Il delitto accadde a Villa di Briano il
7 marzo del 1951
Giuseppe Conte uccise la sorella Rosa
con 4 colpi di pistola alla presenza di un’altra sorella e due nipotini.
Alla base del truce
delitto la spartizione degli utili di una fabbrica clandestina per il
contrabbando dell’alcool. Il cruento episodio fu germinato dalla istigazione
della moglie dell’assassino che odiava le cognate le quali l’accusavano di
avere un amante - L’attività truffaldina della fabbrica clandestina bloccata
dalla Guardia di Finanza.
Villa
di Briano - La
mattina del 7 marzo del 1951, in località “San Lorenzo”, dell’agro di Villa di
Briano il contadino Giuseppe Conte, di anni 37, esplodeva all’indirizzo della
sorella Rosa quattro colpi di pistola del calibro 10, 35 attingendola alla
guancia destra, alla regione mastoidea destra, al giagulo ed alla regione epigastrica destra. Subito dopo si dileguava
quindi nelle campagne circostanti. Rosa
Conte, trasportata con mezzi di fortuna al suo domicilio, vi decideva poco
dopo per grave emorragia interna avendo i colpi inferti alla gola ed alla
regione epigastrica recisa la trachea e varie anse intestinali. I carabinieri,
prontamente intervenuti, non poterono raccogliere alcuna dichiarazione della
ferita già prossima al trapasso. Presenti
al grave fatto di sangue, secondo i risultati dell’indagine esperite dai militi,
una sorella dell’uccisa Maddalena Conte,
maritata Mastroianni, e due bambini: Maria
Conte di Giovanni, di anni otto, ed il figlio della Maddalena, Antonio di
anni tre. Alle grida invocando di soccorso, ma ad azione esaurita erano accorsi,
da una vicina cava di tufo, alcuni cavapietre nonché dei contadini intenti al
lavoro nei campi. La causale del fatto
andava ricercata - su comune informazione dei germani della vittime dell’uccisore
- in vecchi dissidi che avevano divisi i familiari Conte in due gruppi contrapposti
ed ostili: il Giuseppe da una parte e la Rosa, Maddalena, Giovanni e Nicola
dall’altra, tutti associati un tempo in un’attività delittuosa che aveva
cagionato loro più danni che incrementi patrimoniali: la fabbricazione
clandestina dell’alcol. I proventi dell’impresa incassati dalla Rosa Conte che
fungeva da amministratrice della società venivano dalla medesima distribuiti
fra i partecipanti. Il Giuseppe si era più volte lagnato con la sorella Rosa
per pretese disparità delle quote attribuite assumendo di avere ogni volta
beneficiato dei profitti in misura minore degli altri soci. Per tali motivi l’armonia,
che avrebbe dovuto regnare tra i fratelli soprattutto in funzione del rischio
che l’attività comune comportava, venne a cessare e subentrò fra le parti un
regime di sofferenze e di astiosità. Cominciarono intanto le sorprese della
Guardia di Finanza con sequestro dei macchinari e denunce all’autorità
giudiziaria. In una di tali operazioni venne tratta in arresto la moglie di Giovanni Conte, Giuseppina
Romano, che si era lasciata sorprendere nel locale destinato a
quell’attività delittuosa. Costei riportò condanna a pena pecuniaria
convertibile per mancato pagamento di pena detentiva. Richiesto di contribuire
nella ripartizione dell’onere allo scopo di evitare la carcerazione alla
Giuseppina, che per le sue condizioni di infermità male avrebbe tollerato
quella restrizione il Giuseppe dapprima oppose un netto rifiuto, assumendo di
non essere tenuta a quello esborso perché defraudato dei suoi diritti in sede
di ripartizione degli utili. Alla fine, pressato dalla insistenza di quelli
versò lire 7000 nelle mani di una persona di fiducia in attesa di un preciso
conteggio. Il giorno successivo però tale somma fu novellamente ritirata ad
opera dalla moglie del Giuseppe, Dionisia
Traettino col pretesto che l’importo da corrispondere a titolo di multa era
stato artificiosamente esagerato per frodare esso Giuseppe. Le liti si
inasprirono in scontri violenti con alterne vicende.
Il Giuseppe si separò allora dai germani impiantando altrove
la propria fabbrichetta clandestina rapidamente individuata e smobilitata dalla
Guardia di Finanza. Egli, però, attribuì la sua disavventura più che alla
sagacia e al talento investigativo degli agenti alla reazione dei suoi
congiunti. Messo alle strette dai suoi avversari dimoranti con il Giuseppe in
un unico edificio, alla fine costui trasferì altrove la sua abitazione,
togliendo in fitto alcune camere site
nella medesima strada. Non per questo gli attriti e le angherie cessarono. Nel
suo nuovo alloggio il Giuseppe patì altro affronto tanto da dover ricorrere
alla minaccia col fucile per estromettere i suoi germani che vi si erano immessi
per una ennesima dimostrazione. Il
Giuseppe si rivolse allora all’azione legale producendo prima querela a carico dei fratelli, sollecitando poi il procuratore della
Repubblica per il suo autorevole intervento che valesse a distogliere gli
avversari dalla campagna di odio che
costoro conducevano contro di lui osteggiando finanche la locazione di vani
lasciati dal Giuseppe e di proprietà del
medesimo. Grazie all’interposizione dei carabinieri disposta dal procuratore
della Repubblica parve che la pace fosse ristabilita. La mattina del 7 marzo
invece la vicenda precipitò nel peggio. La Maddalena Conte, presente al fatto,
come si disse riferì che essendo con la sorella Rosa diretta quel mattino in un
proprio fondo a lavorare si incontrò con il Giuseppe che era fermo ad attenderle
sulla strada che quelle dovevano ulteriormente percorrere. Egli prese
pacificamente discutere con la sorella Rosa, intrattenendola sulle modalità
della definizione delle loro pendenze promettendo che avrebbe rimesso le querele
sporte contro i germani. Accomiatandosi alla fine dalle sorelle egli aveva
ripreso la via del ritorno allorché su sollecitazione della moglie Dionisia
Traettino, sbucata improvvisamente da un riparo, ritornò sui propri passi ed
apostrofò con volgari parole la sorella Rosa ed iniziò una
nutrita sparatoria contro costei che cadde riversa nel proprio sangue. La
piccola Maria Conte (presente al
momento del delitto) riferiva a sua volta che lo zio Giuseppe, mantenendosi tranquillo nel corso del colloquio con la
zia Rosa, con la quale aveva
addirittura scherzato, poi senza un motivo apparente cominciò a sparare contro
quella fino ad abbatterla. La bambina dichiarava che da parte delle due donne
nessun gesto aggressivo fu posto in essere nei confronti di Giuseppe. Smentiva infine la zia Maddalena in rapporto alla comparsa
della Dionisia Traettino ed alla istigazione ad uccidere alla stessa
addebitata. Ella infatti non vide e non udì alcunché. Tratto in arresto qualche
giorno dopo dai carabinieri di Villa di Briano, Giuseppe Conte dichiarò a sua discolpa di essersi incontrato per
mero fortuito caso con le sorelle Rosa
e Maddalena. Invitato dalla Rosa ad un abboccamento l’aveva seguito
lungo la strada che mena al fondo coltivato alla stessa. La donna, alle sue
profferte di pace pose come condizione che egli abbandonasse sua moglie cui
addebitava infedeltà verso il marito ed ostilità verso i familiari di lui. Alle sue rimostranze la Rosa progressivamente eccitandosi gli si avventò contro prendendolo
alla gola mentre l’altra sorella Maddalena
levò in alto la vanga in suo possesso col manifesto intento di vibrargli un
colpo al capo. Pronta fu a questo punto la sua reazione estrinsecatasi
nell’esplosione di un numero imprecisabile di colpi all’indirizzo della sorella
Rosa. Costei, tra gli altri germani,
era stata quella che lo aveva maggiormente angosciato in ogni modo; prima
sottraendo somme alla quota degli utili spettatigli sui proventi dell’esercizio
sociale; guidando poi i congiunti nella serie di vessazioni in suo danno col
fomentare odio e spirito di vendetta
contro di lui e di sua moglie. Esponeva l’imputato le sue molteplici
disavventure, il programma di pace costantemente e sinceramente perseguito, le
lezioni infine delle vie legali, per la tutela dei suoi diritti. Nella fase
istruttoria venivano escussi testimoni delle varie circostanze nelle quali l’episodio
si articolava. Veniva così ad escludersi la partecipazione al delitto di Dionisia Traettino che era nella propria
abitazione nel momento dell’esecuzione dell’omicidio. I congiunti dell’imputato
della fazione a lui contraria e cioè Giovanni,
Maddalena, rispettivi congiunti, Giuseppina Romano, Luigi Mastroianni e Nicola Conte,
esprimevano sfavorevole giudizio a carico del Giuseppe che, dominato dalla moglie, aveva negli ultimi tempi
avvelenati i suoi rapporti con i germani, rifiutandosi di partecipare alle
perdite della gestione sociale così come tutti partecipavano ai profitti. Negavano
di aver provocato l’intervento e la sorpresa della Guardia di Finanza nella
fabbrica clandestina impiantata dal Giuseppe e di aver ostacolato la locazione
dei vani lasciati da costui per mero spirito di rappresaglia avendo al
contrario tentato con ogni mezzo di favorire il ritorno del Giuseppe nell’abitazione
paterna e con una fraterna riconciliazione. Sotto questa luce doveva
interpretarsi l’episodio accorso in casa carbone
nuova residenza del
Giuseppe, presso il quale si erano tutti
recati per indurre il familiare alla pacificazione. L’accoglienza riservata
loro da quest’ ultimo fu tutt’altro che lusinghiera - sempre che le messe
odiose della Dionisia Trentino che
quell’accordo con ogni mezzo sabotava. Fu lei infatti che porse al marito il
fucile perché se ne servisse contro i fratelli. Essi avevano interesse a
ristabilire normali rapporti col congiunto e da sollecitarne il ritorno non potendo
gradire nell’ambito della loro abitazione ove si svolgeva un traffico illecito
inopportuni controlli di terzi. Informavano inoltre di un atto di vendita
fittizia posto in essere dal Giuseppe
qualche giorno prima del delitto, dei suoi beni immobili, nei confronti della
cognata Primavera Traettino. La
suocera della Maddalena Conte, Rosa
Santoro, riferì che la mattina del
delitto incontrò il Giuseppe il quale ebbe modo di apprendere da lei medesima
che Rosa e Maddalena si erano recate al lavoro nel fondo in località “San
Lorenzo”. Poco prima il Giuseppe si era incontrato con le predette nel cortile
della casa paterna dove si era recato per ritirare delle cose depositate nei
locali di sua pertinenza. Poi il delitto in tutta la sua drammaticità.
LA CONDANNA FU A 17 ANNI DI RECLUSIONE CON L’ATTENUANTE DELLA
PROVOCAZIONE E LA CONCESSIONE DELLE GENERICHE. L’IMPUTATO DOVETTE SBORSARE FIOR
DI MILIONI PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO. PENA RIDOTTA AD ANNI 12 IN SEDE DI
APPELLO.
In esito alle prove acquisite il
giudice istruttore, su conforme richiesta del pubblico ministero, disponeva il
rinvio a giudizio, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,
(Presidente, Giovanni Morfino;
giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico
ministero, Nicola Damiano; giudici
popolari: Aniello D’Angelo, Ferdinando Del Rosso, Vittorio Di Lorenzo, Gennaro Pagano, Paolo Corvino, Salvatore Zimbardi
e Aldo Fusciello) di Giuseppe Conte sotto l’imputazione di
omicidio volontario in danno della sorella Rosa,
nonché di detenzione e porto di arma da
guerra. Veniva esclusa la contestata aggravante della premeditazione per il
concorso di taluni elementi di fatto che facevano dubitare della irrevocabilità
del proposito delittuoso. La Dionisia Traettino
(moglie dell’assassino), già investita dall’azione penale per concorso nell’omicidio
ascritto al marito, veniva prosciolto con formula piena risultando provata la
sua innocenza. Nel dibattimento l’imputato confermava i suoi precedenti
interrogatori insistendo sulla prospettata tesi della legittima difesa. Quanto
all’arma usata dichiarava trattarsi di pistola a rotazione. I germani dell’imputato
dichiararono che ogni dissenso era ormai cessato sia pure a quel prezzo.
Confermavano, nel resto, le precedenti dichiarazioni. Nella discussione finale
il pubblico ministero chiedeva affermarsi la colpevolezza dell’imputato in
ordine al reato di omicidio e con la concessione della attenuante della
provocazione irrogarsi la pena di anni 22 di reclusione per l’omicidio e mesi
due di arresto Lire 10.000 di ammenda per l’omessa denuncia e mesi otto di reclusione
e 15.000 lire di multa per il porto abusivo dell’arma. La difesa dell’imputato
chiedeva nell’interesse dello stesso ritenersi la scriminante della legittima
difesa o l’ipotesi dell’eccesso colposo di legittima difesa. In linea subordinata
chiedeva concedersi al Conte le attenuanti generiche e le discriminanti della
provocazione ed i motivi di particolare valore morale e sociale ed esibiva, infine,
scrittura privata contenente dichiarazione di tutto al risarcimento dei danni
prodotti dal reato a firma dei congiunti della uccisa.
“Le richieste
subordinate della difesa - scrissero i giudici nella loro motivazione - in ordine alla concessione di attenuanti,
vengono accolte convitatamente alle circostanze generiche ed alla provocazione.
Competono le prime per i buoni precedenti penali del colpevole - che gli stessi
congiunti definiscono fondamentalmente buono – difettano in lui note spiccatamente
criminale e il suo delitto si appalesa come espressione di una carica emotiva traente
origine da particolari situazioni familiari ed ambientali”.
“Queste stesse ragioni ostano alla
concessione dell’altra attenuante – chiarì il dispositivo del verdetto emesso
dalla Corte - motivo di particolare
valore morale sociale, la quale compete solo quando l’agente sia immune da
colpa rispetto alla situazione da sanare e non altrimenti emendabile. Va condiviso
l’apprezzamento del pubblico ministero, circa la definizione giuridica di reati
concorrenti all’arma. Quanto alla misura delle pene la Corte ritiene per l’omicidio
di partire dagli anni 27 di reclusione, ridotta di anni cinque per le
attenuanti generiche e di altri anni cinque per la provocazione; in tutto
condanna il reo alla pena complessiva di anni 17. Infligge, altresì, per il porto abusivo di
pistola mesi quattro di reclusione e Lire. 16.000 di multa, l’interdizione
perpetua dai pubblici uffici e quella legale durante la pena. In appello la
pena fu ridotta a 12 anni.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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