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domenica 16 agosto 2015






GELOSIA FOLLE: ELIMINO’ IL RIVALE IN AMORE UCCISE IL GIOVANE CHE LA RAGAZZA AVEVA SCELTO AL SUO POSTO


Accadde a S. Marcellino 

il 29 gennaio del 1947



Nicola Melodia  spasimante della bella ragazza  fornì l’arma del delitto. Il vile agguato sorprese la vittima in compagnia del futuro cognato, Mario De Chiara. Il  Tonziello puntò il fucile sparando tutti i due i colpi di cui esso era carico a brevissima distanza, da vigliacco, alle spalle.





San Marcellino -  Il 29 gennaio del 1947, verso le ore 20, di ritorno dal lavoro prestato a Giugliano,  Michele Bamundo ritornava a San Marcellino,  allorquando, nel vicolo Macello  all’imbocco del paese veniva raggiunto da due colpi di fucile che qualche minuto dopo ne cagionavano la morte senza che egli avesse potuto rendere alcuna dichiarazione.  Mario De Chiara, fratello della sua fidanzata, che al momento  del delitto era  in sua compagnia, riferì che, per la oscurità non aveva potuto distinguere l’autore degli spari, fusi peraltro in una sola detonazione. Dalle immediate indagini espletate dai carabinieri si potè accertare che  il giovane Salvatore Tonziello, anche lui di San Marcellino,  era rivale in amore dell’ucciso in quanto anch’egli aspirava alla mano della giovane con la quale il Bamundo si era fidanzato e che solo qualche giorno prima aveva minacciato costui.  Il carabinieri fermarono Salvatore Tonziello il quale dapprima si protestò innocente ma poi col confessarsi autore dell’omicidio spiegando di essere stato istigato dal suo amico Nicola Melodia il quale non solo gli aveva fornito il fucile necessario per commettere il delitto ma lo aveva anche accompagnato sul luogo prescelto per l’agguato e lo aveva avvertito del sopraggiungere della vittima  in compagnia futuro cognato.  Fermato anche il Melodia prima sosteneva di nulla sapere poi finì con l’ammettere l’addebito. I carabinieri, tratti in arre4sto entrambi li denunciarono all’A.G. per omicidio volontario premeditato   aggravato dal motivo futile e abietto.

La ritrattazione delle confessioni per le presunte sevizie degli investigatori  


Il perito settore, incaricato dal magistrato inquirente di redigere una perizia sul cadavere della vittima  rilevava,  tra l’altro,   che sul dorso del cadavere la rosa dei pallini di calibro 12 si estendeva dalla regione scapolare alle natiche e che in tale zona furono rilevati ben 60 forami raggruppasti per la maggior parte nella metà sinistra e ciò perché – come fu accertato dai carabinieri - il Bamundo portava sulla parte destra una cassetta di legno ritrovata anch’essa forata dai pallini. Sentiti però  dal magistrato inquirente i due ritrattarono entrambi  la precedente confessione sostenendo che essa era stata estorta dai carabinieri mediante ripetute e gravi violenze. Tuttavia, chiusa formale istruttoria entrambi furono deferiti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  per rispondere di omicidio premedito aggravato. Nella sentenza di rinvio la Sezione Istruttoria aveva ricostruito – con dovizia di particolari – tutti i punti oscuri dell’orrido delitto. I due compari – come li chiameranno poi i giudici della Corte di Assise di Appello – incontratisi in via Macello – alla periferia del paese  - si appartarono dietro un grosso albero di noce e quando l’ignaro Bamundo, reduce dal lavoro, passò in compagnia del futuro cognato, Mario De Chiara il Tonziello puntò il fucile sparando tutti i due i colpi di cui esso era carico a brevissima distanza, da vigliacco, alle spalle del suo rivale che ne rimase quasi fulminato. Morì, infatti, solo qualche attimo dopo. Degno di nota – annotarono i magistrati della Sezione Istruttoria – il fatto che le dichiarazioni del Tonziello trovarono integrale conferma nella confessione del correo fatta subito dopo il delitto. Attraverso quindi codesta esplicita e circostanziata confessione avvalorata da tutte le altre risultanze  processuali – si ha la prova precisa ed   indiscutibile che il Tonziello, pervaso da odio implacabile verso il Bamundo – maturò nell’animo suo il  fermo proposito di uccidere ed in tale proposito persistette per lungo tempo fino a quando cioè non eliminò il fastidioso rivale, nella segreta speranza forse, che eliminato il rivale sarebbe riuscito ad indurre la fanciulla amata a corrispondere il suo amore.

Dove lo schiaffo è caparra di morte


L’assassino aveva sì, fatto la proposta di matrimonio alla Giovanna De Chiara – l’avvenente 17enne che i giovane del paese si contendevano  anche con duelli rusticani – ma la stessa lo aveva respinto. Infatti si appurò che dopo il fidanzamento ufficiale il Tonziello aveva aggredito il Bamundo minacciandolo di morte: “Se non lasci quella donna sei un uomo morto”, gli aveva detto.  Ma Michele Bamundo si era difeso e lo aveva schiaffeggiato pubblicamente. Doppio sfregio. Allora devi morire. In quelle zone dell’agro aversano – forse ancora oggi – lo schiaffo è caparra di morte. Minuziosa e puntigliosa fu l’indagine dei rappresentante della Fedelissima, in particolare  del mar. Filomeno Di Terlizzi, del brig. Lazzaro Napolitano e della guardia giurata Francesco Dongiacomo,  (che aveva collaborato con i carabinieri) unitamente al Dr. Paolo Griffo, medico condotto di Trentola che occorso sul luogo del delitto, nonostante ogni cura non aveva potuto salvare il povero giovane,  (colpevole solo di amare una bella ragazza)  fulminato dalla scarica di pallettoni. Terminata la giornata lavorativa, presso il feudo “Madonna del Pianto”, in agro di Giugliano, intenti a potare viti,  in qualità di operaio giornaliero alle dipendenze di Nicola Valente da Trentola, si avviarono per fare ritorno in famiglia. Arrivati a Trentola con il carretto dei fratelli Luigi e Umberto Valente, scesi si avviarono a piedi, uniti,  lungo un  sentiero di campagna che da Trentola  porta a San Marcellino. Sul posto,  dopo gli spari,  accorsero Salvatore Abategiovanni e Giuseppe Picone e Vincenzo D’Aniello di San Marcellino che avevano udito le grida “Madonna…Madonna”.  

Le minacce di lasciare la ragazza altrimenti la morte


Quest’ultimo in particolare, compagno della vittima e dell’assassino  rese una dichiarazione incartata dai giudici: “Posso affermare – disse – che tra i due giovani non correvano buoni rapporti di amicizia pur essendo compagni però si trattavano freddamente. Poiché gli stessi – quattro anni prima – chiesero  di fidanzarsi contemporaneamente con la stessa ragazza  Giovanna De Chiara. Costei rifiutò il Tonziello  accettando la proposta del Bomundo. A seguito di ciò il Tonziello si ingelosì ed un giorno di sera mentre passeggiavamo fecero accese discussioni sul fidanzamento. Ricordo che Tonziello disse al Bamundo: “ Come ti sei permesso di mandare anche tu l’imbasciata a Giovannina, quando sapevi che c’ero io?”. E Bamundo di rimando: “ A te ti ha rifiutato ed io ci sono rimasto”. A tale risposta il Bamundo prese per il petto il Tonziello e gli assestò uno schiaffo. Dopo tale fatto si riappacificarono ma era una pace di facciata. Così per 4 anni. Poi la tragedia.  Ad una precisa domanda sui rapporti dei due fidanzati il D’Aniello precisò: “ Il Bamundo e la De Chiara facevano l’amore all’insaputa dei rispettivi genitori. Circa 20 giorni or sono – mi risulta che il Tonziello approfittando di una divergenza sorta tra le famiglie della De Chiara con quella del Bamundo – in seguito all’avvenuto matrimonio di un fratello del Bamundo con una sorella della De Chiara chiese nuovamente alla signorina Giovannina De Chiara – o meglio alla di lei madre – a mezzo di sua madre di volersi fidanzare con la stessa. Ebbe risposta negativa e cioè gli fu detto dalla madre della ragazza che  per costei era stata data parola a Michele”. Dopo pochi giorni le suddette famiglie si riappacificarono e festeggiarono il fidanzamento ufficiale tra il giovane Michele Bamundo e la signorina Giovannina De Chiara. Cosa questa che valse a rafforzare maggiormente la gelosia del Tonziello. La mamma della vittima – Nicolina Cangiano, opportunamente interrogata – indicava il Tonziello quale autore del delitto conoscendo i precedenti per il fidanzamento della figlia. Raccontò che il figlio Michele,   qualche mese prima del delitto manifestò il desiderio di volersi fidanzare ufficialmente con la ragazza Giovanna De Chiara con la quale amoreggiava nascostamente da circa 4 anni. Lei chiese al figlio del perché di tanta fretta – dovendo egli fare ancora il soldato. Il figlio le rispose di non voler temporeggiare siccome con la stessa ragazza cercava di fidanzarsi il Tonziello. La Cangiano considerando il motivo addotto dal figlio prese accordo con il marito ed uniti si portarono dalla madre della ragazza e così ne avvenne il fidanzamento ufficiale tra i due giovani Michele Bamundo e Giovanna De Chiara. In seguito a ciò il Tonziello rimase male tanto che dopo qualche giorno dal fidanzamento  avvicinò suo figlio avvertendolo che se non  avesse lasciato la ragazza l’avrebbe ammazzato. Ciò la donna l’aveva appreso da suo figlio.

Faccio l’amore da quattro anni e non la lascio


La Cangiano, venuta a conoscenza di tale minaccia, disse al figlio di lasciare libera la fidanzata onde evitare guai in famiglia conoscendo bene la capacità del Tonziello, ma il figlio disse: ”Faccio l’amore da quattro anni e non la lascio”. Quindi – concluse la donna – ha continuato ad amoreggiare. Dal canto suo l’ignara protagonista del delitto la  diciannovenne  Giovanna dichiarò che lei era stata sempre contraria alle richieste di fidanzamento del Tonziello ma di aver preferito Michele Bamundo col quale si era poi di recente fidanzata ufficialmente aggiungendo di aver appreso da quest’ultimo subito dopo il loro fidanzamento  che il Tonziello aveva impedito al Bamundo di continuare ad essere fidanzato con lei minacciandolo di morte perché pretesa di lui. La ragazza nell’apprendere ciò dal fidanzato rispose allo stesso di non dar retta a quell’individuo perchè  “non lo aveva mai pensato”. Tonziello – che continuava negare – messo a confronto  con le accuse della madre della vittima e della fidanzata si difese dicendo che erano tutte menzogne. I carabinieri accertarono che i due  “compari” erano andati al dopolavoro prima e dopo il delitto. Poi la confessione, la chiamata di correità, il prestito dell’arma del delitto. Stessa scena per Melodia. Non conosco i fatti. Poi la confessione. “Sentite- rivolto ai carabinieri – è stato quel fesso (riferito alla confessione del Tonziello) che ha dichiarato tutto il fatto ma io non l’avrei mai detto, anche a costo della vita…pezzo di cretino che non è altro…adesso stiamo freschi a sbrogliare questo imbroglio”. Un imbroglio che è durato 25 anni.


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Nicola Melodia, accusato di concorso in omicidio, veniva condannato ad anni 24 di reclusione. Per Salvatore Tonziello  dopo essere stato internato in manicomio - la condanna fu della  stessa entità.



La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, (Presidente Giovanni Morfino, a latere giudice Luigi D’Avanzo, pubblico ministero Nicola Damiano)  giudicò per omicidio volontario, Salvatore Tonziello,  di anni 21 da San Marcellino, in danno di Michele Bamundo,  di anni 20,  dello stesso suo paese per il delitto avvenuto nella campagna di Trentola il 29 gennaio del 1947. All’inizio del dibattimento la Corte ordinava la  sospensione del procedimento nei confronti del Tonziello che per aver dato segni di sospetta alienazione mentale sopravvenuta era stato ricoverato nel manicomio di Aversa. Proseguiva, così, il dibattimento nei confronti di Nicola Melodia, accusato di concorso in omicidio, che con sentenza 18 dicembre del 1950 veniva condannato ad anni 24 di reclusione. Sentenza confermato in appello il 20 maggio del 1953 per l’omicidio con la esclusione delle aggravanti. Successivamente -  in seguito a rapporto della direzione del manicomio con cui si riferiva che le condizioni mentali del Tonziello erano tornate normali – e che i disturbi in precedenza accusati dipendevano da psicosi carceraria (il cosiddetto morbo di Ganser che affligge un poco tutti i neofiti alla prima esperienza carceraria) veniva revocato l’ordine di sospensione del procedimento. 


 Comparso quindi innanzi alla Corte di Assise pur non confermando di essere stato sottoposto a violenze da parte dei carabinieri dichiarò che effettivamente fu istigato dal Melodia e che si era recato insieme con lui sulla strada che il Bamundo doveva percorrere. La condanna fu di anni 24 e di tre anni di sorveglianza a pena espiata. Attraverso i difensori il Tonziello propose appello adducendo che doveva essere condannato per omicidio preterintenzionale che gli doveva essere riconosciuto il vizio parziale di mente, la concessione delle attenuanti generiche e la diminuzione della pena Il Pubblico Ministero, invece, aveva prospettato  la conferma della sentenza “sic et sepliciter”  La Corte di Assise di Appello (Presidente Filippo D’Errico, giudice a latere Giuseppe Conti, procuratore generale Luigi De Magistris,  il nonno dell’attuale sindaco di Napoli) il 6 dicembre del 1957,  osservò che l’appello andava rigettato perché destituito da ogni fondamento. La volontà dell’imputato – scrissero i giudici di secondo grado – sia stata quella dio uccidere e non  già quella di ferire solamente. Lui confessò nel primo interrogatorio di essere fortemente contrariato per la miglior fortuna che nei suoi confronti aveva avuto il suo rivale in amore Michele Bamundo decise senz’altro di sopprimerlo. E incontratosi la sera del 18 gennaio col suo degno compare Nicola Melodia confidò a costui il suo proposito omicida. Questi resosi conto della volontà dell’altro assicurò che gli avrebbe potuto fornire il proprio fucile. Erano ciascuno nelle proprie decisioni stabilirono di incontrarsi la  sera dopo nei locali dell’ex Dopolavoro, da dove poi avrebbero raggiunto il luogo prescelto per l’agguato al fine di compiere il delitto. Ritrovatisi infatti la sera dopo all’ora convenuta nei locali del Dopolavoro stabilivano il Tonziello di avviarsi verso il luogo prescelto per la perpetrazione del delitto ed il Melodia di passare prima per casa sua per rilevare il fucile e quindi raggiungere il compagno in quel luogo – vale a dire in via Macello alla periferia del paese. La Corte di Assise di Appello confermò la prima condanna e la Corte Suprema di Cassazione  26 aprile del 1958,  dichiarò inammissibile il relativo ricorso. Gli avvocati impegnati furono: Vito Califano, Enrico Altavilla, Giuseppe Garofalo, Alfredo De Marsico e Ciro Maffuccini. 

Fonte: Archivio di Stato di Caserta
 











  

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