FRANCESCO CORVINO
UCCISE FRANCESCO BORRATO E TENTO’ DI
UCCIDERE IL FRATELLO
Sparatoria con morti e feriti tra due
carretti alla rotonda di Villa Literno. Alla base della vendetta vecchi rancori
familiari e la mala gestione delle
vasche di macerazione della canapa.
Accadde il 23 settembre del 1950 a Villa Literno
Villa
Literno – Mezzogiorno di fuoco nella pubblica piazza. Da due carretti una
sparatoria con un morto e due feriti. Il motivo: dissidi per la maturazione
della canapa in una vasca. I carabinieri di Villa Literno, il 5 settembre del
1950, segnalavano al pretore di Trentola
che il giorno prima, in località “Torre
del Monaco”, Francesco Borrato, di
Vincenzo, per futili motivi esplodeva a
vuoto contro Francesco Corvino di
Salvatore, sei colpi di fucile da
caccia. Il Borrato, subito dopo si
allontanava per ignota destinazione portandosi
l’arma appartenente al Corvino di cui si era servito per commettere il
delitto predetto. Alle 16:30 del detto il giorno Borrato stesso, transitando nella piazza del quadrivio di Villa Literno, in compagnia del fratello Antonio a bordo di un carretto, si imbatteva in Francesco Corvino e del padre di questi
a nome Salvatore montati su di un birroccio
dall’altra parte della strada. Una violenta sparatoria aveva luogo tra i
predetti essendo armati il Corvino padre, di fucile, il figlio di pistola automatica, il Borrato
Antonio di pistola a tamburo e
Francesco Borrato di fucile. Quest’ultimo,
colpito mortalmente, fu visto abbattersi al suolo. Mentre i due Corvino si
allontanavano con lo stesso birroccio, Antonio
Borrato, impossessatosi del fucile che trovavasi accanto al fratello
Francesco si portava nell’abitazione dei Corvino e quivi esplodeva, per
vendetta, due colpi contro Elisa Schiavone,
moglie di Salvatore Corvino
senza però colpirla. Le indagini di polizia giudiziaria di cui al rapporto del
settembre e quelle espletate in sede di istruzione formale in merito ai gravi
episodi, diedero il retroscena di sconcertanti risultati. Il movente della
cruenta sparatoria fu così ricostruito. Per la mancanza di uno dei due operai
addetti alla vasca di macerazione di proprietà di Salvatore Corvino, e di cui
previo pagamento si serviva anche Francesco Borrata, questi aveva personalmente
atteso alla rimozione della propria canapa nella vasca di macerazione. Ma
poiché il Borrato predetto, anziché riporre le pietre usate per mantenere la canapa
sul bordo della vasca, le rigettava sul
fondo della stessa, questo fatto
provocava le rimostranze del giovane Francesco
Corvino che poco prima non aveva esitato a prestare il proprio aiuto nella
rimozione della canapa. Ne nacque una discussione che diventò più aspra poco
dopo allorché la rottura di alcune funi che reggevano la canapa e la
disordinata caduta della canapa nel fondo della vasca finirono con l’eccitare
ancora di più il Borrato che inzuppato di acqua, prese a profferire ingiurie
contro il Corvino e la sua famiglia ed a sfidarlo di fare a fucilate.
Il Corvino era andato allora ad armarsi
e soltanto l’intervento dei presenti valse a sedare gli animi. Più tardi però, il Borrata corse alla
masseria del Corvino e dopo di essersi impadronito del fucile di costui esplodeva contro il Francesco Corvino, ormai inerme, sei colpi accompagnando il gesto
con le parole: “ Carogna di debbo uccidere”. Si allontanava poi asportando il
fucile a cartucciera. Dalle successive indagini - restava peraltro escluso che
il Francesco Corvino avesse comunque
reagito facendo a sua volta fuoco con una pistola contro il Borrata - particolare questo sostenuto al dibattimento
da Cipriano Coppola - ma in contrasto
con le risultanze investigative. Si
appurò, inoltre, che Francesco Corvino,
era rimasto umiliato dall’offesa patita non soltanto per il pericolo cui la
propria vita era stata esposta, ma per la sottrazione della stessa arma di sua
pertinenza. I suoi familiari avevano evitato che egli uscisse di casa ed il
padre Salvatore si era reso promotore di un tentativo di pacificazione
portandosi nell’abitazione di Borrata
sui suoi lontani parenti. Ma la pacificazione non fu raggiunta ed i
rapporti anzi ne uscirono più inaspriti che mai. Vincenzo Schiavone, che aveva interposto i propri uffici ebbe ad
attendere invano fino a tarda ora della sera nella propria abitazione Francesco
Borrata, che aveva promesso di venire. I Borrata –
apparentemente - sembrarono disinteressati a perseguire la cosa, ritenendosi
soddisfatti della lezione impartita al Corvino. Ma questi, pur interessando Alfonso Funaiuolo, a prendere contatto
con lo Schiavone e pur non recandosi personalmente dai carabinieri, con l’avvio
delle prime indagini – furono diffidati a presentarsi come testimoni. Verso le
12:00 si presentavano in caserma soltanto i due Corvino e così il maresciallo
li invitava a ripresentarsi con i testimoni per le 16:00. Ma verso le ore 16:15
il detto sottufficiale non avendo visto tornare i due Corvino usciva dalla
caserma e giunto in strada veniva informato che
in località quadrivio di Villa Literno
i germani Francesco e Antonio Borrata incontrandosi con Francesco Corvino ed il di
lui padre si erano vicendevolmente
sparati; che oltre a restare mortalmente
ferito Francesco Borrato era stato colpito, per errore, il passante Michele Vitiello. In merito al detto
episodio criminoso è necessario prima riferire quanto ebbero a deporre lo stesso
Vitiello, Ignazio Balzano, ed il figlio
Michele, che stavano in compagnia del primo Raffaele Di Dona, Michele Martinelli Angelo Caterino e Pasquale
Cangiano. In proposito il Di Dona
riferiva che mentre verso le 16:00 egli
si trovava al quadrivio per alcune sue faccende avevano notato i fratelli Francesco e Antonio Borrata su di un carretto, superato il quadrivio stesso
imboccavano la via che mena a Casal di
Principe, poiché sapeva della tensione di
animi esistente, li aveva fermati, deplorando quel che esso Francesco aveva fatto il giorno
avanti in contrada “Torre del Monaco” e facendogli rilevare che fosse
imprudente circolare col fucile essendo ricercato dai carabinieri. Nel
frattempo aveva visto sopraggiungere in birroccio Salvatore Corvino ed il
figlio Francesco, provenienti da “Torre del Monaco”, provvedendo allora ad
avvisarli della presenza degli altri. Mentre però si avvicinava ai Corvino si
era accorto che costoro avevano impugnato le armi. Avevo così gridato loro di
non inguaiarsi. Nel frattempo però, alle sue spalle, erano subito stati esplosi
colpi di arma da fuoco che l’avevano indotto a nascondersi dietro un muro.
Il Martinelli dal canto suo dichiarava
di aver assistito alla sparatoria tra i Corvino ed i Borrato e di aver notato Salvatore Corvino armato di fucile da
caccia, il figlio di una pistola al pari di Antonio Borrata, il cui fratello Francesco era invece
armato di fucile da caccia. Tra i Corvino e i Borrata intercorreva la distanza
di circa 60 metri. Non era però in grado di precisare chi per primo avesse
aperto il fuoco.
Il Caterino dichiarava che stava
portandosi in caserma col Corvino, allorché, giunti al quadrivio di Villa
Literno, Salvatore Corvino si era
sentito chiamare da Raffaele Di Dona
che era intento a parlare con i Borrata. Questi, nel vedere i Corvino, con
mossa fulminea, era disceso dal carretto armato di fucile, facendo alcuni passi
verso il Corvino, senza dare ascolto alle intimazioni di fermo del Di Dona.
Prevedendo qualche cosa di grave si era precipitato a terra trascinandosi il
fucile che Salvatore Corvino teneva
tra le gambe e poi vide raccolto da Francesco
Corvino. Questa versione veniva pure confermata dal Cangiano, in quale
specificava come, seguendo in bicicletta il birroccio del Corvino, si era accorto che i due Borrata, stavano sparando
contro i Corvini e si era perciò affrettato a raggiungere il centro dell’abitato
riuscendo però a notare che Francesco Borrata
imbracciava un fucile e cercava di
avvicinarsi in atteggiamento per continuare il fuoco con una pistola.
Al fuoco
incrociato - aveva subito risposto
Francesco Corvino - mentre Salvatore Corvino non aveva sparato, avendo cercato
invece solo il riparo dietro alcuni carretti. Infine, il Vitiello e gli altri che si
trovavano con lui, precisavano che la sparatoria si era verificata tra quattro
persone che, contemporaneamente, si sparavano stando due di esse, sulla strada per Casal di Principe e le altre
due sul lato opposto del quadrivio. Questi risultati restavano sostanzialmente
invariati nelle deposizioni rese dai predetti testi al magistrato istruttore innanzi
al quale tal Gennaro Ricci, assumeva
di essersi trovato presente al fatto e di aver notato i due Corvino di scendere
precipitosamente dal birroccio con le armi in pugno. Secondo detto teste di due
Corvino, dopo aver profferito la frase: “Dove andate… carognoni… ci dobbiamo
scoppiettare”; erano discesi dal birroccio e, mettendosi al riparo dello stesso,
avevano iniziato la sparatoria contro il carretto. Dei due Borrato, l’Antonio
era fuggito disarmato, mentre Francesco s’era posto dietro il carretto
rispondendo al fuoco con un fucile da caccia di cui armato. Francesco Borrata, nel suo
interrogatorio reso ai carabinieri, subito dopo l’arresto, dichiarava che nel
pomeriggio del giorno cinque verso le 16:00, mentre trovarsi intento
parlare al quadrivio di Villa Literno con il fratello Francesco, erano stati avvertiti di fuggire perché su di
un birroccio proveniente da Torre del
Monaco, sopraggiungevano Salvatore Corvino
ed il figlio Francesco. Costoro nello
scorgerli avevano esclamato: “Carognoni…ci
dobbiamo scoppiettare”, esplodendo immediatamente diversi colpi di arma da
fuoco contro di loro che perciò si erano gettati giù dal carretto che era
diretto a Casal di principe per rincasare. Ma nel percorrere la via Santa Lucia,
avendo notato Elisabetta Schiavone,
avevano esploso contro di lei due colpi di fucile avendo pensato, in un momento
di esasperazione, che trattavasi proprio della madre e della moglie di coloro
che avevano colpito a morte il fratello. Francesco
Corvino, costituitisi il 23
settembre, affermava che egli allorquando
il padre insieme a Caterino ed il Cangiano, che li seguivano bicicletta, erano
giunti al quadrivio avevano notato i
germani Borrata erano fermi sul loro
carretto intenti a parlare con il Di Dona, il quale aveva fatto segno loro di fermarsi. Mentre poi il Di Donato
avvicinatosi nella loro direzione aveva udito una scarica di colpi sparati al
loro indirizzo. Discesi insieme al Caterino dal birroccio egli ed il padre si
erano nascosti dietro ad un veicolo mentre altri colpi di fucile e di pistola
venivano sparato contro di loro. Anche egli poi aveva esploso alcuni colpi di
pistola. Francesco Borrata si era allora
diretto verso di loro armato di un fucile e di una pistola. Aveva allora preso
dalle mani del padre il fucile caricatolo con i colpi delle cartucciera che
aveva addosso aveva all’esploso un sol colpo contro il Borrata che era
stramazzato al suolo. Il fratello di costui, Antonio il quale stando dietro ad
un muro aveva ancora sparato qualche colpo di pistola aveva quindi cessate il
fuoco, permettendo a lui ed al padre di allontanarsi di nuovo verso Cancello
Arnone. Il Corvino negava altresì che suo padre avesse sparato colpi e da che
parte suo fossero state pronunciate frasi di minacce e che si fosse sparato per
prima.
Corvino padre e figlio condannati ad anni 17 e mesi 11 per omicidio e tentato
omicidio. Antonio Borrata, per tre
tentati omicidi, con la diminuente del vizio parziale di mente, ad anni 9 e
mesi 6 di reclusione.
Francesco Corvino, di anni 21; il padre Salvatore, di anni 54, e Antonio
Borrata di anni 41, tutti da Casal di Principe, autori del “mezzogiorno di
fuoco” alla rotonda di Villa Literno, che diedero vita ad una sfida dove trovò
la morte Francesco Borrata e furono
feriti gravemente Antonio Borrata,
Francesco Corvino, Salvatore Corvino e Elisabetta Schiavone, furono tutti rinviati al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere, ( Presidente Giovanni Morfino;
giudice a latere Victor Ugo De Donato;
pubblico ministero, Francesco Ventriglia)
e vennero condannati, i primi due, ad
anni 17 e mesi 11 di carcere, per omicidio e tentato omicidio; il terzo, per tre tentati omicidi, con la diminuente del
vizio parziale di mente, ad anni 9 e mesi 6 di reclusione. Nel corso del
dibattimento il maresciallo Gennaro Cancro,
che ebbe a curare lo svolgimento delle indagini, riferiva in ordine ai
precedenti che tra le famiglie dei Corvino dei Borrata erano corsi per il
passato rapporti normali anche perché la figlia di Salvatore Corvino aveva sposato Giuseppe Borrata, fratello dell’ucciso. I Corvino e i Borrata avevano
già acquistato tempo addietro dagli appezzamenti di terreno in contrada “Torre
del Monaco”.
Durante la ripartizione di tali terreni, in sede di delimitazione
dei confini, Antonio Borrata aveva
esploso un colpo di pistola a terra all’indirizzo di Salvatore Corvino. Il maresciallo Giuseppe Tartaglia riferiva poi di aver appreso da Antonio Di Donna che quando si avvicinò
al calesse dei Corvino uno di costoro teneva già impugnata l’arma tanto che
esso Di Donna aveva ritenuto necessario dire: “Leva di mezzo questo che vi inguaiate”. Subito dopo pronunciato tali parole aveva
sentito alle sue spalle esplodere dei colpi d’armi da fuoco tanto che dovette
ripararsi per non essere colpito. Dopo le arringhe difensive e la requisitoria
del pubblico ministero (che aveva invocato per tutti anni trenta di reclusione)
fu emesso il verdetto. Avverso questa sentenza della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere producevano appello Salvatore
e Francesco Corvino e Antonio Borrata. In particolare Salvatore Corvino chiedeva di essere
assolto dai reati di omicidio e tentato omicidio per non averli commessi in
subordinata per insufficienza di prove per aver agito per legittima difesa. La Corte di Appello di Napoli (Presidente Walter Del Giudice; giudice a latere Rolando Tafuri; procuratore generale Ignazio Custi) acquisita la prova della
compartecipazione al fatto di tutti e quattro gli imputati ritenuti il
carattere casuale dell’incontro e la simultaneità dell’azione reciprocamente
aggressiva del dubbio disconoscendo così ogni possibilità di attribuire non
solo l’iniziativa anche la priorità temporale della messa in pericolo dei
rispettivi avversari.
“Quanto è stato fin qui esposto –
scrissero i giudici nella loro sentenza - non
può che tradursi nel rigetto delle reciproche tesi dirette ad invocare la legittima
difesa e l’eccesso della stessa. La
evidenza della prova in ordine alla simultaneità dell’azione di due gruppi
armati, basata sui detti risultati specifici e generici, porta seco la
conseguenza che – avendo ognuno dei contendenti determinato volontariamente la
reciproca situazione di pericolo nessuno può giovarsi della detta causa di
giustificazione. L’impossibilità di ammettere una legittima difesa reciproca è
resa evidente nella specie del rilievo che entrambe le offese rappresentarono
all’inizio il carattere della ingiustizia e che da entrambe le parti venne
attuata la situazione di pericolo per cui mancò l’ingiustizia dell’offesa ed il
carattere di pericolo della stessa rivelatrice da attribuirsi ad uno solo dei
fatti, condizione sola che possa giustificare l’azione dell’altro. Né potrebbe
ammettersi reciproca la legittima difesa ritenendo che essa sia putativa
rispetto ad una delle parti o ad entrambi, perché la situazione di fatto non
poteva risolversi in un errore ne offriva ben precisi i caratteri reali del
pericolo attuale sia pure con carattere simultaneo alle reciproche contrapposte
azioni. Tuttavia, i giudici di appello ridussero la pena ad anni 11 di
reclusione. La Cassazione confermò il verdetto. Nei processi furono impegnati
gli avvocati: Alfredo De Marsico, Enrico
Altavilla, Orazio Cicatiello, Ettore Botti, Alberto Martucci, e Giuseppe
Garofalo.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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