abbattimento. In relazione ad una supposta
partecipazione “morale” al delitto,
da parte dei cugini dell’Ubaldo, Filiberto e Luigi Di Bello deponevano altri
testi asserendo alcuni di aver visto i due fuggire insieme all’Ubaldo dal luogo
del delitto – subito dopo gli spari; altri di aver visto l’Ubaldo riparare in
casa di costoro in via Caterino e
riuscire poco dopo con gli altri due,
armati di pistola, dirigendosi
verso la campagna. Vennero altresì escussi testimoni anche in ordine
all’episodio della “stornellata con i
fischi” che precedette il fatto di sangue. Mentre l’istruttoria formale si
stava concludendo i difensori del Di Bello – con una copiosa documentazione - chiesero
alla Corte di disporre una perizia psichiatrica sull’imputato. La Corte accolse
nominando perito di ufficio il prof. Annibale
Puca, direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Aversa. All’esito la
relazione chiarì che “Il Di Bello - allo
stato attuale – è un soggetto con una caratteristica personalità psicopatica di
tipo epilettoide, potenziata da un imponente carico ereditario similare a
dissimilare e di una lue pregressa che – superata la fase costituzionale – sembra attingere precocemente gli involucri
nervosi con segni di una neuroluce preclinica. Inoltre, nel momento in cui commise i fatti – chiarì il Prof. Puca
– la facoltà di intendere e di volere era
in lui grandemente scemata ma non abolita. Concludendo che il Di Bello “è persona socialmente pericolosa”.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Chiusa la formale istruttoria, la Sezione rinviava Ubaldo
Di Bello al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,
(Presidente Paolo De Lise, giudice a
latere, Victor Ugo De Donato,
pubblico ministero Nicola Damiano;
giurati: Emiddio Farina, Riccardo
Curzio, Pasquale Auriemmma, Giovanni Pozzuoli, Gennaro Cervo e Gaetano Papa) per rispondere dei due
omicidi. Proscioglieva, intanto, Filiberto
e Luigi Di Bello – cugini dell’imputato
– dal concorso nel duplice omicidio commesso dall’Ubaldo. Proscioglieva,
inoltre, Salvatore Pirozzi dalla
falsa testimonianza nei confronti di Nicola
Pirozzi “per non aver commesso il
fatto”. Nel dibattimento l’imputato confermava le precedenti dichiarazioni
insistendo nell’assunto della “legittima
difesa”. I testi in udienza confermarono le deposizioni rese in
istruttoria. Il solo Umberto Cecora forniva
ulteriori ragguagli in ordine a quanto gli era occorso di constatare
dall’episodio svolto sotto i suoi occhi. Dichiarava, infatti, di essersi
adoperato per frenare le “trasmodanze”
di Luigi Pirozzi che dopo aver
schiaffeggiato Ubaldo Di Bello voleva anche estrarre la pistola nonostante
l’altro avesse incassato i colpi senza reagire. Dopo le arringhe dei difensori
di parte civile, nell’interesse di Carlo Pirozzi, Anna De Luca, vedova
Fichele, Maria Giovanna Petrella,
Attilia Fichele e Raffaele Pirozzi, prese la parola il pubblico ministero
concludendo per l’affermazione della responsabilità dell’imputato, con la
concessione del vizio parziale di mente, della provocazione e le attenuanti
generiche. La difesa dell’imputato invocava, invece, la legittima difesa, la
concessione del vizio parziale di mente, la provocazione, le attenuanti
generiche con il minimo della pena e con la esclusione del delitto aberrante
per insufficienza di prove. La Corte in
Camera di Consiglio era dunque chiamata a sciogliere questi nodi: 1) La concessione della legittima
difesa; 2) il vizio parziale di mente; 3) la provocazione; 4) le attenuanti
generiche; 5) la riferibilità della morte di Tommaso Fichele all’azione del Di Bello.
La legittima difesa era stata smentita dai
testi. “Non ci fu legittima difesa, l’episodio rappresentò una rappresaglia –
scrissero i giudici – anche ammesso che
il Pirozzi, agendo come agì, fosse disposto al peggio, perché vibrare degli schiaffi in paesi come
S. Cipriano equivale determinare la reazione ad oltranza, è chiaro che la
scaltrita condotta del Di Bello – simulare la resa – quindi reagire – conseguì
l’effetto sperato: operare la distensione nell’animo del Pirozzi, distoglierlo
da quel senso vigile d’attesa, presente in colui che, avendo messo in azione un certo dinamismo si prepari a fronteggiare
gli effetti. Che se il Pirozzi – come si assume – non fosse caduto
nell’insidia, ma fosse restato all’erta adeguatamente, determinando così
nell’altro la ragionevole opinione di ulteriori violenze in suo danno, il
medesimo gesto inconsulto del Di Bello sarebbe stato soffocato nel sangue.
“Luigi Pirozzi – scrivono ancora i giudici nella loro motivazione – conosceva lo stampo dei componenti della
famiglia Di Bello, gente malfamata, rotta a tutti i rischi, risoluta
nell’azione. Lo stesso contegno dell’Ubaldo, che rifiutava di battersi – lungi
dal fargli sospettare l’insidia – ne ottuse i riflessi con la lieve sensazione
di avere senza spese vendicato l’onore familiare ed inflitto all’orgoglio dei
rivali una inesprimibile mortificazione. La sentenza venne emessa il 16 maggio del 1952
con la condanna ad anni 17. Gli furono concesse le attenuanti della provocazione, le generiche ed il vizio parziale di mente. Fu lui ad
uccidere il barbiere perché sparò per primo. La sua pena era di 21 anni per il delitto Pirozzi.
Diminuita di un terzo per la provocazione: anni 14. Ridotta a 12. Elevata di un
terzo per l’omicidio aberrante.
“L’imputato – scrisse il
perito nella relazione – viveva in un
ambiente malsano nel quale la rivalità, il senso dell’onore, la necessità di
imporsi al rispetto altrui sono diventati
una dura legge per cui nessuno può subire l’offesa senza lavarla nel sangue:
risorgenze di anime malfamate acuite da
una tradizione paesana dove l’impiego della legge non ha ancora purificato
tutte le coscienze”. “Un delitto
d’ambiante – scrissero i giudici - un fattore endogene la riscontrata infermità
psichica la quale – non assumendo i valori decisivi d’una infermità che
scemi grandemente la capacità
d’intendere e di volere – non autorizza il giudice – come si dirà – ad
affermare il vizio di mente – ma d’altra parte presenta il soggetto al giudizio
di questa Corte in condizioni di indubbia inferiorità psichica che deve avere i
suoi riflessi sul piano della valutazione giuridica. Il perito ha battuto tre distinti direttrici:
1) il carico ereditario; 2) la sifilide acquisita; 3) l’epilessia e la nonna
paterna affetta da demenza senile. In appello i difensori chiesero ancora
una volta la legittima difesa, l’esclusione dal delitto aberrante. La condanna
fu ad anni 11 con il riconoscimento del
vizio parziale di mente. Sentenza del 23 maggio del 1955. Nei tre gradi di
giudizio furono impegnati gli avvocati: Avv.ti Giovanni Leone, Enrico Altavilla, Ettore Botti, Giuseppe Fusco, Alfonso
Raffone, Giuseppe Garofalo Alberto Martucci,
Alfredo De Marsico, Alfonso Raffone, Giovanni Passeggia e Giuseppe
Notarianni.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
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