Il delitto accadde a Parete
il 17 gennaio del 1952
ERMELINDA CHIANESE UCCISE
IL FIDANZATO ALL’USCITA DEL CINEMA
“ITALIA”. ERA STATA SEDOTTA E ABBANDONATA
Due colpi in faccia al suo ex amante
posero fine a 4 anni di passione. Lui sosteneva di non averla resa incinta. Gravida
a tre mese si procurò un aborto e fu denunciata per questo. Fermati il padre ve
vi fratelli della donna ritenuti complici o istigatori del delitto. Una ridda
di ipotesi non escludeva un rapporto incestuoso del padre che aveva avuto
rapporti sessuali con una figliastra.
Parete – Era appena
terminata la visione del film (ironia della sorte) “Ragazze da marito”, un film
di genere commedia del 1952 diretto da Eduardo De Filippo, allorquando, verso
le 21:00 del 17 gennaio del 1952, bruscamente, due colpi di pistola rimbombavano
sinistramente dinanzi all’uscita del cinema “Italia” in Parete, gettando lo scompiglio e la paura fra gli
spettatori che in quel momento uscivano dal locale. Un uomo, Nicola Vitale fu Marco, che usciva da
detto cinema cadeva esanime per terra; una donna, in preda a grande agitazione
impugnando una pistola si dava alla fuga. Questa la scena del delitto.
Informati i carabinieri si portavano immediatamente sul luogo e provvedevano a
dare i primi soccorsi, ma inutilmente, al Vitale, facendolo trasportare nell’ambulatorio
di un locale medico il quale non poté che constatarne il decesso dovuto a
ferita d’arma da fuoco, a proiettile unico, con foro di entrata al setto nasale
e penetrante nella cavità cranica. Indagavano poscia sulla identità della
omicida accertavano che la stessa doveva identificarsi in Ermelinda Chianese di Francesco, che rintracciavano nel domicilio
di Giovanni Picone di Nicola ove la
stessa si era rifugiata subito dopo la perpetrazione del delitto. Costei, interrogata,
dichiarava di essersi effettivamente armato di pistola e di essersi messa in
giro per le vie del paese in cerca del Vitale, suo ex fidanzato, con lo scopo
di ucciderlo; di avere atteso la sua uscita dal cinema Italia e di avere quando
lo vide sortire sparato contro di lui due colpi di detta arma dandosi poscia
alla fuga.
Dichiarava inoltre di aver buttato via
la pistola per terra durante la fuga e di aver commesso il delitto perché il Vitale,
dopo averla sedotta e resa incinta, non aveva più voluto saperne di sposarla,
sostenendo di non essere stato lui l’autore della deflorazione e della
conseguente gravidanza. I carabinieri, sospettando che i familiari della
Chianese potessero avere concorso con la stessa nel fatto da lei commesso,
anche solo moralmente, procedevano al fermo del padre della stessa, Francesco Chianese fu Alessandro,
nonché dei fratelli Alessandro e Pietro, che rintracciavano nella loro
abitazione. Detti individui, però, venivano rimessi in libertà il giorno 19,
non essendo stato possibile reperire a loro carico alcun elemento, tranne
qualche vago sospetto di aver armato la mano loro congiunta e di avere
addestrata all’so dell’arma la stessa. I carabinieri accertavano inoltre che la
causa del delitto andava ricercata effettivamente nella volontà della Chianese
di volersi vendicare dall’oltraggio subito dal suo fidanzato che l’aveva
abbandonata, dopo averla sedotta e resa incinta. Le indagini stabilivano,
inoltre, che dopo la rottura del fidanzamento, il padre della Chianese aveva
fatto intervenire numerose persone, fra le quali Francesco Jovine e Domenico
Tamburrino, per far interporre i loro buoni uffici perché persuadesse il
Vitale a mantenere l’impegno assunto ed a riparare al matrimonio, al malfatto,
ma inutilmente; data la ostinazione di esso Vitale di sostenere di non essere
stato l’autore della deflorazione e del concepimento. Stabilivano la causa della rottura del
fidanzamento era stata provocata dal fatto che avendo la Chianese confidato al
Vitale di essere incinta costui si meravigliava ritenendo che - superficiali
contatti che egli sosteneva aver avuto con la giovane - non potesse aver avuto
la idoneità a produrre il concepimento. L’incredulo fidanzato l’aveva fatta
visitare ginecologicamente prima dal dottor Luigi Falco di Parete e poi dal dottor Alberto Gallo di Aversa, ottenendone il responso di una avvenuta,
completa deflorazione e stato di gravidanza, al terzo mese nella Chianese. Che
a seguito di tali risposte aveva avuto dei litigi con la fidanzata alla quale attribuiva
il fatto di essersi fatta deflorare e rendere incinta da altri. Dopo alternative di dubbi ed incertezze, dopo
aver promesso di riparare, non aveva voluto fissare una data per il matrimonio
e si era anzi definitivamente allontanato dalla Chianese. Questa, nel suo
culmine, la tragedia. Nel corso delle successive indagini si appurò che la
ragazza non era incinta al momento del delitto ma che aveva avuto un aborto
pochi giorni prima. Per cui i carabinieri non solo la denunciarono per
l’omicidio, ma m anche per procurato aborto.
Si
procedeva quindi nella formale istruzione e si accertava che il Vitale era stato
attinto da un proiettile di calibro sette 65, il quale, penetrato dal terzo
medio del dorso del naso, gli aveva attraversato a tutto spessore, l’osso
etmoide e quello del corpo dello sfenoide, penetrando quindi nella fossa
cranica posteriore, ove aveva leso il tessuto nervoso del bulbo e del
cervelletto, perforando l’osso occipitale
e fermandosi sotto la “galea capitis”.
Si accertava, inoltre, che detto colpo
era stato esploso, probabilmente, dalla distanza di 2/3 m. circa, stando il
feritore e leso in piedi l’uno di fronte all’altro. Nel formale interrogatorio
la Chianese confermava la narrazione dei
fatti come dichiarati ai carabinieri nei precedenti interrogatori; negava di aver
sparato due colpi contro il Vitale - ammettendo di avere sparato soltanto uno da
breve distanza - con una pistola di marca Beretta calibro 7,65, carica di otto colpi, di cui uno già in canna,
dopo aver rimosso il dispositivo di sicurezza della pistola, a suo dire, pistola già appartenente alla vittima dalla quale
aveva ricevuto in affidamento e che non aveva più restituito. Negava di essere
rimasta incinta ad opera del Vitale e di essersi abortita dietro istigazione di
costui. Un accertamento generico
eseguito in proposito stabiliva che la Chianese era stata invece incinta e che
l’interruzione della gravidanza si era verificata nei primi mesi della
gestazione.
In ordine alle modalità del delitto i verbalizzati
disponevano l’acquisizione testimoniale di
Maria Torellini, Francesco D’Angiolella, Nicola Chianese, Giacomo Di Sarno,
Salvatore Andreozzi, Francesco De Chiara, Giovanni Picone, Pasquale Barretta. Mentre in ordine ai
precedenti e alla causa dell’omicidio deponevano sia il Luigi Falco che Carmosina Iovine, e gli altri testi: Domenico Tamburrino, Francesco Iovine, Raffaele Ferrara, Maria Pellegrino, Carmela D’Alterio, Raffaele Pezone, Raffaele Tesone, Raffaele Capone, Luigi Comune,
Raffaele Di Sarno, Giovanni
Mottola, Nicola d'Alessandro e la
madre della vittima Maria Adelaide Pezone.
A chiusura della istruttoria formale il pubblico ministero chiedeva ordinarsi il
rinvio della Chianese al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere, per rispondere di omicidio e
di disporre l’archiviazione degli atti relativamente all’aborto patito per non
essere emersi elementi probatori di reato.
I
giudici della sezione istruttoria della Corte di Appello di Napoli dichiararono
che la colpevolezza della Chianese era risultata invero in modo inconfutabile
provata sia in ordine alla materialità del fatto che l’elemento psichico della
stessa, la giudicabile difatti era rea confessa. La stessa ha ammesso di avere
sparato due colpi continui da brevissima distanza colpendolo col primo di
essi al capo. Tale confessione, avallata da coloro che assistettero alla scena
sopra menzionata i quali videro la donna
scappare dal luogo e notarono il Vitale cadere per terra. In ordine all’elemento intenzionale del
delitto basta riportarsi alla postuma tesi difensiva (peraltro appena adombrata
nel secondo interrogatorio dalla imputata) secondo la quale la stessa non aveva
intenzione di uccidere il suo ex fidanzato ma solo spaventarlo. Tutti gli atti del processo, tutte le deposizioni,
tutti gli atteggiamenti della Chianese, in occasione del delitto; col portare
sulla sua persona una pistola con colpo in canna, col mirare al capo della
vittima colpendolo senza mai pentirsi e farsi desiderare; tutto ciò mal si
concilia con la struttura psicologica della donna in genere e con la natura e
la causale del reato. Un comportamento contraddittorio, quasi da
psicopatica, i quali, pur essi
contrastanti con una deliberata è fredda volontà di uccidere. Come per esempio
il fatto d’aver la Ermelinda Chianese,
pochi giorni prima del delitto, e con l’avvicinarsi delle feste natalizie, mandato in dono al Vitale dei pezzi di carne
suina ricavati dalla macellazione che la famiglia aveva fatto di un tale animale
e cioè quando aveva già assunto atteggiamenti
minacciosi contro l’ex fidanzato.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
LA CORTE LO RITENNE UN DELITTO D’ONORE.
UNA MITE PENA AD OTTO ANNI DI CARCERE CON LA SCRIMINANTE DELLA PROVOCAZIONE E
DEL PARTICOLARE MOTIVO MORALE E SOCIALE. IL FIDANZATO AVEVA SEMPRE NEGATO DI
ESSERE IL SUO SEDUTTORE
Dopo
un anno e tre mesi dal delitto, Ermelinda
Chianese, accusata di omicidio volontario in danno del suo ex fidanzato Nicola Vitale, perché da lui sedotta ed
abbandonata, comparve innanzi alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere
(Presidente Giovanni Morfino;
giudice a latere, Angelo Lerro;
giudici popolari: Vincenzo Picone, Michele Ferrucci, Lorenzo Iannelli, Domenico
Volante, Amedeo Testa, Raffaele Capuano) difesa dall’Avv. Giuseppe Garofalo. Interrogata dal
presidente in udienza la Chianese ebbe a dichiarare che:”Conobbi Nicola Vitale nel 1948 e dopo breve tempo mi fidanzai
ufficialmente con lui tanto è vero che egli frequentava continuamente la mia
casa col consenso dei miei e dei suoi genitori. Egli si dimostrava molto
affezionato verso di me e perciò, un paio di anni dopo, una sera cedetti alle
sue lusinghe. Tale episodio che avvenne
un giorno in cui era rimasta sola in casa… poi il Vitale, numerose altre volte
si è congiunto con me. Il mese successivo mancavano le mestruazioni e quando lo
riferii al mio fidanzato egli rimase sensibilmente turbato. Il Vitale, che già
aveva promesso di sposarmi fino al 1951, iniziò ad assumere un atteggiamento
curioso diradando le sue visite e definitivamente ecclissandosi”. La Corte,
dopo la requisitoria del pubblico ministero che aveva chiesto una condanna a 14
anni di reclusione, decise che in “ordine all’elemento intenzionale del reato
non poteva presentare alcuna attendibilità la escogitazioni difensiva della
imputata di aver sparato soltanto per impaurire il Vitale, perché l’atteggiamento da lei assunto prima
del delitto e specie in occasione della consumazione dell’omicidio, recandosi
ad attendere il fidanzato che doveva uscire dal cinema “Italia” di Parete, dopo
essersi armata della pistola col colpo già in canna e mirando poi al capo della
vittima a pochi passi di distanza dalla stessa, nonché le pur accertate minacce
consumate contro il fidanzato in varie occasioni prima del delitto, stanno a
significare che la imputata, coscientemente e volontariamente, si decise ad
uccidere il fidanzato dopo essere stata sedotta e resa incinta da costui. Ed
all’uopo occorre opportuno rilevare che - non vi può essere alcun dubbio che il
seduttore della Chianese dovette essere il Nicola
Vitale al quale soltanto come si evince dalle tavole processuali ed è lei a
permettere di abusare della sua persona, facendosi deflorare durante il non
breve periodo di fidanzamento durato oltre due anni, poiché vi è stata una sola
voce concorde dei testi nel dichiarare che la Chianese era di ottima moralità.
Nè può inficiare tale sicuro elemento di prova favorevole alla imputata la
circostanza - pur affiorata nel processo
- di rapporti tra il padre della
Chianese con la figliastra Maria
Concetta poiché l’abuso del patrigno nei riguardi della figliastra - che fisiologicamente è in una posizione
diversa dalla propria figliola - non
permette di ritenere che il padre abbia abusato anche della propria figlia, specie quando nulla si è potuto dire dai testi
nemmeno da quelli di carico contro la unanime dichiarazione di aver sempre la Ermelinda Chianese ha avuto un
comportamento di ragazza seria e da bene.
“Ed allora in siffatta situazione –
scrissero i giudici nelle loro motivazioni - non può revocarsi in dubbio che l’autore della
deflorazione, seguita come verosimile ritenere da altri congressi carnali, fu
il Vitale, il cui comportamento successivo ai rapporti intimi con la Chianese,
concretatasi con l’abbandono definitivo della stessa, deve perciò essere
considerato ingiusto ed idoneo ad
integrare l’attenuante della provocazione in favore della imputata che ebbe ad
agire nello stato d’ira e di risentimento determinato dal fatto ingiusto del
fidanzato. Né vale ad escludere tale attenuante la circostanza, di aver potuto,
in perfetta buona fede, il Vitale pensare che altra persona avesse compiuto in
danno della Chianese quanto a lui attribuito, poiché tale erroneo convincimento
del Vitale non sarebbe sufficiente a giustificare obiettivamente la condotta da
lui tenuta nei confronti della Chianese una volta accertato che tale condotta, a
sé stante, costituiva il fatto ingiusto che provocò la reazione dell’imputata.
Ed alla stessa ravvisa equa la Corte concedere anche il beneficio della
conclamata buona moralità della Chianese che conferisce - alla sua azione
delittuosa - quel particolare significato di difesa del proprio onore e della
propria reputazione, quale motivo di rilevante valore morale secondo la ormai costante
giurisprudenza relativa al delitto di omicidio consumato - come nella specie - da donne di buona moralità
sedotte ed abbandonate poi dall’autore della seduzione. Alla Chianese – concluse la Corte - infine si
stima opportuno concedere anche il beneficio delle attenuanti generiche perché
incensurata. La condanna definitiva per
il reato di omicidio volontario nei confronti del fidanzato, con le attenuanti
di cui sopra, è stimata in otto anni di reclusione.
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