UCCISE IL FIDANZATO DELLA FIGLIA CHE SCAPPAVA DAL GIARDINO DI CASA DOPO UNA
NOTTE D’AMORE
Due colpi di pistola sparati da Ferdinando
Messina all’indirizzo del giovane Luigi Di Fraia di anni 20, posero fine ad un idillio da Giulietta e Romeo. Accadde a Casaluce il 30
luglio del 1949
Un documento inedito. Il verbale della
costituzione dell’assassino Ferdinando
Messina (che uccise il fidanzato della figlia) redatto di pugno dal
procuratore della repubblica Girolamo
Tartaglione, allora sostituto
procuratore della Repubblica a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice Tartaglione il
10 ottobre 1978 venne assassinato a colpi di pistola da un gruppo di fuoco
delle Brigate Rosse nell’ingresso della sua abitazione mentre, rientrato dal
lavoro al Ministero, stava per entrare in ascensore. Due uomini, identificati
in sede giudiziaria in Alessio Casimirri, nome di
battaglia “Camillo”, e Alvaro Lojacono “Otello”,
aprirono il fuoco a distanza ravvicinata e lo colpirono mortalmente alla testa.
Del nucleo brigatista facevano parte con funzione di copertura anche Adriana Faranda e Massimo Cianfanelli. L’omicidio venne rivendicato con un volantino
recapitato presso la sede romana del “Corriere della Sera”.
Avv. Prof. Alberto Martucci |
La storia
Aversa-Casaluce – Alle ore 8 circa del 17 novembre del 1948, in Casaluce
in prossimità del passaggio a livello della Ferrovia Alifana tal Ferdinando Messina di anni 45 esplodeva
all’indirizzo del giovane Luigi Di Fraia
di anni 20, due colpi di pistola attingendolo al 7° spazio intercostale
posteriore. Il proiettile provocava la frattura del corpo del vertebre e ledeva
il midollo spinale. I sanitari dell’Ospedale “Incurabili” di Napoli dove il Di
Fraia veniva ricoverato d’urgenza, riscontravano una periplagia agli arti. Dalla
lesione del midollo procedeva la paralisi degli sfintea rettale e verticale.
Sottoposto a tutte le cure suggerite dalla scienza medica il Di Fraia non
traeva dalle stesse alcun godimento tanto da essere dimesso in condizioni
invariate dall’Ospedale Cardarelli dove era stato successivamente internato
dopo sette mesi di degenza. La sollecitazione dei congiunti tentò l’impossibile.
Il Di Fraia venne ricoverato infatti nell’Istituto Ortopedico Rizzoli di
Bologna per le protesi e per la rieducazione fissa degli arti. Nel marzo del
1950 le condizioni generali del degente iniziarono a decadere rapidamente per
l’insorgere di fatti settici non contenuti neppure dal ricorso degli
antibiotici. Riaffidato ai familiari il
giovane decedette in Casaluce il 3 aprile del 1950. I periti settori al termine
di elaborate indagini scientifiche affermarono che la morte fu determinata da setticopiemia conseguita a cistopichite traente origine a sua volta dalla paralisi
midollare prodotta dal trauma inferto al giovane dal Messina. In ordine ai
fatti si accertava che il Di Fraia da molti anni amoreggiava con la figliuola
del Messina, Maria contro l’espresso
divieto dei genitori della ragazza i quali aspiravano ad un partito migliore
nell’interesse di lei. Il giovane aveva avanzato le sue rischiose direttamente
e tramite interlocutori senza tuttavia vincere le resistenze dei coniugi Massina.
La
ragazza di notte scendeva con una scala in giardino e restava in colloquio
amoroso con il fidanzato
La
fanciulla dal canto suo – corrispondeva teneramente la Passione del Di Fraia ed
aveva in proposito manifestato alla madre – ripetutamente – il suo punto di
vista opponendo alla repressione talvolta violenta dei genitori un contegno
risoluto di ribellione. L’ostinazione dei due innamorati aveva indotto il
Messina a circondare la ragazza di una assidua vigilanza intesa a disarmare lo
spirito dei giovani ed ricondurre la Maria all’osservanza dei programmi
paterni. La sera nel 16 novembre del 1948 la moglie del Messina, Raffaella Sorgente, che era con i
familiari già a letto da tempo, si avvedeva che la lampada - che di notte costantemente illuminava la
camera della figliuola – era spenta. Presa dal sospetto, ella si portò nella
camera suddetta e costatò che la Maria si era allontanata di casa dopo d’avere
svitato la lampada. La Sorgente
svegliava il marito ed usciva sul passetto esterno. Mentre la giovinetta –
risaliva – in quel preciso istante dal sottostante cortile ed alle violenti
proteste della genitrice dichiarava di ver avvertito – mentre era a letto – un improvviso
malessere di cattiva digestione. Chiaramente una scusa per distrarre la madre
che l’aveva colta in flagranza di reato
d’amore.
A
quei tempi una ragazza che coltivava una relazione del genere era considerata
una svergognata.
Spiegò
che nella circostanza era uscita all’esterno per respirare un po’ d’aria fresca
e ristabilirsi dal disturbo. Poiché la circostanze denunciavano chiaramente il
trascorso, la ragazza fu aspramente rampognata e minacciata di più gravi
sanzioni. Il genitore le ingiungeva – addirittura – di allontanarsi
definitivamente dalla casa paterna. Il giorno successivo,
di buon’ora, il Messina - che
aveva trascorso una notte insonne ed agitata – aveva ripetuto alla figliuola di
andare via e di non farsi più vedere – uscì di casa e raggiunse la piazza nelle
cui adiacenze aveva la bottega di carpentiere. Non iniziò neppure il suo lavoro
ma si pose di vedetta di prospetto al vicolo nel quale era l’abitazione del di
Fraia. In questo atteggiamento fu notato
da talune persone che confermarono la circostanza ai carabinieri e al
magistrato inquirente. Un’ora dopo,
avvistato il Luigi Di Fraia – che
dal vicolo si portava nella piazza dirigendosi in compagnia di Vincenzo Picone, verso la via
principale che mena a Teverola – il Massina attese che i due si avvicinassero per
imboccare il passaggio a livello. Intimò quindi al Picone di spostarsi dal di
Fraia e fulmineamente esplose contro costui – nell’intervallo di pochi secondi
– due colpi di pistola. Il giovane, attinto, si abbatté al suolo invocando soccorso. Poi il
Messina si allontanò rendendosi irreperibile.
L’assassino, vindice dell’onore della figlia?, si costituì al magistrato inquirente
Il
mandato di cattura spiccato contro di lui -
inizialmente per tentato omicidio – restava ineseguito per molti mesi. Il
30 luglio il 1949 il colpevole si costituiva al Procuratore della Repubblica
del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e quindi veniva associato alle locali
carceri. Nel suo primo interrogatorio
dichiarò di essere stato indotto a sparare contro il Di Fraia in quanto costui
– che non godeva delle sue simpatie per la protervia che palesava quella
mattina – l’indomani cioè di quel notturno convegno d’amore avuto con la
figliuola Maria – nel passargli
accanto gli sorrise beffardamente. Le continue amarezze che il giovane gli
aveva cagionato – insidiando la sua casa onorata – taluni episodi trascorsi che
gli avevano rivelato quanta infamia fosse nel di Fraia il quale ad ogni costo
voleva portargli via la figliuola, erano impetuosamente riemersi nella sua
coscienza irresistibilmente dominato il suo dinamismo psichico. Egli aveva
sparato convulsamente senza tuttavia essere animato da una precisa volontà
d’uccidere il nemico. Dichiarava di avere – nella notte che precedette il
mattino del delitto – riconosciuto distintamente il Di Fraia in fuga nella
sorpresa operata dalla moglie nei confronti degli innamorati in clandestina
dimestichezza. Da tempo, per talune confidenze, ed avvertimenti ricevuti – egli
e la moglie erano in allarme ed in apprensione paventando che il Di Faia - come avrebbe egli stesso dichiarato a terzi
– inducesse la ragazza a fuggire con lui. Le cautele non erano mancate. La
giovane non usciva più sola. La sua
camera da letto di notte restava
illuminata.
La
ragazza scese nel giardino per l’incontro amoroso in vestaglia trasparente
Quell’ultima
sera la Maria, prima di uscire di casa
aveva svitato la lampada ed aveva fatto in modo di poter passare la porta
d’ingresso dall’esterno. Era quindi discesa nel cortile in veletta estremamente
succinta sotto indossava un body sexy e seducente, in tessuto leggermente
trasparente con bellissimo pizzo nero. L’indagine istruttoria acquisiva
ulteriori circostanze sul fatto. Il Messina mentre si attardava nell’attesa del
Di Fraia – si incontrò col padre del giovane ma nulla gli disse. Il maniscalco
(quello che metteva gli zoccoli ai cavalli era un mestiere d’oro all’epoca) Antonio Di Martino – la cui bottega era
nella piazza in cui si perpetrò il delitto – notò che il Massina che era
manifestamente in attesa di qualcuno – come poteva desumersi dal fatto che egli
guardava continuamente or qua or là,
perché nulla gli sfuggisse di quanto gli accadeva intorno. La testimone Lucia Dello Iacono – riferì
dell’esultanza della Sorgente (moglie dell’assassino) nell’apprendere il
ferimento del Di Fraia. L’altra teste Filomena
Giangrande, riferiva che essendo
la nipote Maria Messina rifugiata presso
di lei – dopo il delitto fu avvicinata da tale Angelina Maria Colella la quale le chiese se, dovendo essere
interrogata dai carabinieri avesse potuto dire – per giovare alla causa
dell’omicida – di avere sorpresa più volte la giovane a colloquio col fidanzato
di notte. Al che la Maria, indignatissima oppose un netto rifiuto. Escusse dal
magistrato la Sorgente – moglie dell’assassino - dichiarava di non aver visto
il di Fraia quella notta pur sospettando che i due giovani si fossero
incontrati come doveva evincersi dal complesso delle restanti circostanze.
Avv. Prof. Giovanni Porzio |
Gli avvocati tentarono di far passare per
pazzo l’assassino ma sostenevano anche che la morte era dovuta a malattia e non
ai colpi di pistola
La
Maria Messina insistette nell’assunto di essere uscita di casa al solo scopo prendere
una boccata d’aria avvertendo un disturbo gastrico. Ammetteva di aver nutrito
per il giovane Di Fraia un vivo trasporto e di aver sempre perseguito l’onesto
intendimento di congiungersi in matrimonio con lo stesso contro
l’ingiustificato dissenso dei genitori. L’ispezione corporale della giovane
accertava la sua “verginità”. A richiesta della difesa il Messina
veniva sottoposto a perizia psichiatrica sul fondamento che alcuni dati
anamnestici personali essendo stato il Messina esonerato in giovane età dal
servizio militare perché affetto da stato depressivo e risultando che dei sei
fratelli di lui, tre decedettero per tubercolosi (T.B.C.) ed un quarto, Angelina era ricoverata al quel tempo
presso l’Ospedale Psichiatrico di Aversa per idiozia. Il perito psichiatrico, Dr. Mario
Freda, pur riscontrando una certa labilità nei poteri inibitori nel
soggetto periziato – escludeva che lo stesso potesse definirsi “inferno di mente”, attenendo il suo
caso più alla psicologia che alla psichiatria. La difesa (è un classico!)
presentava infine una relazione di consulenza tecnica in rapporto all’asserita
sussistenza del nesso causale fisico tra evento letale conclusivo ed azione traumatizzante
riferibile al Messina. Il consulente tecnico di parte Dr. Giuseppe Cogliandro, metteva in dubbio la sussistenza del predetto
nesso causale in quanto la setticopiemìa che
cagionò la morte del Di Fraia non univocalmente può collegarsi attraverso piomfrosi riscontrata al tavolo anatomico, ad una
pretesa cistiplichite procedente della paralisi verticale. “Nel difetto di tempestive categoriche
indagini in argomento – scrisse
ancora nella sua relazione il Dr. Cogliandro
– il prudente consiglio del giudice dovrebbe arrestarsi all’inquietante
interrogativo che l’accertata calcolosi renale pone alla indagine, in virtù di
un fermo ed enunciato scientifico alla
stregua del quale pionefrasi può procedere anche dalla calcolosi renale”.
La Corte di Assise con le
attenuanti della provocazione
lo condannò ad anni 17 di
reclusione. In appello, con il riconoscimento delle attenuanti generiche la
condanna fu ad anni 10 di reclusione.
La
Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli, a chiusura della
complessa indagine, disattendeva alle deduzioni difensive ed ordinava il rinvio
a giudizio di Ferdinando Messina, di anni
46 da Casaluce, arrestato il 30 luglio del 1949, e accusato per avere, con premeditazione,
esploso più colpi di arma da fuoco contro Luigi
Di Fraia cagionandone la morte, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere (Presidente Pasquale De Lise, giudice a latere, Victor Ugo De Donato, pubblico ministero Pasquale Allegretti. Giudici popolari: Emiddio Farina, Riccardo Curzio,
Pasquale Auriemma, Gennaro Cervo,
Gaetano Papa, Vincenzo Fava, Andrea Gentile. In apertura del dibattimento, Maria Domenica Rigliaco, madre dell’ucciso, si costituì parte civile. Nella prima
udienza – forse per continuare a
simulare o di tentare di avere una perizia favorevole per infermità mentale
negatagli in istruttoria – il Messina dichiarava di non essere in grado di
riferire sulle modalità e circostanze del fatto in quanto nulla ricordava.
Ascoltata la lettura delle proprie dichiarazioni - rese nei precedenti
interrogatori – le confermava totalmente. Affermava di aver visto il Di Fraia
la notte del 16 novembre fuggire attraverso il cortile illuminato dai raggi
lunari; di essere stato intimamente ferito – la mattina del delitto – dal riso
di scherno rumorosamente lanciatogli contro dal giovane fidanzato della figlia
Maria; di aver sparato per improvvisa
determinazione senza voler uccide il Di Fraia. La figlia Maria Messina, contrariamente a quanto
aveva dichiarato in istruttoria, affermava che ella usava incontrarsi di notte
col fidanzato e che le discolpe opposte alla madre, quell’ultima notte, erano
state una semplice scusa. Il teste Antonio
Di Martino, dal canto suo – ritrattava talune circostanze della sua
precedente deposizione, negando di aver detto al Giudice Istruttore di aver visto il Messina girarsi
continuamente intorno come se aspettasse qualcuno e di avere altresì notato il
Messina nell’atto in cui gli aveva girato le spalle come per non farsi
riconoscere. In relazione alla circostanza riferita dall’imputato – della
risata di scherno rivoltagli dal Di Fraia -
deponeva contestandola Vincenzo
Picone che era in compagnia del giovane al momento degli spari. Su richiesta
del pubblico ministero la Corte disponeva una udienza riservata ai chiarimenti dei periti settori dottori Giovanni
Pozzuoli e Mario Pugliese ed autorizzava la difesa a far intervenire –
nel dibattimento il consulente tecnico. Furono anche ascoltati altri consulenti e testimoni: il mar. Arturo Pagnozzi, comandante la Stazione
di Casaluce, i periti Dott.ri Ettore
Ambrogi, Clemente Enselmi e il
direttore del manicomio di Aversa Dr. Giulio
Freda. Tutti insistevano nelle proprie tesi. Al termine
della sua requisitoria il pubblico ministero con la esclusione della aggravante
della premeditazione chiedeva condannarsi il Messina ad anni 25 di reclusione.
I difensori insistevano sul nesso casuale (tra l’evento e l’azione del
colpevole); esclusione della volontà omicida, della premeditazione e la
concessione delle attenuanti dei particolari motivi di valore morale e sociale,
delle attenuanti generiche ed in subordine del vizio parziale di mente. La
Corte ritenne la esclusione del nesso causale, della volontà omicida, della
premeditazione, del particolare valore morale e sociale, del vizio parziale di
mente. Accolse la richiesta delle attenuanti della provocazione e la condanna
fu ad anni 17 di reclusione. In sede di Appello la Corte di Assise (Presidente Giulio La Marca, giudice a latere Antonio Grieco, pubblico
ministero procuratore generale Tito Manlio Bellini), con sentenza del 21 marzo 1953, dopo la
requisitoria con la richiesta delle
attenuanti generiche ed una condanna ad anni 15 mesi 6; e dopo le
arringhe degli avvocati: Alberto
Martucci, Luciano Numeroso e Giovanni Porzio, con il riconoscimento delle attenuanti
generiche una condanna ad anni 10 di reclusione.
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