Translate

domenica 27 settembre 2015










UCCISE IL FIDANZATO DELLA  FIGLIA  CHE SCAPPAVA DAL GIARDINO DI CASA DOPO UNA NOTTE D’AMORE


Due colpi  di pistola sparati da  Ferdinando Messina  all’indirizzo del giovane Luigi Di Fraia di anni 20,  posero fine ad un idillio da Giulietta e Romeo. Accadde a Casaluce il 30 luglio del 1949


  
Un documento inedito. Il verbale della costituzione dell’assassino Ferdinando Messina (che uccise il fidanzato della figlia) redatto di pugno dal procuratore della repubblica Girolamo Tartaglione, allora  sostituto procuratore della Repubblica Santa Maria Capua Vetere. Il giudice Tartaglione il 10 ottobre 1978 venne assassinato a colpi di pistola da un gruppo di fuoco delle Brigate Rosse nell’ingresso della sua abitazione mentre, rientrato dal lavoro al Ministero, stava per entrare in ascensore. Due uomini, identificati in sede giudiziaria in Alessio Casimirri, nome di battaglia “Camillo”, e Alvaro Lojacono “Otello”, aprirono il fuoco a distanza ravvicinata e lo colpirono mortalmente alla testa. Del nucleo brigatista facevano parte con funzione di copertura anche Adriana Faranda e Massimo Cianfanelli.  L’omicidio venne rivendicato con un volantino recapitato presso la sede romana del “Corriere della Sera”.

  

Avv. Prof. Alberto Martucci

 



La storia

Aversa-Casaluce – Alle ore 8 circa del 17 novembre del 1948, in Casaluce in prossimità del passaggio a livello della Ferrovia Alifana tal Ferdinando Messina di anni 45 esplodeva all’indirizzo del giovane Luigi Di Fraia di anni 20, due colpi di pistola attingendolo al 7° spazio intercostale posteriore. Il proiettile provocava la frattura del corpo del vertebre e ledeva il midollo spinale. I sanitari dell’Ospedale “Incurabili” di Napoli dove il Di Fraia veniva ricoverato d’urgenza, riscontravano una periplagia agli arti. Dalla lesione del midollo procedeva la paralisi degli sfintea rettale e verticale. Sottoposto a tutte le cure suggerite dalla scienza medica il Di Fraia non traeva dalle stesse alcun godimento tanto da essere dimesso in condizioni invariate dall’Ospedale Cardarelli dove era stato successivamente internato dopo sette mesi di degenza. La sollecitazione dei congiunti tentò l’impossibile. Il Di Fraia venne ricoverato infatti nell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna per le protesi e per la rieducazione fissa degli arti. Nel marzo del 1950 le condizioni generali del degente iniziarono a decadere rapidamente per l’insorgere di fatti settici non contenuti neppure dal ricorso degli antibiotici.  Riaffidato ai familiari il giovane decedette in Casaluce il 3 aprile del 1950. I periti settori al termine di elaborate indagini scientifiche affermarono che la morte fu determinata da setticopiemia conseguita a cistopichite  traente origine a sua volta dalla paralisi midollare prodotta dal trauma inferto al giovane dal Messina. In ordine ai fatti si accertava che il Di Fraia da molti anni amoreggiava con la figliuola del Messina, Maria contro l’espresso divieto dei genitori della ragazza i quali aspiravano ad un partito migliore nell’interesse di lei. Il giovane aveva avanzato le sue rischiose direttamente e tramite interlocutori senza tuttavia vincere le resistenze dei coniugi   Massina.

La ragazza di notte scendeva con una scala in giardino e restava in colloquio amoroso con il fidanzato

La fanciulla dal canto suo – corrispondeva teneramente la Passione del Di Fraia ed aveva in proposito manifestato alla madre – ripetutamente – il suo punto di vista opponendo alla repressione talvolta violenta dei genitori un contegno risoluto di ribellione. L’ostinazione dei due innamorati aveva indotto il Messina a circondare la ragazza di una assidua vigilanza intesa a disarmare lo spirito dei giovani ed ricondurre la Maria all’osservanza dei programmi paterni. La sera nel 16 novembre del 1948 la moglie del Messina, Raffaella Sorgente, che era con i familiari già a letto da tempo, si avvedeva che la lampada -  che di notte costantemente illuminava la camera della figliuola – era spenta. Presa dal sospetto, ella si portò nella camera suddetta e costatò che la Maria si era allontanata di casa dopo d’avere svitato la lampada.  La Sorgente svegliava il marito ed usciva sul passetto esterno. Mentre la giovinetta – risaliva – in quel preciso istante dal sottostante cortile ed alle violenti proteste della genitrice dichiarava di ver avvertito – mentre era a letto – un improvviso malessere di cattiva digestione. Chiaramente una scusa per distrarre la madre che l’aveva colta in flagranza di reato d’amore.

A quei tempi una ragazza che coltivava una relazione del genere era considerata una svergognata.


Spiegò che nella circostanza era uscita all’esterno per respirare un po’ d’aria fresca e ristabilirsi dal disturbo. Poiché la circostanze denunciavano chiaramente il trascorso, la ragazza fu aspramente rampognata e minacciata di più gravi sanzioni. Il genitore le ingiungeva – addirittura – di allontanarsi definitivamente dalla casa paterna. Il giorno   successivo,   di buon’ora,   il Messina - che aveva trascorso una notte insonne ed agitata – aveva ripetuto alla figliuola di andare via e di non farsi più vedere – uscì di casa e raggiunse la piazza nelle cui adiacenze aveva la bottega di carpentiere. Non iniziò neppure il suo lavoro ma si pose di vedetta di prospetto al vicolo nel quale era l’abitazione del di Fraia. In questo atteggiamento  fu notato da talune persone che confermarono la circostanza ai carabinieri e al magistrato inquirente. Un’ora dopo,  avvistato  il Luigi Di Fraia – che dal vicolo si portava nella piazza dirigendosi in compagnia di Vincenzo Picone, verso la via principale che mena a Teverola – il Massina attese che i due si avvicinassero per imboccare il passaggio a livello. Intimò quindi al Picone di spostarsi dal di Fraia e fulmineamente esplose contro costui – nell’intervallo di pochi secondi – due colpi di pistola. Il giovane, attinto,  si abbatté al suolo invocando soccorso. Poi il Messina si allontanò rendendosi irreperibile.

L’assassino,  vindice dell’onore della figlia?,  si costituì al magistrato inquirente

Il mandato di cattura spiccato contro di lui -  inizialmente per tentato omicidio – restava ineseguito per molti mesi. Il 30 luglio il 1949 il colpevole si costituiva al Procuratore della Repubblica del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e quindi veniva associato alle locali carceri.  Nel suo primo interrogatorio dichiarò di essere stato indotto a sparare contro il Di Fraia in quanto costui – che non godeva delle sue simpatie per la protervia che palesava quella mattina – l’indomani cioè di quel notturno convegno d’amore avuto con la figliuola Maria – nel passargli accanto gli sorrise beffardamente. Le continue amarezze che il giovane gli aveva cagionato – insidiando la sua casa onorata – taluni episodi trascorsi che gli avevano rivelato quanta infamia fosse nel di Fraia il quale ad ogni costo voleva portargli via la figliuola, erano impetuosamente riemersi nella sua coscienza irresistibilmente dominato il suo dinamismo psichico. Egli aveva sparato convulsamente senza tuttavia essere animato da una precisa volontà d’uccidere il nemico. Dichiarava di avere – nella notte che precedette il mattino del delitto – riconosciuto distintamente il Di Fraia in fuga nella sorpresa operata dalla moglie nei confronti degli innamorati in clandestina dimestichezza. Da tempo, per talune confidenze, ed avvertimenti ricevuti – egli e la moglie erano in allarme ed in apprensione paventando che il Di Faia  - come avrebbe egli stesso dichiarato a terzi – inducesse la ragazza a fuggire con lui. Le cautele non erano mancate. La giovane non usciva più sola. La sua   camera da letto  di notte restava illuminata.

La ragazza scese nel giardino per l’incontro amoroso in vestaglia trasparente

Quell’ultima sera la Maria,  prima di uscire di casa aveva svitato la lampada ed aveva fatto in modo di poter passare la porta d’ingresso dall’esterno. Era quindi discesa nel cortile in veletta estremamente succinta sotto indossava un  body sexy e seducente, in tessuto leggermente trasparente con bellissimo pizzo nero. L’indagine istruttoria acquisiva ulteriori circostanze sul fatto. Il Messina mentre si attardava nell’attesa del Di Fraia – si incontrò col padre del giovane ma nulla gli disse. Il maniscalco (quello che metteva gli zoccoli ai cavalli era un mestiere d’oro all’epoca) Antonio Di Martino – la cui bottega era nella piazza in cui si perpetrò il delitto – notò che il Massina che era manifestamente in attesa di qualcuno – come poteva desumersi dal fatto che egli guardava continuamente or qua or là,  perché nulla gli sfuggisse di quanto gli accadeva intorno. La testimone Lucia Dello Iacono – riferì dell’esultanza della Sorgente (moglie dell’assassino) nell’apprendere il ferimento del Di Fraia. L’altra teste Filomena Giangrande, riferiva che essendo la nipote Maria Messina rifugiata presso di lei – dopo il delitto fu avvicinata da tale Angelina Maria Colella la quale le chiese se, dovendo essere interrogata dai carabinieri avesse potuto dire – per giovare alla causa dell’omicida – di avere sorpresa più volte la giovane a colloquio col fidanzato di notte. Al che la Maria, indignatissima oppose un netto rifiuto. Escusse dal magistrato la Sorgente – moglie dell’assassino - dichiarava di non aver visto il di Fraia quella notta pur sospettando che i due giovani si fossero incontrati come doveva evincersi dal complesso delle restanti circostanze.
Avv. Prof. Giovanni Porzio 


 Gli avvocati tentarono di far passare per pazzo l’assassino ma sostenevano anche che la morte era dovuta a malattia e non ai colpi di pistola

La Maria Messina insistette nell’assunto di essere uscita di casa al solo scopo prendere una boccata d’aria avvertendo un disturbo gastrico. Ammetteva di aver nutrito per il giovane Di Fraia un vivo trasporto e di aver sempre perseguito l’onesto intendimento di congiungersi in matrimonio con lo stesso contro l’ingiustificato dissenso dei genitori. L’ispezione corporale della giovane accertava la sua “verginità”. A richiesta della difesa il Messina veniva sottoposto a perizia psichiatrica sul fondamento che alcuni dati anamnestici personali essendo stato il Messina esonerato in giovane età dal servizio militare perché affetto da stato depressivo e risultando che dei sei fratelli di lui, tre decedettero per tubercolosi (T.B.C.) ed un quarto, Angelina era ricoverata al quel tempo presso l’Ospedale Psichiatrico di Aversa per idiozia. Il perito psichiatrico, Dr. Mario Freda, pur riscontrando una certa labilità nei poteri inibitori nel soggetto periziato – escludeva che lo stesso potesse definirsi “inferno di mente”, attenendo il suo caso più alla psicologia che alla psichiatria. La difesa (è un classico!) presentava infine una relazione di consulenza tecnica in rapporto all’asserita sussistenza del nesso causale fisico tra evento letale conclusivo ed azione traumatizzante riferibile al Messina. Il consulente tecnico di parte Dr. Giuseppe Cogliandro, metteva in dubbio la sussistenza del predetto nesso causale in quanto la setticopiemìa che cagionò la morte del Di Fraia non univocalmente può collegarsi attraverso piomfrosi  riscontrata al tavolo anatomico, ad una pretesa cistiplichite  procedente della paralisi verticale. “Nel difetto di tempestive categoriche indagini  in argomento – scrisse ancora nella sua relazione il Dr. Cogliandro – il prudente consiglio del giudice dovrebbe arrestarsi all’inquietante interrogativo che l’accertata calcolosi renale pone alla indagine, in virtù di un fermo ed enunciato  scientifico alla stregua del quale pionefrasi può procedere anche dalla calcolosi renale”.




 La Corte di Assise con le  attenuanti della provocazione  lo  condannò ad anni 17 di reclusione. In appello, con il riconoscimento delle attenuanti generiche la condanna fu ad anni 10   di reclusione.


La Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli, a chiusura della complessa indagine, disattendeva alle deduzioni difensive ed ordinava il rinvio a giudizio di  Ferdinando Messina,   di anni 46 da  Casaluce,  arrestato il 30 luglio del 1949,  e accusato per avere, con premeditazione, esploso più colpi di arma da fuoco contro Luigi Di Fraia cagionandone la morte, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere  (Presidente Pasquale De Lise, giudice a latere, Victor Ugo De Donato,  pubblico ministero Pasquale Allegretti. Giudici popolari: Emiddio Farina,  Riccardo Curzio, Pasquale Auriemma,  Gennaro Cervo, Gaetano Papa, Vincenzo Fava, Andrea Gentile. In apertura del dibattimento, Maria Domenica Rigliaco,  madre dell’ucciso,  si costituì parte civile. Nella prima udienza  – forse per continuare a simulare o di tentare di avere una perizia favorevole per infermità mentale negatagli in istruttoria – il Messina dichiarava di non essere in grado di riferire sulle modalità e circostanze del fatto in quanto nulla ricordava. Ascoltata la lettura delle proprie dichiarazioni - rese nei precedenti interrogatori – le confermava totalmente. Affermava di aver visto il Di Fraia la notte del 16 novembre fuggire attraverso il cortile illuminato dai raggi lunari; di essere stato intimamente ferito – la mattina del delitto – dal riso di scherno rumorosamente lanciatogli contro dal giovane fidanzato della figlia Maria; di aver sparato per improvvisa  determinazione senza voler uccide il Di Fraia. La figlia Maria Messina, contrariamente a quanto aveva dichiarato in istruttoria, affermava che ella usava incontrarsi di notte col fidanzato e che le discolpe opposte alla madre, quell’ultima notte, erano state una semplice scusa. Il teste Antonio Di Martino, dal canto suo – ritrattava talune circostanze della sua precedente deposizione, negando di aver detto al Giudice  Istruttore di aver visto il Messina girarsi continuamente intorno come se aspettasse qualcuno e di avere altresì notato il Messina nell’atto in cui gli aveva girato le spalle come per non farsi riconoscere. In relazione alla circostanza riferita dall’imputato – della risata di scherno rivoltagli dal Di Fraia -  deponeva contestandola Vincenzo Picone che era in compagnia del giovane al momento degli spari. Su richiesta del pubblico ministero la Corte disponeva una udienza riservata ai  chiarimenti dei periti settori  dottori Giovanni Pozzuoli e Mario Pugliese  ed autorizzava la difesa a far intervenire – nel dibattimento il consulente tecnico. Furono anche ascoltati altri  consulenti e testimoni: il mar. Arturo Pagnozzi, comandante la Stazione di Casaluce, i periti Dott.ri Ettore Ambrogi,    Clemente Enselmi e il direttore del manicomio di Aversa Dr. Giulio Freda. Tutti   insistevano nelle proprie tesi. Al termine della sua requisitoria il pubblico ministero con la esclusione della aggravante della premeditazione chiedeva condannarsi il Messina ad anni 25 di reclusione. I difensori insistevano sul nesso casuale (tra l’evento e l’azione del colpevole); esclusione della volontà omicida, della premeditazione e la concessione delle attenuanti dei particolari motivi di valore morale e sociale, delle attenuanti generiche ed in subordine del vizio parziale di mente. La Corte ritenne la esclusione del nesso causale, della volontà omicida, della premeditazione, del particolare valore morale e sociale, del vizio parziale di mente. Accolse la richiesta delle attenuanti della provocazione e la condanna fu ad anni 17 di reclusione. In sede di Appello la Corte di Assise (Presidente Giulio La Marca,  giudice a latere Antonio Grieco,  pubblico ministero  procuratore generale Tito Manlio Bellini), con  sentenza del 21 marzo 1953, dopo la requisitoria con la richiesta delle  attenuanti generiche ed una condanna ad anni 15 mesi 6; e dopo le arringhe degli avvocati: Alberto Martucci, Luciano Numeroso e Giovanni Porzio,  con il riconoscimento delle attenuanti generiche una condanna  ad anni 10   di reclusione.










  

Nessun commento:

Posta un commento